Codeine Tag Archive

Gli album in arrivo a settembre

Written by Novità

Un po’ di dischi in uscita che noi non vediamo l’ora di ascoltare (e magari anche voi).
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Chi suona stasera? – Guida alla musica live di maggio 2018

Written by Eventi

New Order, Angel Olsen, Father Murphy, Yo La Tengo, June of ’44… Tutti i live da non perdere questo mese secondo Rockambula.

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‘Chi suona stasera?’ – Guida alla musica live di gennaio 2018

Written by Eventi

Depeche Mode, Piers Faccini, Shijo X, Morkobot… Tutti i live da non perdere questo mese secondo Rockambula.

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Codeina

Written by Interviste

Ciao ragazzi. Complimenti per la vostra ultima fatica Allghoi Khorhoi. Partiamo da una domanda banale ma necessaria. Che c’entra il nome di una creatura leggendaria, un enorme verme che vive nel deserto del Gobi con i Codeina e la vostra musica?

Ci piaceva l’idea di un verme, per consuetudine creatura infima, non considerata, disprezzata, che in questa occasione assume una posizione di forza. L’Allghoi Khorhoi è un mostro mitologico che si nasconde in lunghi cunicoli scavati sotto il deserto e attacca l’uomo con scariche elettriche o secernendo acido. Quest’essere è talmente radicato nel folklore di quelle zone che ancora oggi la sua figura è vissuta con grande rispetto mantenendo allo stesso tempo il potere di incutere timore. L’abbiamo interpretato come un simbolo di rivalsa, di ribellione dal basso. Una rivoluzione nascosta e silenziosa, che striscia nelle profondità del terreno ed è pronta a esplodere all’improvviso.

Passiamo a voi. Come nasce una band come la vostra e un album come Allghoi Khorhoi?

I Codeina nascono nel 1998 in uno scantinato di periferia. Da qui passano gli anni accompagnati da tanti cambi di formazione alla ricerca degli elementi più “psico-sociopatici”. I Codeina che vedete oggi suonano insieme da tre anni e, fortunatamente, non si registrano danni a persone o cose. Allghoi Khorhoi non è nient’altro che la naturale evoluzione di Quore. Hidalgo Picaresco, il nostro primo album. Un’“evoluzione” del processo creativo, con un approccio più libero e maturo alla proposta e all’elaborazione del pezzo. Allghoi Khorhoi è la prosecuzione di un’esigenza comune di tradurre in musica disagi e insoddisfazioni quotidiane, da una sfera personale e intima a un’altra più ampia e strutturata, sociale e culturale, che riguarda l’intero nostro paese.

La codeina è un derivato della morfina ma Codeine è anche il nome di un mitico gruppo Slowcore statunitense. A quale di questi due paragoni siete più legati? Conoscevate la band di Stephen Immerwahr al momento di scegliere il nome e c’è qualcosa che vi lega, musicalmente parlando?

Dovendo scegliere a cosa siamo più legati, sicuramente sarebbe il derivato della morfina. Ai tempi non conoscevamo i Codeine e non esiste un legame musicale nonostante sia un gruppo che oggi apprezziamo.

Ascoltando i brani di Allghoi Khorhoi sembrano ritrovarsi diverse chiavi di lettura. C’è qualcosa in particolare che unisce le dodici tracce, sotto l’aspetto delle tematiche trattate più che, ovviamente, sotto quello puramente musicale?

Senza alcun dubbio il nervosismo quotidiano. Ogni singola traccia nasce come un esercizio atto a reprimere, veicolare ed espellere il nervosismo che viviamo quotidianamente in qualcosa che sia legale, lecito e magari anche terapeutico.

La vostra musica rimanda soprattutto al più canonico Alternative Rock in lingua italiana. Gli scomodi paragoni si rifanno a Verdena, Afterhours e Teatro degli Orrori. Quanto c’è di vero in queste similitudini? Quanto sono cercate e quanto sono naturale evoluzione dovuta alla vostra formazione personale?

Afterhours direi forse per i primi dischi, per gli altri due paragoni le fonti “estere” da cui hanno e abbiamo attinto sono prettamente le stesse. Noi non facciamo che suonare ciò che maggiormente ci piace ascoltare.

La scena alternativa (passatemi il termine) italiana si sta spaccando pericolosamente in due tronconi. Da una parte il cosiddetto Indie Pop Cantautorale stile Dente, Luci e Brunori, Lo Stato Sociale e dall’altra chi prova a suonare più Rock, violento, nudo e crudo. Per ora il pubblico sembra apprezzare più i primi ma è veramente una questione di scelte o piuttosto un sapersi “vendere” con più efficacia?

Pensiamo si tratti di scelta della massa: semplicemente il cosiddetto pop cantautorale è parte della storia musicale italiana che tutti conoscono (Battisti, De André, Dalla, De Gregori, Guccini ecc ecc.) mentre non ci vengono in mente gruppi per così dire “violenti nudi e crudi ” che abbiano un seguito di simili proporzioni… Basta chiedersi quale sia ancora oggi il festival musicale più importante in Italia…e la risposta si delinea ancora di più. Poco cambia in ambito “alternativo” perché siamo da terzo mondo in materia di cultura musicale e non solo…

Tornando a questa questione, sembra sempre più raro vedere andare a braccetto la qualità e, conseguentemente, il riconoscimento della critica, con i numeri dati dalle vendite di Cd e merchandising, oltre che di ingressi ai live e chiamate per i concerti. Qual è allora il problema, se esiste un problema?

Pubblicità, interessi, soldi. Una proposta musicale sui mass media è incentrata esclusivamente su questi valori. Incapacità o svogliatezza di giudizio critico dal lato del ricevente.

Dall’ascolto di Allghoi Khorhoi, emerge un lavoro intenso, carico di rabbia eppure non troppo originale nello stile. Quanto conta oggi suonare diversi dagli altri e quanto è utile e importante, in termini di riconoscimento di pubblico e critica, essere diversi in superficie e quindi formalmente o piuttosto nella sostanza?

Credo sia un po’ arduo in questo preciso momento storico avere l’obiettivo, la capacità e la superbia per poter anche solo pensare di fare musica “diversa e originale”. Ci concentriamo più su un lavoro di sostanza.

Recentemente, in occasione del M.E.I., mi è capitato di leggere diverse discussioni circa il ruolo attuale delle etichette. Da una parte chi sosteneva che siano le band a dover fare gran parte del lavoro di “formazione” di una base di fan per rendersi appetibili alle label e dall’altra chi ritiene più opportuno che siano le stesse etichette a fare il lavoro che far crescere le band, in ogni senso. Voi da che parte state? Che rapporto avete con la vostra etichetta?

Noi non abbiamo alcuna etichetta. C’è un po’ di verità in entrambe le affermazioni ma credo che la situazione generale a livello di etichette e fondi sia abbastanza grigia e al limite della sopravvivenza. Per cui fanculo e DIY!

Torniamo al disco, Allghoi Khorhoi. Provate ad essere sinceri. Quali brani sono quelli che più sentite vostri, rappresentativi del vostro stile e del vostro carattere? C’è almeno un pezzo che proprio non vi piace?

Sono tutti lati dello stesso carattere, nessuno escluso. Va bene autodefinirsi “psico-sociopatici” ma non siamo ancora del tutto pazzi da inserire nel disco materiale che non ci piace. Oltretutto non abbiamo imposizioni, pressioni o obblighi contrattuali cui sottostare.

Che rapporto avete con la critica musicale? Su Rockambula avete avuto una sufficienza e parole buone ma tiepide. Ha ancora un valore che vada oltre la mera propaganda, il lavoro del critico/opinionista musicale?

Per il primo album abbiamo contattato direttamente webzine e riviste, ottenendo stranamente un buon riscontro sia in termini di numeri sia oserei dire di critica… per Allghoi Khorhoi siamo solo all’inizio.Tante volte ci può essere mera propaganda dietro al critico. C’è chi si improvvisa critico o chi si trova a recensire qualcosa che detesta o di cui non ha un background conoscitivo. In ogni caso dietro una recensione, positiva o negativa che sia, si capisce subito se chi sta analizzando un disco ha gli strumenti giusti per poterlo fare o meno.

Perché un ipotetico lettore di Rockambula, che si trova davanti a centinaia di consigli e suggerimenti ogni mese, dovrebbe dedicare a voi un’ora della sua vita?

Perché il disco dura 44 minuti e noi gli regaliamo i restanti 16 minuti per fare ciò che più gli piace.

Quando e dove potremo vedervi suonare dal vivo? E che tipo di spettacolo dobbiamo aspettarci?

“Il più grande spettacolo dopo il big bang”. A breve ritorneremo a calcare le scene partendo dalla Brianza e Milano.

Ciao e speriamo di vederci presto.

Grazie, a presto!

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The Martha’s Vineyard Ferries – Mass Grave

Written by Recensioni

Grandi nomi si celano dietro quello un po’ strampalato (poi si spiegherà tutto) del progetto statunitense The Martha’s Vineyard Ferries, trio dalla potenza e dal sound unico. Ci sono la voce e la chitarra di Elisha Wiesner, già con Kahoots discreta e misconosciuta band Alt Rock del nuovo millennio. Poi c’è il basso di un certo Bob Weston. Proprio lui. Uno dei tre Shellac, tra le più grandi band Post Hardcore mai scese sul pianeta terra e la creatura più nota del genio di Steve Albini. Bob Weston, tecnico degli strumenti nel capolavoro dei Nirvana, In Utero e membro, oltre dei già citati, anche di Crush Senior, basso e tromba, Mission of Burma, tape manipulation e loops dal 2002 e Volcano Suns, basso dall’87 al 92. A chiudere il trio meraviglioso Chris Brokaw, batterista e membro di band come Come, Consonant, Dirtmusic, Empty House Cooperative, The New Year, Pullman, Snares & Kites e soprattutto Codeine, una delle più clamorose stupefazioni dello Slowcore.

La nascita della band è delle più banali che si possano trovare cercando nelle biografie dei loro colleghi. “Tutto iniziò come uno scherzo”. Sono parole che accompagnano un’infinità di progetti e anche in questo caso calzano a pennello. Tutto iniziò come uno scherzo e divenne una cosa seria quando, nel 2010, per la Sick Room Records, The Martha’s Vineyard Ferries tirò fuori il primo Ep, In The Pound. E la storia comincia. La cosa più ovvia che ci si possa aspettare, viste le premesse, è che la musica gettata in questa fossa comune sonica sia un avvicendarsi delle diverse esperienze antecedenti dei tre membri ed effettivamente sono svariati gli elementi che possiamo riscontrare nei brani che accomunano stilisticamente i The Martha’s Vineyard Ferries ora alla potenza grezza del Post Hardcore di Shellac (“Wrist Full Of Holes”), ora alle ossessioni ritmiche dello Slowcore dei Codeine (“One White Swan”). E lo stesso ragionamento è replicabile per ognuna delle formazioni tirate in ballo nell’introduzione alla recensione. Eppure il sound che disegnano i tre yankee finisce per somigliare a tutto senza sembrare nulla di preciso. In talune circostanze pare di assistere alla prigionia soffocante di uno spirito Punk Hardcore (“Parachute” e la fantastica “Blonde on Blood”, una cavalcata elettrica verso la morte) nelle gabbie liquide e mentali del Folk psichedelico (“Wrist Full Of Holes”, “One White Swan”) e del Pop (“She’s a Fucking Angel (From Fucking Heaven)”, “Look Up”). Ogni brano è essenziale, potente e semplice allo stesso tempo, con tanti riff assolutamente lineari e per nulla sperimentali, ritmiche al limite dell’ossessione ripetitiva e melodie vocali spesso azzeccatissime, tanto che non sfigurerebbero in brani più delicatamente democratici. Molto interessanti anche i passaggi più complessi (“Ramon And Sage”, “One White Swan”) nei quali la musica mostra una maggiore varietà e la voce scende in territori abissali e inquietanti, abbandonando le tonalità più alte che caratterizzano i pezzi di più facile ascolto e impatto sul pubblico più sobrio. Un disco straordinariamente robusto che ha il solo grande demerito di avere una durata eccessivamente ridotta (circa ventidue minuti), la quale finisce per mettere sotto i riflettori altre debolezze come la spaccatura netta tra le scelte mainstream di alcuni brani e gli interramenti nelle oscurità dell’Alt Rock più angosciante. Inoltre, è molto stimolante la scelta di dare una vena psichedelica alle chitarre (vedi opening track) ma la stessa non è quasi mai proposta con efficacia. Il sound, nella sua globalità, sembra avvolto in una nebbia, come se ci fosse una patina di note a oscurare l’udito; questo rende necessario diversi ripetuti ascolti affinché sparisca o meglio si trasformi in qualcosa di apprezzabile e non restare un chiaro difetto.

Un gran disco, un bel pugno a un certo modo di suonare oggi che però poteva essere una bomba, con un po’ di coraggio in più. Stavo dimenticando. The Martha’s Vineyard è semplicemente il nome dell’isola di Elisha, raggiungibile solo tramite traghetti (ferries). Come vi dicevo, anche in questo caso, basta aspettare per far sparire la nebbia che sia sonora, di comprensione o che quella fisica, fresca e bagnata che immagino possa levarsi al mattino sulle rive di un’isola del Massachusetts.

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