L’avvento e l’innovazione di internet potrebbe essere un arma a doppio taglio per le band emergenti.Infatti c’è la possibilità, attraverso la miriade di social network esistenti, di avere molta più visibilità rispetto agli anni passati, in più la facilità dei free download permette l’ascolto immediato ad ogni angolo del globo, senza l’interferenza del denaro. Ma quello che non è mai cambiato è il valore del Live. Il gradino più difficile da salire, quello per il quale si fanno mille sacrifici e si spendono mille ore di studio e di prove. Quell’esperienza che ti da tutto o niente. Quell’ora che fa esistere il gruppo,al cospetto del pubblico. Ma l’esistenza è determinata anche e soprattutto dall’ascolto (scopo principale di tutto il lavoro) di un album, di un ep o di una prima demo. Infatti questa infinita ricerca ci porta alla conoscenza di un giovane gruppo foggiano, gli Stereofab. Progetto nato nel 2011, che vede Roberto Consiglio alla chitarra e alla voce, Stelvio Longo al basso e Fabrizia Fassarialla batteria, nel 2012 sostituita da Davide Tappi.
Con una ventina di concerti all’attivo, in Puglia, nel 2012 esce la loro prima demo The Master Game. Quattro brani, per un totale di 11 minuti e 40 secondi.Tutto si apre con The box, che a mio parere, rimane il brano più interessante di tutto il lavoro, nel quale se vogliamo cercare quel quid in più, lo possiamo anche trovare. Testo essenziale, talvolta ripetuto (come la frase I can’trememberyourname), che senza rendersene conto rimane imprigionato nella testa, assieme alla sua melodia fortemente orecchiabile. Il che non è negativo, anzi, quello è l’elemento che sembrerebbe il più importante per essere ricordati, anche se il ricordo è difficilissimo da ottenere. Consiglio: i brani più orecchiabili sarebbe più sensato non metterli all’inizio di un album(o, in questo caso, di una demo),proprio per tenere alto l’interesse.
Demo che procede in maniera similare nei restanti tre brani I hopeyoulikeit, Berline Today in a way, costruiti nella stessa maniera: intro di qualche secondo, testo essenziale, piccolo solo di chitarra, cantato e fine. Il tutto condito di un genere pop-rock, che non esalta, assieme al cantato lineare, privo di un colore riconoscibile, da smussare in alcuni punti lasciati striduli e che non dice niente, nemmeno nei testi. Testi cantati tutti in inglese e su questo si potrebbe fare un trattato. Cantare in inglese magari rendere più figo, ok. Ma l’inglese potrebbe anche rendere più anonimo l’anonimato più esagerato, soprattutto se accostato a delle parole che decantano i sentimenti e la soggettività, che potrebbero significare tutto per il gruppo e niente per chi ascolta. Sarebbe come scrivere un libro ma senza una vera idea di fondo. Quindi il succo del discorso è di studiare a tavolino ogni piccolo particolare, di fare più esperienze possibili, di scrivere tutto, magari anche in italiano, e soprattuttodi rendere ai testi dei protagonisti, delle storie chiare e dei mondi da esplorare, interessanti, soggettivi sì, ma anche universali. Perché in fondo la musica è questo: sentimento, ma anche ricerca meticolosa.
Per quanto riguarda la struttura dei brani bisognerebbe aprire la mente ed allontanarsi dall’idea che protagonista deve essere sempre, e per forza, la chitarra. Ogni strumento ha vita a se, quindi perché non esplorarli, lasciandogli un po’ di spazio e non farli dialogare tra loro, creando armonizzazioni più interessanti e magari allungando anche le parti strumentali? Certo fare questo è più difficile, ci vorrebbe più tempo, ma sarebbe anche l’elemento più importante per un netto salto di qualità.La predisposizione c’è e anche l’orecchiabilità,sul resto: tempo al tempo e ci risentiamo!