Il panorama dell’Alcatraz in questa nebbiosa domenica pomeriggio è colorato e pacifico. Dal grigiore del primo freddo incontrato fuori dalla porta a quell’aria calorosa ma riflessiva, dentro le mura del club milanese. Il pubblico accorso qui per la seconda data italiana dei Counting Crows è indubbiamente variopinto, ma anche relativamente adulto. Si, facciamocene una ragione, gli anni 90 sono ormai lontani, ad un quarto di secolo da noi. Coloro che erano piccini come me ormai dovrebbero accettare di essere maturi (almeno proviamoci) e i ragazzi di allora ormai (volenti o nolenti) hanno sfondato la spaventosa barriera dei 40 se non i terrificanti 50. Ma nonostante le rughe e le clamorose stempiature l’aria è gioviale, scanzonata, sognatrice, con quel filo di consapevolezza che rende più reale i sorrisi scovati tra le famigliole presenti. Lasciamo perdere la mia analisi sociologica da bar sport e concentriamoci sulla musica, che comunque a mio avviso si adatta alla perfezione al mood della serata, ma non si accontenta certo di farci da colonna sonora. E allora la band californiana sale sul palco sulle note dell’intro “Lean On Me” di Bill Withers e ci da subito una bella strigliata con una “Round Here” da 12 minuti. L’arpeggio è inconfondibile e il suono ci circonda a tratti accarezzandoci, a tratti pungendoci. Il sali/scendi dinamico ci porta dritti su una montagna russa con Adam Duritz che, in mezzo alla sua capigliatura sempre più Telespalla Bob, sprigiona un’eccelsa performance tra poesia e prosa, un frontman teatrale che però mostra la naturalezza con cui un bimbo ti racconta la sua giornata al parco giochi. Basta, il concerto potrebbe finire qui, in pochi minuti e io avrei già visto uno dei migliori live della mia vita. Ma le emozioni sono di casa questa sera e gli intrecci di chitarra Immergluck-Bryson-Vicrey lasciano senza fiato, con quelle radici che spuntano dai loro piedi ad ancorarli ben bene alla tradizione del rock americano. Dalle acustiche di “Cover Up The Sun” alle schitarrate molto Pearl Jam della tiratissima “1492”, introdotta da Duritz con un piccante raccontino delle alcune sue serate eccessive proprio in quel di Milano. Stasera c’è spazio pure per “Mr. Jones”, recitata e snaturata della sua vera essenza melodica, quasi a farci intendere che i tempi cambiano e anche questa canzone, simbolo degli anni 90, è mutata, scarnificata, ormai un vecchio quadro sbiadito, da mettere in mostra raramente in mezzo a tante nuove e più vive emozioni, come le splendide “Possibility Days” e “God Of Ocean Tides” tratte dal nuovo e intenso “Somewhere Under Wonderland”. Adam si destreggia goffo ma a sempre a suo agio nella sua semplicità, un leader che abbraccia il pubblico e fa sentire il suo calore con gli occhi e con le mani, oltre che con la sua incantevole voce, che pare migliorare di anno in anno e ci stende con una “Goodnight L.A.” piano e voce. Tutti i presenti canticchiano e dimostrano, anche in un pezzo minore, la loro passione sfrenata per questo cantante e per questa band, così sottovalutata ma sempre più in forma dopo tutti questi anni.
Nel set c’è anche spazio per cover ricercate (alcune recuperate dall’album “Underwater Sunshine”) come “Big Yellow Taxi” o “Like Teenage Gravity”, splendida in versione acustica e nel finale maturità (artistica e non) e gioventù si incontrano nell’eterna “Palisades Park” e poi nella memorabile “Rain King”. Distanti quasi 25 anni tra loro eppure così appiccicate e sincrone nell’ennesima espressione di potenza sonora sprigionata dalle note di questa mastodontica band. Dopo due ore, l’ultimo brano è “Holiday In Spain”, comandata dal pianoforte di Charlie Gillingham, vero trascinatore del groove e della dinamica della band di San Francisco. Il sipario si chiude con la base di “California Dreamin'” dei The Mamas & The Papas e Adam Duritz rimane davanti a noi profetizzando: “torneremo presto, questa estate”, lasciando così l’acquolina in bocca a noi fan che aspettavamo un loro concerto in Italia da ormai quindici anni. C’è da dire che l’attesa è stata spazzata via da una performance strabiliante, non solo un elogio alla loro ormai lunga carriera, ma un vera e propria lezione di comunicazione Pop, fatta di poche parole, nessun effetto scenico e di tanta e ottima musica. Musica che conosce bene i suoi limiti, emoziona per la sua leggerezza e fa sorridere quando ostenta profondità.
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Counting Crows (Milano 23/11/2014)
Counting Crows – Underwater Sunshine
Adam Duritz ed i suoi sodali Counting Crows non smentiscono la loro infinita fama di raccounteurs, commissionano solitudini, piccole gioie e trame nascoste al loro modo semplice di essere band eternamente di provincia, senza fronzoli da agitare né urla da espettorare, raccontano i personaggi interiori della strada intesa come mezzo di vita, come tracciato da seguire per viaggiare sui bordi anche stando fermi.
La loro arte ce l’hanno confermata in splendidi album, ma ora vogliono cantare canzoni d’altri, non come un banale coveraggio di transizione, ma per dare voce a pezzi sconosciuti di altre band o minori di qualche grande discografia, per dare vita ad altri spiritelli interiori che agitano e si aggirano implacabili su differenti stati appassionati, tra dolcezza e passione; “Underwater Sunshine” è il lavoro che i californiani estraggono dal loro cilindro magico, diciassette rivisitazioni che, con movimenti di sapienza e autenticità sonora confondono circa la realtà esecutiva, tanto è forte e personalizzata la memorabilia esposta sul piatto stereo.
Disco bello e soprattutto a sole pieno in fronte, felice e giuggiolone come un gatto sornione, tutto porta ad un ascolto incontenibile, vibrante che – tolta qualche song del loro repertorio – si avvicina al Dylan disilluso “You ain’t going nowhere”, la ballatina dubbiosa dei Faces “Ooh La la”, il plettro di mandolino che il grande David Immergluck che fa grandi numeri su “Return of the grevious angel” di Gram Parson, il rock nebbioso di “Hospital” o il country.field da accendino acceso che accarezza le visioni di un Duritz sempre più poeta dal versante intimo “The ballad of El Goodo”; i Counting Crows vogliono tornare giovani, vogliono reinserirsi in quei filoni libertari dove suonare e cantare non faccia parte dei tentacoli calcolati del mainstream, ma sia parte integrante di un contenuto che valorizzi, dia fiato e cuore ad un qualcosa che suoni per suonare, e con amore.
In questi frangenti sociali e di polifoniche drammaturgie Kafkiane, questo ottimo registrato arriva con la temporalità di un rapporto uditivo con la bellezza.