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Dieci dischi da PAURA per un Halloween più nero che mai!
Più pesanti di una morte in famiglia.
Current 93 – I Am the Last of All the Field Fell
Chi è David Michael Baunting, più comunemente conosciuto come Tibet? Un filo nazista alla ricerca di Agarthi, un nomade errante nel deserto del Gobi o un esperto di occultismo dedito a riti magico-sessuali degni del suo massimo ispiratore Alex Crowley? David Tibet è un mutante poliforme, che più volte ha cambiato pelle nel suo trentennale percorso iniziato da quel maelstorm esoterico che è Nature Unlived,vera liturgia iconoclasta di Industrial dal sapore magmatico. Oltre all’innegabile valore artistico della sua intera opera, gli va riconosciuta la grandezza come uomo in quanto tale, pieno di limiti e per nulla perfetto, che si interroga fino all’ossessione sulle sorti di un’umanità che assume sempre più i colori e la bizzarria di un quadro di Bosch. Ed eccolo ancora oggi,come Giasone alla testa dei suoi sempre diversi Argonauti (lui unico deus-ex machina del marchio Current 93), ci trascina in un’opera nera come la pece dantesca ed eterea fino alla rarefazione in egual misura.
Accompagnato in questo I Am the Last of All the Field Fell da musicisti d’eccezione, partendo da Jack Barnett dei These New Puritans (organo, sound design, voce), Tony Mc Phee (chitarra), John Zorn (sax), fino al commovente duetto finale con Re Inchiostro. Con “The Invisible Church” il percorso iniziatico si svela con il piano solenne e la chitarra sbilenca che accompagna i salmi drammatici di Tibet bilanciati angelicamente da Bobby Watson dei Comus; arcangeli e diavoli danzano tediosamente in una tregua epocale. Il clima si fa più teso, in “These Flowers Grey” è Zorn a far da padrone con i suoi tocchi ora rabbiosamente Free ed isterici, ora deliziosamente morbidi e malinconici, regalando sacralità a tutto l’album. Il dolore lo attraversa come un dardo lanciato da una balestra, lasciando brucianti ferite emotive colme di contraddizioni e dubbi lancinanti; ciò rende grossolana e superficiale ogni catalogazione dei singoli brani. Non resta che ascoltare e lasciarsi trascinare da Tibet con i suoi cerimoniali arcani, attraverso un percorso di abisso e redenzione che in anni così disumanizzati commuove.
Euphorica – La Rivelazione
Indubbiamente è quasi impossibile comprendere e percepire la distanza tra il mondo reale, quello dei megastore, dei dischi venduti, dei passaggi televisivi, dei video su Mtv e volendo anche Rock Tv o altri canali radiotelevisivi pseudo alternativi come quello XXX (mi autocensuro perché non abbiamo necessità di un’altra denuncia) di Virgin Radio e ciò che è il mondo di noi rincoglioniti che incurvati sul pc divoriamo recensioni su sfigate webzine, inseguendo una next big thing che in realtà non avrà mai un futuro, ascoltiamo migliaia di dischi e brani sconosciuti, provando a scorgere estro e genio, con la sottesa idea che magari saremo i primi a penetrare la grandezza dei futuri nuovi Joy Division. Se i nostri Have a Nice Life sono dei mostri d’inarrivabile talento, dobbiamo ammettere con disincanto che quelli cui frega sono veramente pochi. A questo punto, se proprio dobbiamo rotolarci nel fango del (quasi) anonimato, ci sia concesso quantomeno di godere di una qualità e un talento che mai proverà il pubblico dei suddetti canali radiotelevisivi pseudo alternativi di cui sopra. Se proprio voglio essere tra quelle duecento persone che ascolteranno il disco di una oscura band di una depressa provincia italiana, che mi sia concesso di origliare l’ostentazione dell’alternativo e non le brutte copie, o anche solo copie, di una delle band promosse da uno di quei canali radiotelevisivi pseudo alternativi di cui ho parlato prima. Come dire, se vuoi farmi provare del caviale da diecimila euro il chilo, fa che quella merda di uova abbiano un gusto fantastico perché di pagare solo il fatto che siano rare non mi frega molto.
Mi spiace che gli Euphorica e l’ascolto del loro secondo Lp La Rivelazione arrivi puntualmente dopo quello del nuovo lavoro di Kozelek, Current 93 e Have a Nice Life perché non posso negare che la cosa abbia fatto germogliare in me una discreta irritazione verso la musica italiana e la sua incapacità sia di azzardare e sia di promuoversi al di là dei canali di nicchia e ostentarsi a un pubblico che non sia solo appassionato di un certo specifico genere. Mi infastidisce perché La Rivelazione, dopo diversi ascolti, si rivela un album di buona fattura, soprattutto se paragonato a quel tipo di Pop Rock nostrano i cui principali artefici preferirei non nominare. Piacciono molto le intromissioni del Folk (“L’Equilibrista”, “La Terra”) anche se ogni cosa, dalla sezione ritmica alle chitarre acustiche fino alle linee melodiche hanno lo scopo principale di intraprendere una strada Pop che vuole essere impegnata senza esserlo veramente. I testi, rigorosamente in madrelingua, raccontano secondo le più disparate sfaccettature, d’identità e maschere, di essere e apparire. Parlano di vita sfruttando riferimenti colti (“Demone”) ed episodi reali (“Il Predicatore”), raccontano la paura (“Shangri –La”) affrontando immancabilmente il sinonimo più poetico di vita stessa e cioè amore (“L’Ultima Danza”, “Tu”).
Il disco degli Euphorica spazia dall’Indie Pop accurato negli arrangiamenti (“Visione”) e dai riferimenti al Pop da classifica che però non si affanna dietro la ricerca ossessiva e ansimante di una melodia banale ma di successo, un po’ come il Niccolò Fabi meno noto (“Giuda”), fino al Rock attento a testi e armonie dei Tre Allegri Ragazzi Morti (“La Rivelazione”), con le quali le affinità vanno anche oltre le ovvietà delle linee vocali, che nel qual caso fatico ad apprezzare anche ben oltre gli aspetti puramente tecnici. Anzi, arriva a infastidirmi particolarmente quando insiste sulle vocali finali tanto che il pezzo che più riesce a emozionarmi non ha testo, né titolo e tuttavia non brilla neanche per originalità. La Rivelazione è un disco che ti fa arrabbiare quando poco prima hai ascoltato il mondo innaturale di una band del Connecticut ma che riesce anche a farsi perdonare, man mano che la musica si scioglie come neve nelle orecchie, magari lasciandoti nel cuore anche quel brivido di una goccia gelida che scorre sul collo. Non mi piace troppo quello che fate, non mi piace per niente anzi ma se proprio dovete farlo, per favore fatelo cosi.
The Child of a Creek – The Earth Cries Blood
L’assolo di chitarra Hard Rock che apre questo The Earth Cries Blood, ammetto avermi suscitato le stesse reazioni che può evocare una spezia esotica, pungente e inaspettata che si appoggia alle papille mentre gusti un piatto che pensavi di conoscere in tutte le sue varianti. Un sapore sgradevole all’impatto, che non oseresti mai centellinare come elemento portante del tuo pasto ma che si rivela un contraltare efficace per dare corpo e vigore a quel piatto che hai assaporato centinaia di volte.
The Child of a Creek (letteralmente, Il Figlio di un Torrente) è il nome dietro al quale si cela Lorenzo Bracaloni, trentacinquenne Folk Singer multi strumentista toscano che ha esordito solo nel 2005 con l’album, interamente autoprodotto, Once Upon a Time the Light Through the Trees con il quale ha subito evidenziato alcune sue peculiarità. Fra tutte la capacità di impreziosire una musica estremamente semplice e lineare grazie all’uso di una strumentazione quanto più variegata e, talvolta, bizzarra se paragonata alle classicità del Rock, specie nostrano. Se appunto, nell’esordio, alle chitarre acustiche, elettriche e slide venivano affiancate armonica, flauto, organo, piano elettrico, timpano, rullanti e percussioni varie come scatole di legno e bottiglie di metallo, già nel secondo lavoro “Unicorns Still Make Me Feel Fine” si passava a nuovi strumenti come una piccola balalaika russa suonata a percussione, un piano a muro Steiner, una vecchia chitarra Folk e un bodhran del Nord Irlanda. E cosi è sempre stato, a mano a mano che The Child of a Creek passava da una label all’altra, da un palco all’altro, da un album e una compilation all’altra fino ad arrivare a quest’ultima fatica fortemente apocalittica, The Earth Cries Blood. Quasi quarantatré minuti nei quali emerge tutta la parte emozionale, spirituale della musica del cantautore; si evidenzia una necessità espressiva che suona come canto liberatorio che leghi l’uomo alla sua terra. Anche in questo caso è utilizzata una strumentazione variegata per rendere appieno le intenzioni dell’artista. Quindi, oltre alle ovvie chitarre acustiche ed elettriche, troveremo flauto, piano, piano elettrico, organo, arrangiamenti d’archi e sintetizzatori. Come detto, questo è presentato come il lavoro più autobiografico targato The Child of a Creek ed effettivamente, Lorenzo Bracaloni è riuscito perfettamente a rendere l’idea della fase tormentata della sua vita che ha fatto da contorno alla composizione dei brani, ma, nello stesso tempo, ha rilevato la comparazione con la sofferenza della terra, intesa come madre trascendente e mistica prima ancora che naturale.
Se l’elemento Folk e la strumentazione multiforme e mutevole sono lo scheletro di tutta l’opera, l’anima è certamente racchiusa nella vocalità che, già dalle prime battute (“Morning Comes”) ma anche in diversi momenti seguenti del disco (“Journeys of Solitude and Loss”), ricorda un certo Tim Buckley, con le ovvie distanze da prendersi soprattutto sotto l’aspetto prettamente tecnico. In realtà sono diversi i brani che racchiudono ben nascosti alcuni rimandi alle opere più Folk del geniale cantautore e sperimentatore di Washington, a volte solo in alcuni scorci vocali, altri in brevi cenni di chitarra classica. Altro fattore di notevole interesse solo gli elementi elettronici, i synth, il piano e tutta la strumentazione accessoria che sembra avvolgere gli undici brani, alcuni più (“Remembrances”, “My Will to Live”) altri meno, in una nebbia magica, inquietantemente rassicurante, più che dare sostanza alla musica evocata dalle chitarre classica ed elettrica. Quando l’atmosfera si fa più conturbante, il cantato più soffuso e le note più ammalianti The Earth Cries Blood si scioglie con efficacia nei cliché del Neofolk (“Leaving this Place”) dei grandi maestri (Current 93, Death in June, Nature And Organisation) avvicinando in parte più le atmosfere bucoliche e sognanti di Ataraxia che non le reminiscenze storiche degli Ianva! o la potenza espressiva degli Spiritual Front. Nella parte centrale troviamo i brani meno impegnativi, soprattutto sotto l’aspetto empatico, dove ritroviamo quegli assolo di chitarra di cui parlavo (“The Long Way Out”, “Birds on the Way Home”) che fatico ad apprezzare presi nella loro singolarità ma che, nel contesto, riesco a sopportare e quasi mi fanno risaltare nelle orecchie il resto dell’ascolto. L’ultima parte inizia con “Don’t Cry to the Moon”, pezzo che vede la stupenda partecipazione della britannica Andria Degens, eccelsa voce già autrice di alcuni album a nome Pantaleimon ma nota soprattutto per le sue collaborazioni con la fenomenale creatura Apocalyptic Folk di David Tibet chiamata appunto Current 93. Da questo momento inizia una fase in cui la musica pare gonfiarsi di speranza, acquista una discreta energia e si evolve in un Dream Pop leggiadro, più denso e carico di contenuti difformi. La chiusura con la title track è tra i passaggi più toccanti di tutto il disco; carico di passionalità, le note dei diversi strumenti utilizzati si alternano in una carnale danza che sembra quasi un atto sessuale tra la terra e la vita, un ultimo canto che come un pianto si fatica a capire se nasconde gioia o sangue e quel sangue si trasformi in vita o morte. Oltre tre minuti interamente strumentali che chiudono degnamente un album che nasce tra infinite difficoltà che vanno oltre quelle personali del suo autore. Trovare band o cantautori che riescano a suonare Neo Folk senza sfociare nella caricatura di loro stessi o dei pochi nomi che sono riusciti nell’impresa di emergere dalla massa oppure senza finire nelle ridicolaggini anacronistiche o nei richiami nostalgico/politici assurdi; scovare band che sappiano fare musica che si possa ascoltare con un certo interesse, non è cosa facile nel piccolo mondo del genere Neo Folk. The Child of a Creek è, dunque, più che una felice scoperta e passano in secondo piano alcuni limiti, come le melodie non sempre puntuali e accattivanti o l’eccessiva alternanza tra atmosfera ed energia che finisce per non lasciar trasparire con convinzione né l’una né l’altra. Un album gradevole e nulla più se immerso nelle immensità dell’oceano musicale internazionale ma che, nell’acquario della scena Neo Folk italiana (ma non solo), può ergersi come assoluto protagonista.