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Uscito l’Ep di Le Gros Ballon
Le Gros Ballon ha lanciato il suo Ep, Hey!, lo scorso 20 settembre. Quattro tracce ben distinte tra loro e allo stesso tempo stilisticamente omogenee, capaci di offrire uno spaccato chiaro del progetto Le Gros Ballon. I brani sono disponibili su Bandcamp.
Stereofab – Demo
L’avvento e l’innovazione di internet potrebbe essere un arma a doppio taglio per le band emergenti.Infatti c’è la possibilità, attraverso la miriade di social network esistenti, di avere molta più visibilità rispetto agli anni passati, in più la facilità dei free download permette l’ascolto immediato ad ogni angolo del globo, senza l’interferenza del denaro. Ma quello che non è mai cambiato è il valore del Live. Il gradino più difficile da salire, quello per il quale si fanno mille sacrifici e si spendono mille ore di studio e di prove. Quell’esperienza che ti da tutto o niente. Quell’ora che fa esistere il gruppo,al cospetto del pubblico. Ma l’esistenza è determinata anche e soprattutto dall’ascolto (scopo principale di tutto il lavoro) di un album, di un ep o di una prima demo. Infatti questa infinita ricerca ci porta alla conoscenza di un giovane gruppo foggiano, gli Stereofab. Progetto nato nel 2011, che vede Roberto Consiglio alla chitarra e alla voce, Stelvio Longo al basso e Fabrizia Fassarialla batteria, nel 2012 sostituita da Davide Tappi.
Con una ventina di concerti all’attivo, in Puglia, nel 2012 esce la loro prima demo The Master Game. Quattro brani, per un totale di 11 minuti e 40 secondi.Tutto si apre con The box, che a mio parere, rimane il brano più interessante di tutto il lavoro, nel quale se vogliamo cercare quel quid in più, lo possiamo anche trovare. Testo essenziale, talvolta ripetuto (come la frase I can’trememberyourname), che senza rendersene conto rimane imprigionato nella testa, assieme alla sua melodia fortemente orecchiabile. Il che non è negativo, anzi, quello è l’elemento che sembrerebbe il più importante per essere ricordati, anche se il ricordo è difficilissimo da ottenere. Consiglio: i brani più orecchiabili sarebbe più sensato non metterli all’inizio di un album(o, in questo caso, di una demo),proprio per tenere alto l’interesse.
Demo che procede in maniera similare nei restanti tre brani I hopeyoulikeit, Berline Today in a way, costruiti nella stessa maniera: intro di qualche secondo, testo essenziale, piccolo solo di chitarra, cantato e fine. Il tutto condito di un genere pop-rock, che non esalta, assieme al cantato lineare, privo di un colore riconoscibile, da smussare in alcuni punti lasciati striduli e che non dice niente, nemmeno nei testi. Testi cantati tutti in inglese e su questo si potrebbe fare un trattato. Cantare in inglese magari rendere più figo, ok. Ma l’inglese potrebbe anche rendere più anonimo l’anonimato più esagerato, soprattutto se accostato a delle parole che decantano i sentimenti e la soggettività, che potrebbero significare tutto per il gruppo e niente per chi ascolta. Sarebbe come scrivere un libro ma senza una vera idea di fondo. Quindi il succo del discorso è di studiare a tavolino ogni piccolo particolare, di fare più esperienze possibili, di scrivere tutto, magari anche in italiano, e soprattuttodi rendere ai testi dei protagonisti, delle storie chiare e dei mondi da esplorare, interessanti, soggettivi sì, ma anche universali. Perché in fondo la musica è questo: sentimento, ma anche ricerca meticolosa.
Per quanto riguarda la struttura dei brani bisognerebbe aprire la mente ed allontanarsi dall’idea che protagonista deve essere sempre, e per forza, la chitarra. Ogni strumento ha vita a se, quindi perché non esplorarli, lasciandogli un po’ di spazio e non farli dialogare tra loro, creando armonizzazioni più interessanti e magari allungando anche le parti strumentali? Certo fare questo è più difficile, ci vorrebbe più tempo, ma sarebbe anche l’elemento più importante per un netto salto di qualità.La predisposizione c’è e anche l’orecchiabilità,sul resto: tempo al tempo e ci risentiamo!
A. Hawkins – Demo 2012
A volte non è questione di fare il critico stronzo, saputello ed egocentrico. A volte è veramente complicato giudicare il lavoro di artisti o pseudo artisti che magari si fanno il culo tra un “lavoro vero”, come lo definirebbe un padre un po’ all’antica e la loro passione. Il fatto è che, per quanto si possa apprezzare l’impegno e tutta la grinta di chi non ha nessuno alle spalle a pompare la loro carriera, è impossibile giudicare in maniera corretta se lo stesso musicista non riesce, per mancanza di mezzi, a esprimere completamente la propria idea di musica. Non è sempre questione di peculiarità artistica ma anche di qualità di registrazione. Non è una cosa da poco, perché influenza la proposta in maniera decisiva. Un conto è desiderare un suono decisamente lo-fi, un altro è esserne forzatamente costretti. L’importante è non fare l’errore di confondere la validità del musicista con quella della musica.
Probabilmente Alberto Atzori, alias Albert Hawkins, è uno che di musica ne capisce parecchio. A cinque anni comincia a suonare il pianoforte, a tredici la batteria e a quindici è già pronto per formare le prime band “adolescenziali”, punto di partenza obbligato di tanti che poi di musica hanno vissuto. È una di quelle persone che nascono con la melodia nel sangue, ma la cosa, molto spesso, non basta a regalare l’Olimpo. A diciannove anni decide di cimentarsi anche con le sei corde e l’anno successivo stabilisce che è ora di provare a fare tutto da solo. Da qui prendono piede l’idea del progetto solista A. Hawkins, l’idea delle quattro tracce del demo di cui stiamo parlando, l’idea di cercare qualcuno disposto a produrre il giovane artista. Dentro il demo c’è tutta la tragedia della musica italiana, c’è tutta la sofferenza di chi si fa il culo sperando di poter esprimere al meglio quella che è la propria vita, c’è tutto un mondo di talenti che non possono emergere e di merde col bel faccino che qualche pappone ha piazzato nel programma Tv giusto.
Nell’ascolto dei quattro pezzi, nel quale troviamo oltre ad Atzori, la sola partecipazione di Stefano Gueli per l’assolo di chitarra in “From A Storm”, brano d’apertura, emerge una disomogeneità preoccupante tra la varietà di strumentazione, quasi come se ogni elemento fosse un’entità a se stante che se ne fotte del fatto che si trova incastrata in una canzone. E cosi la chitarra, che dovrebbe aver nella musica di Hawkins un ruolo chiave, diventa quasi un accessorio incapace anche solo di esaltare la sezione ritmica. Nel secondo brano “I’m Here”, nel suo andamento più sfumato, inquieto e intimo, si può notare la banalità esecutiva del basso e della batteria, cosa che ritroviamo in realtà in tutto il lavoro, anche se con meno enfasi. In “Rain To Rest”, sembrano risolversi alcuni dei problemi ascoltati in precedenza, la chitarra prova a riprendere corpo e la voce, di cui tra poco parleremo, riesce a mescolarsi con maggiore efficacia al sound di Alberto Atzori, anche se seguendo una linea più precisa e monotona. Il tutto si chiude con “Rock’n Love” e il suo pseudo blues acido da strisce bianche e malinconie sixties.
Stavamo parlando della voce, se non erro. Ripeto che la qualità è scadente e quindi ogni giudizio va preso con le pinze ma di certo non stiamo parlando del nuovo Freddie Mercury. Il timbro non ha alcuna particolarità che possa rendere il suo suono unico, non ha estensione invidiabile, spesso l’intonazione non è perfetta. Diciamo non è la voce di uno che possa fare il cantante. A meno che…
C’è un’altra cosa che non mi torna. Una persona che ha studiato cosi tanto la musica, che strimpella da prima che iniziasse ad andare a scuola, che sa suonare tanti strumenti, che decide di non aver bisogno di una band che lo aiuti a esprimere le proprie idee, si mette inevitabilmente sulle spalle un grosso carico di responsabilità. Quello che ci si aspetterebbe è un uomo che utilizzi tutta la strumentazione in maniera irreprensibile e brillante e magari che sia capace di creare melodie superbe. Pensate a multistrumentisti come Nicola Manzan e la sua Bologna Violenta ad esempio, oppure, in ambito internazionale, a Luis Vasquez, in arte The Soft Moon. Invece, ad Alberto Atzori non riesce nessuna delle due cose. Basso, batteria e chitarre sono suonati in maniera elementare, quasi dozzinale, spesso senza che riescano a legarsi tra loro. Le linee di basso, in particolare, sono al limite di una prima lezione di corso per principianti e inoltre, anche a livello di melodie, non c’è traccia alcuna di qualcosa che possa dirsi sufficientemente orecchiabile oppure ricercata. Su una cosa sono sicuro. Con altri mezzi, A. Hawkins avrebbe fatto tutt’altra figura ma non possiamo ridurre a questo la scarsa proposta dell’artista. La piattezza del sound, la voce mediocre, le melodie assenti, le poche idee messe sul piatto, non sono cose che dipendono dalla qualità di registrazione. Forse A. Hawkins avrebbe bisogno di una band più di quanto lui stesso possa pensare.