Country Tag Archive

40 Watt Sun – Perfect Light

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La ricerca della felicità per gli eredi illegittimi dei Red House Painters.
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Bruce Springsteen – Letter To You

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Regalo senza troppe pretese per i fan più fedeli.
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Musica italiana per anime inquiete

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Dal country folk all’art rock passando per una compilation per le vittime del COVID-19.
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Casa – Ultimo Esordio

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C’è bisogno di tanta empatia per godere di questi talenti puri e genuini che l’Italia ha da offire.
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Recensioni #10.2017 – Saber Système / Cristallo / Blue Cash / Rose / Beny Conte

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #17.03.2017

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Top 3 Italia 2015 – le classifiche dei redattori

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I tre migliori dischi italiani di quest’anno secondo ognuno dei collaboratori di Rockambula.
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Recensioni | agosto 2015

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Ben Miller Band – AWSOF (Country, 2014) 8/10

Un secondo album spettacolare per il trio Ben Miller, Doug Dicharry, Scott Leeper che unisce in dodici tracce dal sapore Country tutta la propria esperienza e classe, miscelando Bluegrass, Americana e Southern Rock in un sound estremamente tradizionale ma che riesce a non emanare mai lo sgradevole odore di anacronismo.

Gab de la Vega – Never Look Back (Cantautorato, Punk, 2015) 7,5/10

Il cantautore Punk Folk bresciano Gab de la Vega torna e stupisce tutti con dieci nuovi pezzi e un’interpretazione di “Never Talking to YouAgain”, un grande classico degli Hüsker Dü. Un po’ ricorda quanto fatto recentemente da Tv Smith, ma c’è anche tanto di Bob Dylan e Neil Young. Da non lasciarselo sfuggire!

Stearica – Fertile (Post Rock, Math Rock, 2015) 7,5/10

Essere scaraventati al muro dalla potenza del suono non è cosa che succede troppo spesso. Gli Stearica ci riescono, in versione digitale quanto in versione live, a botta di drumming energici, bassi e chitarre distorti.

Lydia Lunch/Retrovirus – Urge to Kill (No Wave, Post Punk, 2015) 7/10

Lydia Lunch scrive il capitolo del progetto Retrovirus, riunendo sul palco Weasel Walter alla chitarra, Tim Dahl al basso e Bob Bert (Sonic Youth) alla batteria. Nove tracce per ripercorrere la carriera della “big sexy noise queen” e una ciliegina sulla torta: la cover di “Frankie Teardrop” dei Suicide.

OoopopoiooO – OoopopoiooO (Sperimentale, Ambient, 2015) 7/10

Due maestri del theremin creano un nome impronunciabile, sintomo di un universo distorto, onirico, pazzoide. Quella pazzia sana, che fa andare oltre le spesse barriere del Pop e mischia strumenti, giocattoli, elettronica, parole e voci che sembrano arrivare dalle zone più nascoste del nostro cervello. Tredici brani che sembrano difficili al primo ascolto ma che alla fine ci sembreranno vicini alle orecchie come ronzii di insetti.

All About Kane – Seasons (Pop Rock, 2015) 7/10

Gli All About Kane alla loro seconda prova discografica intitolata Seasons, confermano l’ottimo esordio con Citizens e aggiungono alla loro dna british un pizzico di sperimentazione che si spinge verso il Pop e l’Alternative. Seasons è un interessante insieme di melodie leggere e mood movimentati; canzoni come “Old Photograph” e “Hurricane” si fanno amare fin da subito per piacevolezza e orecchiabilità. Nonostante spesso la voce del cantante ci ricordi molto Brian Molko dei Placebo, gli All About Kane riescono a mantenere viva la propria identità per tutto l’album, offrendo all’ascoltatore qualcosa di interessante e ben realizzato. Anche se uscito da qualche mese lo consigliamo per tutti i viaggiatori estivi che hanno voglia di una sferzata di aria fresca.

My Own Prison – Sleepers (Hard Core, 2015) 7/10

Cagliaritani, i My Own Prison, dimostrano con questo loro lavoro di conoscere decisamente bene l’hard core e di possedere tutta la tecnica per poterlo personalizzare. Tutto il disco è fondato sull’infuenza grind e su un cantato growl che muove su ritmi serratissimi di basso e batteria (al limite dell’agilità), che non si concedono tregua neppure in “Sleepers Eve”, caratterizzata da un timbro chitarristico dal sapore Indie-Pop, o nella più intima “Temper Tantrum”. Dieci tracce per un full lenght davvero pieno di energia, decisamente per gli appassionati del genere.

Solkiry – Sad Boys Club (Post Rock, 2015) 6,5/10

A due anni di distanza dall’album d’esordio, torna il quartetto australiano con il suo dinamico Rock strumentale di chiarissima ispirazione mogwaiana. Un disco potente e variegato, che riesce a cullare tutto lo spettro di emozioni che si accavallano nei sogni ad occhi aperti e che ha l’unico difetto di mostrarsi troppo incapace di osare davvero, risultando troppo banale e ripetitivo nella scelta pura dei suoni.

A Minute to Insanity – Velvet (Grunge, Stoner, 2014) 6,5/10

Il Grunge non è morto. Gli A Minute to Insanity da Cosenza lo dimostrano con orgoglio in questo ep. La chitarra e la voce “consumata” di Francesco Clarizio, insieme al basso di Antonio Trotta e alla batteria di Francesco Lavorato, ti riportano lì, in quegli anni Novanta che non sono ancora messi in archivio del tutto.

Attribution – Whynot (Rock’n’Roll, 2015) 6,5/10

Potente e autorevole questo Whynot dei bergamaschi Attribution, album che mescola un’attitudine classicamente Rock and Roll ad una commistione di generi che invece di risultare indigesta esalta le qualità di ogni singolo componente (prezioso l’uso dei fiati). Da ascoltare soprattutto il divertente Funk di “Scofunk” e la bella rivisitazione di “Cold Turkey” di John Lennon.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Ep (Stoner, Noise, Hard Rock, 2013) 6,5/10

Un vero e proprio calderone: fondete Stoner, Noise e Hard Rock e otterrete la giusta ricetta sonora; un sound che appartiene più all’America che all’Italia e forse in questo la lingua non aiuta molto (sarebbe stato più giusto cantare in inglese!). Nonostante ciò un lavoro maturo negli arrangiamenti e perfetto nella registrazione

Snow in Damascus – Dylar (Elettronica, Shoegaze) 6/10

Atmosfere cupe e sonorità che spaziano tra Elettronica e Shoegaze, per un disco d’esordio che nel complesso suona come un buon lavoro di tecnica, ma che non colpisce per la sua originalità.

Moira Diesel Orchestra – Moira Diesel Orchestra (Alternative, Post Grunge, 2014) 6/10

Orfani degli anni Novanta, i MDO ricercano costantemente sonorità a metà tra il Seattle sound e dei seminali Litfiba. Tra qualche errore di gioventù e troppi eccessi di imitazione emergono alcuni momenti interessanti come “Nostema di Posizionamento Globale” o “Ardore” che per qualche minuto cancellano i molti reminder. Rimandati.

The Moon Train Stop – EP (Rock, Alt Pop) 6/10

Echi sixties per il trio piemontese all’esordio. Un Pop alternativo luccicante, divertito, ritmato, senza eccessiva originalità ma competente. Quattro brani suonati bene, cantati così così. L’inglese non rende benissimo. Non lasciano (ancora) il segno.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Di Blatta in Blatta (Stoner, Noise, Hard Rock, 2015) 5,5/10

Quando si incide un disco che ha il grave compito di succedere a quello d’esordio si pretende qualcosa di più; purtroppo in questo lavoro si mette in evidenza solo la bravura. Mancano i contenuti e le idee nuove. Un piccolo passo indietro quindi è stato fatto nonostante il gruppo si sia aperto ad un lato più “oscuro”.

Night Gaunt – Night Gaunt (Doom Metal, 2015) 5,5/10

I romani Night Gaunt fanno loro l’essenza dei Candlemass unendola alle cupe atmosfere dei Katatonia e alle accelerazioni di puro stampo Celtic Frost. Si resta sempre nell’ambito del Doom Metal, fedeli a un registro prestampato. Senza infamia né lode.

Marco Spiezia – Life in Flip-Flops (Cantautorato, Swing 2015) 5/10

Semplicità ed immediatezza sono le caratteristiche principali di questo disco che non fa ascoltare nulla di nuovo ma che diverte. Canzoni (quasi) sempre veloci ma dai ritmi abbastanza simili. Forse il cantautore sorrentino Marco Spiezia dovrebbe (e potrebbe) osare di più.

The Junction – Hardcore Summer Hits (Indie, Pop Punk) 5/10

Per i tre padovani, il secondo album è una nuova prova con pretese ridotte al minimo sindacale. Pezzi tirati quando basta per provare a non annoiare, qualche buona melodia, un inglese che si tradisce spesso e tantissime banalità, in una miscela di cliché Indie Rock e qualche incursione nei territori del Punk Rock (Pop meglio) da bermuda, occhiali da sole e infradito.

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Mark Lanegan – Imitations

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Luogo di ascolto: in macchina nel tentativo disperato di incassare un assegno prima del fine settimana.

Umore: come di uno che sta per fare un fine settimana dispendioso.

Mark Lanegan è affetto da un morbo serio e debilitante, nel suo caso è stato colpito da poco e la malattia è solo ai primi stadi: l’ex vocalist degli Screaming Trees è malato della sindrome di Morgan. Già, quella malattia che nei periodi di magra creativa spinge l’ex leader di una band ben riuscita ad uscire con dei dischi di meravigliose canzoni di altri, o come fa figo chiamarle, cover. Certo nel caso di Morgan la malattia che giustamente porta il suo nome è ai massimi livelli, il suo personaggio televisivo oramai è diventato ipertrofico rispetto alla caratura di artista di cui oramai non si ricorda nemmeno un pezzo degno di nota ma molte acconciature di gran bizzarria. Torniamo a Lanegan, Imitations (il titolo è chiaramente esplicativo degli intenti con cui lo si è registrato, evidentemente) è un disco di cover a cui non si può voler male ma nemmeno dire un mondo di bene. L’occhio tra le dodici canzoni che compongono la tracklist mi è caduto subito sull’ultima, “Autumn Leaves” quindi l’ascolto ha seguito una strada piuttosto sghimbescia (per quelli che leggono Signorini, significa storta): era troppa la curiosità di sapere come sir Lanegan avesse affrontato il pezzo più interpretato del sistema solare, sconquassato da sbrodolamenti jazzistici per 40 anni, infangato con versioni in inglese tradotte a membro di segugio (per i lettori di Signorini: a cazzo di cane), deturpato con pronunce francesi improponibili da parte per lo più di inglesi che non sanno altre lingue e dicono agli italiani che non sanno cantare in inglese. Direi che con “Autumn Leaves”, date le premesse, Mark se l’è cavata abbastanza bene; nulla di più però di un buon pezzo riarrangiato in maniera da calcare finalmente il battere di ogni accordo come mi ero disabituato a sentire dopo decenni di spostamenti ritmici swing, con un bell’arrangiamento di archi e batteria in modalità spazzole.

Mark Lanegan penso sia l’unico al mondo, al pari di Johnny Cash, a potersi permettere di cantare a tonalità subumane, avere la presenza scenica della stele di Rosetta (per i lettori di Signorini, il gossip qui non c’entra, Rosetta non è mai entrata nella casa del grande fratello) e al tempo stesso rapirti dal vivo come se non ti trovassi più a casa tua o in un palazzetto dello sport. Quando ascolti la voce di Mark Lanegan la sabbia che al mare trovi nelle pieghe dei pantaloni diventa terra rossa del deserto del Mohave e il cellulare in tasca diventa una pistola nella fondina. Quando ascolti tutte quelle chitarre arpeggiate dal suono così antico e al tempo stesso così caldo pensi di aver sbagliato a nascere nel vecchio continente e ti bombardi il cervello di suggestioni cinematografiche. Imitations poi non è cantato male, anzi; Lanegan dimostra di essere anche un ottimo emissore di note medio alte, arricchendo la sua tavolozza vocale di sfumature che sinceramente non credevo ci fossero. “Brompton Oratory” è un pezzone, davvero azzeccata l’interpretazione e la cornice, “Mack the Knife” è troppo simpatica in veste Country con le acustiche a fare il contrappunto alla melodia della voce, “Elegie Funebre” invece sembra cantata invece che in francese in coreano tanto è brutta la pronuncia . Il disco non è malaccio, ma è sempre un disco di cover e per di più senza nemmeno rischiare tanto, lo vedrei bene come colonna sonora di Nashville, la nuova serie Sky sul Country, ma nulla di più. Da un popò di artista così è lecito e doveroso aspettarsi un disco solo quando ha materiale per farlo, mica deve pagare le bollette come Morgan.

Almeno spero.

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El Bastardo – Wood & Steel

Written by Recensioni

C’è crisi (non solo economica, pare). E nei momenti di crisi siamo tentati di ritrovare l’equilibrio attraverso un riassestamento: riscopriamo le nostre radici, le nostre storie, ci rifugiamo nella sicurezza del passato, nei suoi modi, nei suoi miti, nei suoi codici. Riallineiamo il nostro orizzonte piantando al centro del nostro campo visivo un axis mundi fatto di storie già sentite, e per questo leggendarie, naturali, sempiterne. C’è crisi, ed ecco quindi tornare in auge il revival della musica popolare americana, quella vera, Blues, Folk, Country, fatta di chitarre resofoniche, banjo, kazoo, armoniche a bocca, registrata come ai bei tempi, in presa diretta, naturalmente, in valli e campagne: una musica semplice, come una volta, per farci sentire a casa.
Fa parte di questo revival anche l’ultimo disco di El Bastardo, one man band torinese che (da tempi non sospetti, è importante sottolineare) bazzica questo ambiente roots, e che decide di regalarci, in Wood & Steel(questo il titolo, che ha già un certo sapore nostalgico) nove tracce di Blues, Folk, Country dimesso e sincero, onesto e lineare, “registrato col cuore e l’attrezzatura minima indispensabile in mezzo ai cinghiali e boschi della Valsusa”.

Le canzoni sono classiche, ben radicate nel terreno dalle quali provengono. Ci sono quelle malinconiche (“Waiting For”, banjo e voce contrita, o l’arpeggiata “Growing Alone And Fighting”), ci sono quelle più ritmiche e scanzonate (“Boogie Woogie Dance”, sporca e zoppicante, “Friendship is a Fuckin’ Business”, che sembra mostrarsi più ironica), ci sono un paio di cover ( “Out on The Western Plain”, portata al successo da Rory Gallagher – l’originale è di Lead Belly –, “Hit The Road Jack” di Percy Mayfield – conosciuta ai più nella versione di Ray Charles –, e il classicone d’inizio secolo scorso “The Entertainer” di Scott Joplin).
Non è un brutto disco, Wood & Steel, ma a El Bastardo probabilmente mancano la personalità e la bravura tecnica necessarie per sostenere (su disco, perlomeno) tutto questo peso sulle sue sole spalle. Non si viene rapiti da nessun virtuosismo, né si rimane incantati dalla sua voce o dal suo tocco, che forse non sono particolari quanto servirebbe. Non che El Bastardo non sia capace o non conosca ciò di cui si sta occupando, anzi: ma in queste nove canzoni non riesce a far affiorare la sua specificità, il suo valore aggiunto.

Come spesso mi accade quando ascolto dischi di questo tipo, mi risulta sempre molto piacevole la sensazione di genuinità, onestà e sincerità di chi si lancia in operazioni del genere. Spesso, però, purtroppo, ci si ferma lì. Ed è un peccato.

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Pino Cerrigone-Eventi disgiunti Ep BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

Written by Novità

Eventi Disgiunti è il primo lavoro ufficiale del cantautore calabrese Pino Cerrigone, accostatosi alla musica da piccolo per cercare la propria espressione. Un Ep di quattro brani, che, come si evince dallo stesso titolo, sono volutamente diversi tra loro, per stile e linguaggio.Buon impasto musicale, tra blues, country e cantautorato italiano (alla Alex Britti) al quale si rimane giustamente ancorati per tutto il lavoro. Buona anche la registrazione, l’orecchiabilità e l’impasto vocale, non unico nel colore ma sempre comprensibile. Testi semplici ed evocativi, attraverso le stagioni e la fisarmonica, di amori veloci o ormai passati (Ragtime & Cubalibre, La fine dell’anno), della routine che spesso soffoca le passioni (Estratto) e della nostra civiltà oppressa dal progresso (Il mostro di Loneliness). Una musica che certamente porta con se il sapore delle esperienze, del tempo passato a suonare e la terra del cantautore, per creare, passo dopo passo, il futuro album.

http://www.youtube.com/watch?v=l4CipcFa5Bs

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La foto di Zeno – Redistance

Written by Recensioni

La foto di Zeno è Neil Halstead che quasi spoglio di ogni residuo elettrico va a ritrovarsene se stesso nei campi del modenese, lo si intuisce sin da ‘J’, epitomica apertura di questo ‘Redistance’.
Rarefazioni quindi…nebbie, sussurri, chitarre e piano zoppi, a rincorrere melodie, a perderle, a ritrovarle, qualche impennata percussiva, qualche scossa elettrica, di tanto in tanto, ma sempre destinate ad affondare in atmosfere di vapore acqueo ed elettronica analogica, come fossimo nei punti migliori del secondo Bon Iver.
Dopo l’iniziale ‘J’ che disvela anima ed umori di Zeno ‘The Ways Of Sorrow’ e ‘John, The Beard Man’, rispettivamente tracce due e tre del disco, fanno lo stesso con il repertorio di tecniche ed incastri detenuto dai nostri, dunque gli arrangiamenti si fanno notevoli, si complicano, saltano da folk a country come fosse nulla, descrivono paesaggi, foreste in chiaroscuro, che ora si rabbuiano ora lasciano passare il sole.
Il lamento che apre ‘Brown Leaves’ lascia intendere un ritorno agli umori bassi e tenui dell’apripista ‘J’, e invece no, pochi secondi e Zeno, nella sua foto, si scatena in un country quasi rubato ad un saloon di quelli cari a Terry Allen, in quel del Texas, attenzione però, ho scritto quasi.
Poi ‘Sad Spoon’ e ‘Two Books’, due storie tristi, chitarra e voce, giusto qualcos’altro qua e la, due canzoni che ti aspetti in un disco così, ma che non possono e non devono mancare all’appello, perché quella di Zeno è una foto sbiadita, scattata chissà quando.
Traccia numero sette, ‘Still I Wish’, il gioiello del disco. Si parte marciando, un basso turgido e vibrante a dettare il passo, attorcigliandosi a battiti scarni e marziali, attorno alla voce, che si fa sicura qui, abbandona le incertezze del resto del disco, come se detenesse una verità, una verità scura, condivisa con i Fleet Foxes degli esordi e perché no con lo Yorke marziale di ‘Therethere’,ha da dire poco però questa voce, lascia presto spazio a tutto il resto, ad una coda immensa, densa di elettronica sibilante, di battiti concitati, di chitarra e piano che incuranti della foresta che gli si infittisce intorno continuano per la loro strada, per la loro linea melodica senza speranze.
‘In This Garden’ calma tutto e chiude il disco come deve chiuderlo, con malinconia e armonica.

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