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I Depeche Mode presentano il loro Spirit Tour
Abbiamo seguito online per voi la conferenza stampa che i Depeche Mode hanno tenuto al Teatro dell’Arte presso La Triennale di Milano per presentare il loro tour che il prossimo anno toccherà decine di città europee che farà seguito al nuovo attesissimo album, Spirit. Continue Reading
Dust – On the Go
La ricerca del Pop è un duro lavoro, sempre un filo molto sottile e tesissimo tra due palazzi. La ricerca poi diventa tanto più ardua quando i panni stesi sono abiti galanti e raffinati. Questo è il caso dei milanesi Dust alla loro prima vera fatica discografica dal 2009, anno della loro formazione. I Dust sono ben in sei e si autodefiniscono Alt Pop, termine che non concepisco molto dal momento che non so bene cosa ci sia di alternativo nel Pop. Ma tolte sterili critiche On the Go è un disco completo, ben curato e apparecchiato, come i vestiti stesi sul filo da bucato. Manca però in alcuni punti di corpo e solidità, non esplodendo mai in una vera emozione. Peccato perché il primo brano “(Our Alien) Millenium” è melodicamente interessante sebbene eccessivamente lungo. La voce di Andrea D’Addato ricorda un po’ Dave Gahan e Morrisey nei The Smiths. È profonda, maschia e avvolge l’ascoltatore in una fitta coltre di mistero. Non buca però le casse rimanendo sempre sommessa, in un sottofondo costante, insieme alla musica che lo accompagna. Un arrangiamento semplice ma efficace accompagna “If I Die”, un bel giro di basso danzante porta alle atmosfere del Brit Pop più docile e sobrio. Le chitarre però restano prive di corpo e sostanza, ma recuperano qualche punto nella prova di New Wave acustica di “It’s Been a Long Time”. Insistita e sempre governata da un ottimo suono di basso pompante che tira avanti il miglior episodio dell’album. Anche “On the Go” ha il suo perché e pare più sciolta e meno forzata. Una ballata tutt’altro che banale: vicina ai suoni onirici ma terribilmente Rock’N’Roll di Ryan Adams, insistita, con quelle acustiche che anche qui muovono i raggi di una bella giornata di sole in una grigia metropoli. I Dust qui lasciano un attimo da parte l’ostinata ricerca del Pop perfetto e si lasciano andare, ne escono più personali, più spensierati e più veri. C’è anche un piccolo spazio al cantato in italiano. “Nell’Aria” è una lunghissima camminata libera in una prateria in provincia e le poche parole cantate nella lingua non turbano affatto il panorama e la domanda sorge spontanea, perché tutto questo inglese? Non un esordio da fuochi da artificio, anche il finale di “Not a Tear” trascina il disco senta troppa convinzione con solo qualche accenno vivace di pianoforte in una pianura troppo piatta. Peccato davvero, il filo non si stacca ma al prossimo giro speriamo di vederci stesi dei panni altrettanto eleganti ma forse un po’ meno lucidi. Un po’ più sporchi di vita vera.
In.Visible – HaveYouEverBeen?
Un progetto solista dall’esito Elettro Pop che nasce da ispirazioni Rock di spessore. In.Visible è lo pseudonimo di Andrea Morsero, già attivo nella scena underground italiana come batterista e DJ.
Il primo singolo estratto espone in maniera abbastanza completa ciò che bisogna aspettarsi da HaveYouEverBeen?. “Leather” è un tuffo di testa nell’elettronica ritmata degli anni 80, che comporta in sé l’alto rischio di essere un tuffo nel vuoto se nel frattempo sono trascorsi tre decenni e soprattutto se non si è Dave Gahan. L’ispirazione che Morsero trae dalla faccia più danzereccia dei Depeche Mode è palese, oserei dire un po’ sfacciata, a cui lui sembra però avere poco da aggiungere.
Ritmato sì, ma non abbastanza euforico da far scuotere le membra. Il fulcro attorno a cui far ruotare il resto sembra essere riservato alla voce, dal timbro ammiccante ma spesso ostentato e prevedibilmente effettato: le prime tracce scorrono via su tappeti sintetici su cui questa si sdraia comoda insieme alle seconde voci, in un susseguirsi di brani che nonostante alternino ritmi più serrati a ballad elettriche in una miscela gradevole fanno però fatica a trovare un angolino di memoria e di cuore in cui depositarsi. L’invadenza del cantato mi appare ormai indiscutibile quando mi sorprendo a godermi la strumentale “Stagen”. Sul finire del disco spunta invece fuori un ben più interessante lato New Wave del progetto, che scorre fluido grazie ad una sezione ritmica più marcata e le tonalità che scendono e si fanno un po’ da parte (“The Second Way”), oppure mostra una tendenza Romantic che evoca gli Ultravox, ma senza scendere nella mera citazione (“Feel”). È solo sull’ultima traccia che mi sembra di scoprire la naturale vocazione del timbro vocale di Morsero, sul più classico dei Rock melodici con crescendo di archi finale. In.Visible sembra più un saggio di tutte le facce che il progetto potrebbe assumere piuttosto che il risultato della scelta di una forma compiuta di espressione. Un background di tutto rispetto che senza qualche tocco reinterpretativo più audace rischia però di appiattirsi in un Pop senza molte vie d’uscita.
Dropeners – In the Middle
Lo ammetto, sono partito con il piede sbagliato. Lo ammetto, mi aspettavo altro. Lo ammetto, sono senza parole. Lo ammetto: i Dropeners hanno letteralmente vinto!
I Dropeners nascono nel lontano 2008 e, dopo aver accumulato un incredibile quantitativo di esperienze (soprattutto estere), tirano fuori il lavoro di cui sto per dire: In the Middle. Il disco d’esordio si fa vivo nel 2009, sotto il titolo di Drops of Memories e fra questo ed il capitolo oggetto di discussione, s’intermezza un EP risalente a ben quattro anni fa: Silent Sound (EP). Si sono fatti parecchio attendere a quanto pare, ma il motivo lo scoviamo in breve ed è nascosto dietro ognuna delle dieci tracce che formano il loro secondo disco. Il sound, complice dell’inglese adottato in ogni parte del lavoro, lascia fraintendere l’interlocutore medio e fa sì che si attribuiscano i meriti dell’opera ad esperte menti anglosassoni. Ma qui siamo innanzi a tutta roba made in Italy: vengono da Ferrara, sono autoprodotti e non hanno nulla da invidiare al meglio delle band internazionali. You won’t get a second chance to make an extraordinary firts impression, diceva qualcuno e i Dropeners dimostrano di saperlo bene, curando l’aspetto di In the Middle in ogni minimo particolare. Il packaging è leggerissimo, minimale ma efficace (ammetto anche questo: ho un debole per il packaging). La copertina lascia intendere un egregio lavoro introspettivo, confermato ottimamente dal contenuto del disco, attraverso una musica penetrante, grazie ad un New Wave ben articolato ed a sonorità molto lente e buie. Lo confermano i Dropeners stessi in “Western Dream”, che fa da titoli di coda al film surreale che i registi ci propongono: in the middle of western dream, there’s a light that comes from the east, recitano per tutta la durata della traccia. Il theremin in questo capitolo gioca un ruolo essenziale, evidentemente. Penetrante. Ossessivo. Possessivo. Ipnotnico.
All’interno di questo straordinario lavoro troviamo spunti di verde invidia per il migliore Dave Gahan, quello che si cimentò nell’incredibile opera di “Saw Something”. È come se i Dropeners avessero preso spunto da questa singola traccia, depurandola dall’eccessiva vena elettronica per poi ampliarla, estenderla e costruirci su un intero album. Ma non è tutto. Lo spazio artistico toccato è incredibilmente vasto: si sfiorano le corde dei Coldplay in “Lead Your Light”, appesantendole con i migliori Radiohead di OK Computer. Nel secondo capitolo (“You Don’t Know”) è possibile persino scovare un nonsoché di Gothic, di scuro, che lascia sovvenire alla mente vecchi ricordi di HIM e The Rasmus, light version. Ma i Dropeners non amano paragoni e non vogliono di certo essere la copia di mille riassunti e, nonostante riportino in vita questa scia di fine anni Ottanta, sanno bene come rinnovarla. Sfruttando, infatti, la propria conoscenza musicale e strumentale, si trasformano in polistrumentisti, riscoprendo in un’ottica del tutto nuova il sound sopra citato. Così, la voce e chitarra Vasilis Tsavdardis si cimenta in eccezionali imprese al synth e la chitarra di Francesco Mari sperimenta trombe e theremin (che gioca il ruolo di psicanalista nell’analisi introspettiva condotta dal disco), accompagnando perfettamente il basso di Enrico Scavo e le batterie di Francesco Corso. L’armonia è inevitabile, essendo che lo strumentale poggia direttamente sulla melodica voce di Tsavdardis, lunga, bassa e sempre in perfetto tono, accompagnandola lungo la stesura di ogni capitolo. Insomma dieci tracce di puro intelletto ed organicità, con tanto di ghost track, come non se ne vedevano da un bel po’. Potremmo andare avanti per ore, il disco fa parlare di sé come fosse parte di noi stessi. Penetra letteralmente nel più profondo dell’inconscio e ci lubrifica l’animo. È un lavoro che vale l’attesa, tutta. Signori, siamo innanzi ad un ottimo allievo. Stimolarlo a far di meglio potrebbe essere controproducente. Conosce i suoi obiettivi, sa chi è e sa dove vuole arrivare: nell’io di ognuno di noi. Nel mio ci ha messo le radici e nel vostro?
Yumiko – Tutto da Rifare
Ascolto: in macchina verso un week end di live
Umore: soleggiato e rilassato come di chi scappa dalla sua vita.
Davvero, e questo non significa che ho ascoltato solo questo, il disco degli Yumiko si può spiegare tutto dai primi trenta secondi del primo pezzo. O meglio, l’ascolto di tutto il disco conferma pienamente l’impressione di pancia che l’incipit ti fornisce. Produzione stratosferica, suoni sintetici di gran gusto e potenza, sezione ritmica europea e un timbro di voce non particolarmente riconoscibile ma pur sempre capace e adatto al suono complessivo del progetto. A questo punto in una recensione interviene il signor MA e questo è il punto in cui nella mia irrompe a gamba tesa come un arcigno difensore di annata: il punto dolente degli Yumiko, o per lo meno del loro disco “Tutto da rifare”, è il messaggio testuale. Faccio la telecronaca dei miei pensieri in quei fatidici trenta secondi di cui ho parlato: metto su il disco e subito si staglia un basso synth potentissimo e distorto, ecco che entra la batteria con un quattro quarti ruggente e al tempo stesso non antico, campioni e riverberi in sottofondo non banali (questo è davvero piacevolmente inusuale), poi entra la voce; dico ” ok, timbro alla Depeche Mode, ci sta tutto”, assaporo meglio come un degustatore di vino con l’orecchio la linea della voce pensando “questa linea l’ho già sentita dai Depeche Mode, poco male, pure Morricone dice che il plagio nella musica moderna non esiste”, mi gusto ancora un pò l’arrangiamento ossevando che anche le doppie voci per terze siano stilisticamente vicine a quelle di Dave Gahan e soci, ma mi piacciono quindi prosaicamente penso “Sti cazzi!!!”.
Il pezzo oramai è al culmine della salita verso il ritornello, ci siamo quasi. Il mio spirito sta già danzando e si aspetta una frase di quelle che dice tutto e non dice nulla, una di quelle cose che ti rimangono in testa per tutto il giorno, una di quelle cose che sotto la doccia stai tutto il tempo a rimuginare sull’interpretazione giusta e sulla bellezza della scelta della parole. Arriva il ritornello e cito testualmente: “Fammi entrare nel tuo inferno, l’unica sicura via per capire in fondo la follia”. E’ la poca cura delle parole e il criminale uso italiano della rima baciata che distingue un disco da ascoltare sotto la doccia da uno che ti fa pensare sotto la doccia.
F.O.O.S. – Showcase
E qui casca l’asino. Leggo nella presentazione di questa band la fatidica parola “electrock” che mi spaventa quasi come vedere il pagliaccio It, incubo della mia infanzia. Che cosa significa mischiare elettronica al rock? Club metropolitani e bui con piazze gremite di umanità. Dj col ciuffo dritto contro il sudore che gronda dalle mani. Luce solare scaraventata su neon prepotenti. Analogico con digitale.
Devo ammettere che la combo mi ha sempre un pò spiazzato. Da sempre ho considerato la musica elettronica come una facile scappatoia per giustificare il fallimento del rock’n’roll nei giorni nostri. Stupida e forzata proiezione futura di un mondo che necessita un presente. Per un purista come me insomma è difficile trovare un connubio tra due realtà così lontane e ritengo buona l’amalgama solo quando di mezzo interviene l’immortale collante: “il pop” (Kasabian, The Killers o gli U2 di “Pop”, tanto per far capire quanto sono “asino”). Ma qui il collante viene usato col contagocce e i due universi si scontrano senza mezze misure, uno scontro titanico senza tante carezze o addolcimenti.
I F.O.O.S. arrivano da Torino, città che da un certo punto di vista già da qualche anno strizza l’occhio all’elettronica. Sono in due, picchiano duro come fossero in cinque (li ho visto dal vivo, fidatevi che vi fanno sentire il vento in faccia) e non hanno alcuna intenzione di abbassare la testa per scendere a compromessi. Il loro esordio discografico è “Showcase” che da anche il titolo al primo brano dell’album. In questo inizio ci troviamo sommersi in un mare apparentemente quieto ma che odora di tempesta, puzza di nervosismo. Un braccio teso a tenere una testa sotto l’acqua per affogarla. La testa però presto si ribella e dal mare esce un terribile mostro (“The monster”), un incrocio devastante con corpo virile e testa robotica. Inizia così lo scontro a colpi di riff villani e tenebrosi synths, il tutto scandito alla perfezione dalle ritmiche di F, batterista precisamente in bilico tra la violenza dell’hard rock e il groove danzereccio.
I due giovanotti non mollano mai la presa, non rilassano neanche un muscolo. La battaglia si fa sempre più serrata in “Hot coals” e “G.O.L.”, la luce artificiale del dancefloor incontra qualche goccia di sudore. I due mondi sono sempre più uniti, ma non si abbracciano, sbattono clamorosamente l’uno contro l’altro e il risultato è pieno di spigoli, sebbene presenti la sua matematica regolarità. “Modermorphosys” è l’episodio più pop con l’intro molto Thirty Seconds To Mars, che poi vira verso terre meno battute fornendo anche a questa canzone la giusta dose di personalità. “Mirror Labyrinth” suonerebbe perfetta per un frenetico videogioco sparatutto e simula l’angosciante claustrofobia del labirinto (giusto per dare un esempio di come la band rifletta bene le sensazioni nella propria musica). Nel finale “The world we could have built” i toni si abbassano, la guerra sembra finita e si torna all’iniziale calma apparente. Il pezzo pare parlare da un altro pianeta e con un briciolo di fantasia calzerebbe perfettamente addosso alla voce toccante di Dave Gahan.
Eh si, devo proprio ammetterlo, questa volta il mix “electrock” è riuscitissimo. I pezzi sono tutti “killer” e il disco è prodotto alla perfezione. Lo dimostra la caparbia gestione del caos apparentemente anarchico (“Hot coals” e “Riot!” i migliori esempi). La testa robotica non ammette sbavature, tutto sta dentro lo schema. Ma lo schema è una terribile gabbia dove “il mostro” si dimena e grida libertà. La libertà non la ottiene, ma il suo grido pregno di umanità rende questo un grandissimo album.