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Be Forest – Earthbeat
Luogo d’ascolto: davanti ad una puntata di Ballarò senza volume, il miglior modo per capire la politica, guardando solo le facce.
Umore: come di chi non si spiega perché ha voglia di pulire lo schermo con la carta igienica.
Secondo lavoro a distanza di tre anni (il primo Cold era del 2011) per i pesaresi Be Forest. Pesaro in musica, dove l’avevo già incontrata? Già, poco tempo fa avevo recensito il disco dei Soviet Soviet che condividono con i Be Forest la provenienza. Evidentemente non è un caso, seppur con mio sommo stupore considerato il clima e la vocazione estiva della città marchigiana, perché lì dove la cadenza abruzzese cede il passo a quella riminese deve esserci una scena molto devota a certo tipo di atmosfere musicali demodè e piuttosto 80’s. Non che i Be Forest siano simili ai Soviet Soviet, per carità, il punto di contatto è che entrambe le band sembrano attingere a quel lato più cupo e ipnotico di quegli anni Ottanta che furono di band come, la prima che mi viene in mente e senza nemmeno sforzarmi, i Cure. Operazione meritoria, troppo spesso e per troppo tempo quegli anni li abbiamo identificati con le spalline di Simon Le Bon e i colpi di sole di Nick Rhodes, invece in quegli anni si costruì quel movimento che avrebbe influenzato sotterranei di rock di almeno altri tre decenni, benché riconoscerlo non era facile e spesso lo si arguiva solo dai riferimenti che professavano band che risultavano molto diverse in termini di proposta musicale. In questa ventata di Alt Rock tutta italiana invece sembra di sentire proprio quell’odore di quegli anni, in maniera chiara ed inequivocabile, non solo per le armonie o le progressioni dei pezzi ma anche e forse soprattutto per i mixaggi. In Earthbeat i riverberi sembrano ricostruiti fedelmente ad immagine e somiglianza di quelli dei tempi che furono, tutto sembra esser stato scelto in funzione di un’idea onomatopeica della musica, di un disco che evochi i suoni della natura. L’uso insistito di timpano e di linee di basso ostinate sugli ottavi ricorda i addirittura i primi U2, i temi della chitarra sono così soffusi da integrarsi benissimo con la voce fredda di Costanza Delle Rose come due fari di una macchina nella neve al buio.
Il disco inizia con ben undici secondi di silenzio prima di “Totem”, il primo pezzo, ed è sicuramente una scelta rischiosa perché presta subito il fianco alla battutaccia del recensore stronzo “sono gli undici secondi migliori del disco”; non sarà il mio caso perché il disco l’ho ascoltato più volte e l’ho gradito dal primo ascolto. Inizia e segnalo un arpeggio molto simile ad una suoneria di iphone: mi ha messo diverse volte in difficoltà perché pensavo di ricevere una chiamata ogni qual volta mettevo su il disco. Tra i pezzi da segnalare in una tracklist che scorre via fluida ma anche fin troppo liquida c’è sicuramente “Ghost Dance” tutta imperniata con melodie pentatoniche dal vago sapore giapponese che sembrano scritte usando solo i tasti neri di un piano, impreziosita anche da un bel suono di synth analogico molto vintage; inoltre “Sparale”, onomatopeica e ipnotica con il suo tema costruito su una scala maggiore ripetuto fino allo sfinimento che riesce a riprodurre mirabilmente l’idea visiva di uno scintillio, che poi diventa un abbaglio e poi colpo di sole che alla fine ti stordisce per quanto è ossessiva. Complessivamente i Be Forest, rispetto al primo lavoro (lo dico senza mezzi termini, mi è piaciuto di più) cercano una normale e fisiologica evoluzione che solo in parte si è sostanziata in idee musicali valide. Sembra che vogliano andare verso una direzione ma ancora non hanno chiara la strada da percorrere. I pezzi sembrano non esplodere mai e rimangono sempre molto sospesi in un terreno emotivo in cui l’ascolto finisce per essere disorientato. In questo disco è altissimo il rischio di non ricordarsi un pezzo più di un altro, altissimo il rischio di non mettere il disco per ascoltare ma per accompagnare con il sottofondo un’altra attività, fortissimo la sensazione che utilizzare lo stesso chorus su ogni chitarra del disco finisca per azzopparne la versatilità.
Forse però il vero problema è un altro ed è il mio: forse il problema che ho recensito i Soviet Soviet prima di loro e forse, non so se succedeva anche negli anni Ottanta, al secondo disco in quindici giorni questa scena comincia a diventare moda, comincia già a risultare un po’ posticcia. In due parole mi ha rotto un po’ i coglioni.
All-Female Bands. Parte prima.
Con il termine All-Female Bands si indica un gruppo formato sostanzialmente ed esclusivamente da donne. E questo a mio parere è già un paradosso, perché il solo fatto di sottolineare la formazione femminile di una band rende il tutto un avvenimento speciale quando dovrebbe essere assolutamente normale. Ma tutto ciò, e sottolineo a mio parere, è “colpa” della storia. Della storia della musica e del potere in generale che ha sempre messo (o quasi) le donne in secondo piano, perché ritenute più deboli e meno capaci. Partendo da Nannerl Mozart (1751-1829), ritenuta di grandissimo talento, soffocato però dalla storia, dalla genialità del fratello o forse anche da se stessa. O come Teresa de Rogatis (1893-1979), chitarrista, pianista e compositrice, buttata letteralmente giù dal podio perché ritenuto troppo “scandaloso” che una donna potesse comandare a bacchetta i maestri e colleghi maschi. Due semplici esempi per sottolineare da dove veniamo. Ma la storia fortunatamente sembra essere cambiata, infatti vediamo donne che lavorano nelle orchestre, che le dirigono, come Marin Alsop, Silvia Massarelli e Giulia Manicardi, e che calcano i più importanti palcoscenici mondiali, come la chitarrista classica Sharon Isbin o Jennifer Batten, chitarrista di Michael Jackson.
La scena musicale internazionale (contemporanea e rock in generale) dell’altra metà del cielo, per dirla in termini romanzati, si sta agevolmente arricchendo e potremmo citare le Girlschool, band londinese famosa soprattutto negli anni ottanta, hard & heavy metal sicuramente nel look, anche se in “Don’t Call It Love” non si direbbe, o anche la tribute band The Iron Maidens, un copia-incolla utile solo a far sbavare i maschietti. Per il Pop-Rock non si può dimenticare The Bangles, trio americano, con all’attivo cinque album, soprattutto di ballate e cover, o le Bond, quartetto d’archi australo-americano, che contamina musica Classica con Pop/Dance, in attività dal 2001. E tante altre come le Haim, quartetto di Los Angeles sicuramente da ascoltare, o le Thelma & Louise del Rock, Deap Vally, tra i cui pregi live ci sono quasi esclusivamente i tanti capelli e i pantaloncini scosciati. Ma l’elenco sarebbe troppo lungo.
Come in tutto il resto del mondo anche in Italia le cose iniziano a muoversi. E in questo viaggio melodico troviamo molti gruppi formati da due donne che spesso sono autrici di musica e testi, come le Amavo, duo chitarra-voce e batteria formato da Anna Lott e Silvia Lovo, attive dal 2004 e nel 2012 con il nuovo album GraceFool, fatto di Rock scomposto, dissonante, ma a tratti melodico e interessante. Oppure le Tree B***h, alias Alice Bianconi e Angelica Gallorini con il disco d’esordio Modem, di sei tracce quasi improvvisate e dal suono ancestrale, che lascia però un po’ sgomenti. E ancora un duo con le Iotatola, Serena Ganci e Simona Norato, alter-ego una dell’altra che si esprime nel primo interessante lavoro Divento Viola del 2011, dopo il quale parte la loro carriera Indie-Pop. Le She Said Destroy!, duo Noise-Pop bolognese con una biografia stringatissima, invece escono nel 2013 con la ristampa del loro Ep Conflicting Landscapes affidata all’etichetta La Stalla Domestica.
Di formazione un pochino più corposa sono per esempio le Bambole di Pezza, band italiana soprattutto milanese, che si formò nel lontano 1997, attenta oltre che all’aspetto musicale particolarmente Rock-Pop-Punk anche al mondo femminile in generale. Più variegata la formazione delle Roipnol Witch, band emiliana, che dal 2004 propone un Indie Rock alternativo a tratti anche melodico e interessante per l’alternanza delle voci (tranne che per l’elettrica rosa), che assieme alle Dogs Don’t Like Techno, che propongono un Punk-Rock misto a Noise-Sperimentale proprio per unire ricerca sonora da un altro lato intima, partecipano al movimento Rock With Mascara che dal 2005 ripropone serate musicali e itineranti, in cui sono all’attivo altre bands come le LeiBei, le Muble Rumble, le Kill The Nice Guy, trio fiorentino che scrive in inglese e ripropone ottimi live, le Doppie Punte, le Steri Strip Shotgun Babies, le Eggs Salamaini e le Anphetamina C, band all-girls milanese, con all’attivo due demo e tanti cambi di formazione, ma come loro stesse dicono “il messaggio anti sessista, anti machista e anti omofobo delle Anphetamina è rimasto sempre lo stesso”.
Gli Honeybird & the Birdies, gruppo per i due terzi femminile, miscela sonorità Indie-Rock con tinte brasiliane e psichedeliche, rendendo la loro musica molto singolare. Come ultimo loro lavoro si potrebbe citare You Should Reproduce uscito nel 2012 per la Trovarobato. Invece, due ragazze e un maschietto. Chitarra in eco perenne, voce femminile sussurrata al basso e batterista verticale, è la descrizione che i Be Forest fanno di loro stessi, giovanissimo trio pesarese che con il debutto di Cold hanno ammaliato con sonorità scure in contrasto con l’angelica voce di Costanza.