Questo Ep dei ternani Lotus Syndrome suona in maniera decisamente imperfetta, pena per le mie orecchie, è pieno di difetti, sviste, omissioni, imprecisioni e chi più ne ha più ne metta. Nella loro biografia si autodefiniscono un gruppo dalle trame Post Grunge e Alternative non considerando che il Post Grunge è tutt’altra cosa (chi come me ha vissuto in pieno l’epoca Grunge sa cosa voglio intendere). Per quanto riguarda l’Alternative non è ben chiaro il campo in cui vogliano inserirsi. Tra le influenze leggo Foo Fighters, Muse, Afterhours, Verdena. Ma che diamine! La prima band citata ha un certo Dave Grohl (ex Nirvana) nel gruppo, la seconda vive ormai nell’Olimpo del Rock mondiale e le ultime due sono fra i colossi del mondo Indie italiano. Possibile quindi che miscelando tutti questi talentuosi musicisti come risultato abbiamo soltanto cinque brani male effettati e dai ritmi decisamente incoerenti? Non basta possedere ed emulare la discografia completa dei propri idoli, non basta comporre senza una propria personalità, bisogna mettere le proprie maledette idee nella musica. Eppure le prime note di chitarra della traccia che dà il titolo all’Ep, “Iride”, lasciava presagire qualcosa di ottima fattura, ma poi, si sa, è facile perdersi per la strada soprattutto quando si esagerare a dismisura con gli effetti delle chitarre, il rischio è quello di ledere l’ascolto di una voce molto Indie che non sfigurerebbe in occasione di concerti molto (grandi) importanti (si ha l’impressione di un ottimo risultato live piuttosto che in studio).
“Tempo Artificiale” è invece una piccola gemma lasciata lì, gettata in mezzo ad altri quattro pezzi che potrebbero essere ampiamente migliorati con pochi ma significativi ritocchi (magari con la supervisione di un esperto produttore), magari con qualche controcanto, perché la totale assenza di cori (o seconde voci) si fa notare (così come quella di assoli di basso o batteria) e incide anch’essa parecchio sul giudizio complessivo, ma come dico sempre: “Non dai complimenti si cresce, ma dalle sole critiche…”.
In fondo un passo falso può capitare a tutti, anche ai migliori.
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Lotus Syndrome – Iride
Una Volta Erano Buskers
La musica come forma d’intrattenimento e di comunicazione è legata inscindibilmente con la pulsante vita della strada. Ogni nazione ha avuto la propria dose e storia di corrente musicale on the road, dove gli artisti facevano di piazze, angoli e vicoli il loro personalissimo palco. Comunicavano, raccontavano, protestavano ed in cambio non chiedevano nulla, se non offerte libere. Musicisti itineranti e non che della musica hanno fatto la propria vita e il proprio mezzo di sussistenza, creando nelle varie nazioni veri e propri movimenti musicali. Dai tempi della gloriosa Roma passando per i cantori dell’amor cortese dell’alto medioevo come i Troubadours della Francia settentrionale e i Minnesingers tedeschi, oppure i musicisti Tzigani dell’est europa, i Mariachi messicani fino ad arrivare addirittura alla cultura nipponica con i Chyndon’ya giapponesi. Esempi ce ne sono moltissimi. Chiamati nel mondo moderno genericamente buskers, parola di origine indo europea che significa “cercare”. Intrattenitori che nella ricerca, dunque, anelano fortuna, fama o “semplicemente” la sopravvivenza. Anche nel corso dell’ultimo secolo, il busking ha trovato varie connotazioni nelle diverse scene musicali. Dagli itineranti bluesmen lungo le rive del Mississippi, passando per i vagabondi del cantautorato folk, fino agli anni della controcultura dei figli dei fiori.
La strada vista come sfogo comunicativo del proprio essere e del proprio pensiero, un ambiente (non sempre, ahi noi,) libero, dove poter manifestare la propria passione e il proprio talento. Oggi più che mai rappresenta per gli artisti di tutte le arti un banco di prova fondamentale, probabilmente il banco di prova più importante. Nella musica non basta solo il talento, ma bisogna saper emozionare ed emozionarsi. È proprio qui che la musica di strada diventa giudice generosa e spietata della performance dell’artista. Uno strumento di trasporto diretto dell’individualità personale. Il busker interagisce direttamente con l’ascoltatore. Niente palchi, niente divisioni. Spettatore e artista insieme sullo stesso piano. La conquista di un pubblico passante assorbito nei propri pensieri e la capacità di gestire un’audience, trattenerlo, farlo tornare sono qualità che si imparano con l’esperienza, con il coraggio di osare e combattendo lo stress e la sempre viva possibilità del non essere cagati. In fondo tutti i musicisti vogliono solo qualcuno che li ascolti e che diano un senso di approvazione alla loro indole artistica, altrimenti cercherebbero fortuna in altri modi. È proprio grazie al confronto con la strada che molti artisti hanno trovato la fiducia, la forza e la spinta per riuscire a trovare se stessi e far si che la propria carriera musicale decollasse.
Nascere in una nazione come l’Australia dove il busking è una delle forme di espressione più rispettate e dove in ogni angolo delle città è possibile immergersi in esibizioni di straordinari performer, è senza dubbio un vantaggio di non poco conto, ma allo stesso tempo un pitch di non facile conquista. Nel 1996 nella colorata cittadina di Fremantle, nel Western Australia, il 21enne John Butler attratto dal richiamo della strada inizia a suonare la sua chitarra lungo i marciapiedi della città. Chitarra e voce l’unica forma di comunicazione con la quale riesce a esprimere la propria personalità. Succede, dunque, che l’umiltà, la passione e il talento che il giovane dimostra, incanta ed intrattiene costantemente pubblico. Non solo gli appassionati di musica si fermano ammaliati, intontiti e sbalorditi durante le note del pezzo intitolato “Ocean”, brano strumentale scritto all’età di 16 anni che esprime tutta l’essenza del chitarrista australiano il quale in un misto di vibrazioni emotive intense parla di amore, vita e perdita. Accetta i consigli del pubblico e decide, con i soldi guadagnati, di incidere una cassetta. La intitola Searching For Heritage, vende più di 3000 copie in brevissimo tempo. Dalla strada passa ai locali per poi conquistare con il suo John Butler Trio tutto il continente australiano e non, in un escalation continua di approvazioni di pubblico e critica. Chitarrista dal talento cristallino che grazie alla sua tecnica e alla sua miscela di musica Bluegrass, Folk, Blues, Funky, Roots, probabilmente avrebbe avuto successo anche se avesse iniziato in una maniera differente. Ciò che è certo è che la strada aiuta John ad avere fiducia nelle sue possibilità e nelle sue capacità, ad acquisire carisma e personalità e, per sua stessa ammissione, a intrattenere il pubblico e a capire le dinamiche dello show. In una recente intervista ricordando quei giorni dichiara:” Vivi la tua vita giornalmente struggendoti, per cercare di trovare la tua voce o il tuo posto nella società. Poi tutto ad un tratto ti trovi di fianco ad un bidone dell’immondizia con il tuo strumento e facendo facce che spaventano i bimbi. Il pubblico ama ciò che suoni e tu riesci a sentirlo. Continui semplicemente a farlo e a seguire questo flow”. I live del suo pezzo Ocean hanno raggiunto oramai più di 30.000.000 visualizzazioni, tant’è che nel 2012 per ringraziare il pubblico decide di incidere una versione in studio e offrirlo in free download sul suo sito. “ È un pezzo parte del mio DNA, raccoglie tutto ciò che non posso spiegare con le parole.” Il virtuoso musicista ha regalato fin da subito il suo spirito alla strada, esibendosi in quello che tutt’ora è ancora il suo pezzo più personale. E la strada lo ha premiato.
John Butler in una non recentissima ma molto evocativa versione di Ocean, molto vicina alla versione incisa su Searchin for Heritage
Legata ad una storia simile è la incredibile Kaki King, chitarrista statunitense amata tantissimo, tra l’altro, dal popolo italiano. Artista dal talento puro ed esploratrice assoluta dello strumento a sei corde, sempre alla ricerca di sonorità al di fuori dei canoni stilistici classici (pur partendo da una profonda conoscenza/amore per la musica classica del 20th secolo). Una prima passione per la batteria per poi passare ad interessarsi alla chitarra, che suona con una tecnica finger picking caratterizzata dalle percussioni di derivazione Flamenco e dal fret tapping. Un talento che inizia a diffondere le proprio note nei tunnel della metropolitana di New York nel settembre del 2001. Trasferitasi, infatti, per motivi di studio dalla natia Atlanta ed ancora poco certa sul futuro, decide di scendere nella subway neworkese munita della sua chitarra e del suo estro. Spinta dalla necessità di guadagnare qualche soldo e dalla semplice voglia di suonare per strada, inizia la sua carriera di busker nelle stazioni lungo la linea metropolitana. La spontaneità ed originalità delle sue performance non passano assolutamente inosservate. La meraviglia che desta nei concentrati pendolari americani si trasforma in una continua e insistente richiesta di demo. Troppo brava per non essere notata, troppo brava per non vendere la sua musica. Inizia a lavorare come cameriere al Mercury Lounge dove nel 2002 viene organizzata una festa per l’album creato dalle sue performance live nella metropolitana. Una copia dell’album finisce sulla scrivania della Knitting Factory che le offre la possibilità di suonare nel loro Tap Bar. Come spesso capita nella musica la persona giusta al momento giusto nota il talento di Kaki durante un’esibizione e grazie a quell’incontro pubblica nel 2003 l’album strumentale Everybody Loves You per l’etichetta Velour. Un disco d’esordio acclamato dalla critica che le permette di accrescere la propria notorietà e di esibirsi aprendo i concerti di artisti più affermati conquistando anno dopo anno la stima del mondo della musica. Sei gli album pubblicati fino ad oggi, tante le collaborazioni e i premi. Una musicista fantastica molto legata e grata fortemente agli insegnamenti tratti dalle perfomance da buskers. Racconta delle sue esibizioni in metropolitana come un vero e proprio allenamento che le ha dato la giusta forza, formandola fisicamente e mentalmente. In un’esperienza lunga poco più di un anno, si è forgiata, aumentando e migliorando la propria creatività e divertendosi facendo ciò che più ama. Suonare per strada ammette che spesso le manca; le manca, molto semplicemente, la libertà ,anche di poter scegliere di mollare tutto nel mezzo di un brano ed andare a casa.
C’è invece chi deve alla strada la propria sopravvivenza e storia, non solo musicale ma di vita vera. Steven Gene Wold, in arte Seasick Steve, americano classe 1941, lascia la casa materna per via di un patrigno manesco all’età di 13 anni. Pochi spiccioli e una chitarra. Inizia il suo cammino in lungo e in largo per gli States alla ricerca di ogni tipo di lavoro, in un girovagare degno di un romanzo della beat generation. Ci sono giorni in cui lavoro manca e la fame fiacca il corpo e lo spirito. In quei giorni Steve prende la chitarra, sfoga la propria frustrazione, condivide il proprio amore per la musica e racimola qualche dollaro. Per resistere e sopravvivere con il suo Rock Boogie nel cuore. Suona per le strade d’America e i fatti della vita lo portano a suonare nelle metropolitane di Parigi. Il successo per lui non è certo immediato, il suo stile di musica viene riconosciuto poco interessante e, stando ai suoi racconti, non colpisce particolarmente i passanti. Non abbandona mai la propria indole e personalità musicale. In un girovagare continuo finisce addirittura nella zona di Seattle, nell’epoca dell’esplosione del Grunge. Apre un piccolo studio di registrazione nella città di Olympia e viene in contatto con dozzine delle giovani band della zona. Si riesce a ritagliare un spazio in piccole gigs. I ragazzi di Washington mostrano di apprezzare lo stile musicale di dell’ hobo Steve (lo stesso Dave Grohl racconta di avere assistito entusiasta ad uno suo show). Per insistenza della moglie, norvegese, Seasick Steve torna in Europa ad Oslo dove nel 2003 con una piccola etichetta indipendente e due musicisti svedesi incide il primo album Cheap. Il lavoro arriva all’orecchio di alcuni importanti dj inglesi generando un discreto successo in Inghilterra, tanto da invitarlo ad andare a Londra per alcuni show. Sembra iniziare la carriera del bluesman americano quando purtroppo un’infarto gli pregiudica lo stato di salute e deve mollare promozioni ed esibizioni. Sull’orlo dell’abbandono della speranza di fare della musica la sua professione, trova la forza (anche grazie alla moglie) di reagire e di incidere “Dog Blues Music” con l’etichetta indipendente Bronzerat Label, registrato interamente su un recorder a traccia unica nella cucina di casa.
Un secondo album che sorprendentemente in Inghilterra in molti stavano aspettando. Il giorno della svolta, però, avviene il 31 dicembre del 2006 notte dove si esibisce al programma televisivo ingelse Jools Holland’s Hootenanny e dove accade ciò che Seasick Steve non si sarebbe, alla veneranda età di 65 anni, mai aspettato. Canta “Dog House Boogie” canzone biografica con una strampalata chitarra a tre corde ed un semplice drum box machine e conquista tutti. Con la sua barba lunga, il look da farmer e il suo three strings transboogie conquista il pubbico presente in sala e tutto il popolo inglese e da quella fatidica notte Seasick Steve, sempre impegnato nell’impresa di sfamare sé e la sua famiglia diventa una celebrità. Il popolo musicale inizia a celebrarlo. Ne apprezza la genuinità, il folklore del suo essere, la sua non semplice storia e la stravaganza degli strumenti musicali, alcuni dei quali costruiti da sè, ricchi di aneddoti e tanta umiltà. Dalla strada ai più grandi e importanti festival di tutto il mondo, dopo una gavetta durata mezzo secolo. Dall’anonimato più totale alle collaborazioni con artisti come Dave Grohl, Jack White, i Wolfmother e il mitico John Paul Jones degli Zeppelin che lo accompagna in moltissimi dei suoi concerti live. Le esibizioni per le strade d’Europa e d’America hanno avuto per Steve un’importanza fondamentale. Nella stesso brano “Dog House Boggie” racconta: “Sometimes gettin’ locked up an’ somet- sometimes just goin’ cold and hungry/ I didn’t have me no real school education, so what in the hell what I was gonna be able to do?/ But I always did pick on the guitar; I used to put the hat out for spare change /But now I’m makin’ this here record and I’m still tryin’ to get your spare change/ I don’t know why went wrong but it ain’t bad now. And I just keep playin’ my dog house music/ Sing the dog house song…!” Busker non solo come espressione di creatività ma come ultima speranza di vita. Ciò che la performance e la vita passata in strada ha insegnato a Seasick Stee è di non demordere. Nonostante sembrasse che a nessuno interessasse il suo sound, ha sempre persistito e continuato senza accettare compromessi, suonando il suo Blues, rimanendo se stesso, buttando fuori il suo mondo interiore. Un esempio di come a volte la strada possa essere spietata, ingenerosa ma allo stesso tempo maestra.
L’autobiografica Dog House Music in una versione del 2011 carica di energia con il batterista Dan Magnussen
Tre storie di successo diverse, in tre continenti diversi. Lontani nel tempo e nello spazio ma legati dall’indissolubile esperienza che la strada ha regalato. Tanta bravura in ognuno di loro, tanta sfacciataggine ed ovviamente anche culo. Ciò che pero è palese da queste storie è di come il Busking possa rappresentare un punto di partenza importante per ogni artista e di come il mantenimento e l’espressione della propria personalità sia alla base del successo. Umiltà, verità e personalità i fondamentali ingredienti di una musica autentica che viene dal cuore e in grado di colpire anche i passanti più distratti. Peccato, però, che spesso, diffidenza e soprattutto burocrazia, specialmente in Italia complichi sempre le cose, ma questa è tutta un’altra storia.