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Deerhoof – La Isla Bonita
Lo avrete letto ovunque e questa storia vi avrà anche annoiato ma mi è impossibile non iniziare a parlarvi de La Isla Bonita senza partire dalla sua dichiarata genesi, non fosse altro per la passione del sottoscritto per i fast four. Tutta colpa dei Ramones, a quanto pare. Avrete presente “Pinhead”, brano incluso nell’album Leave Home dei newyorkesi? A un certo punto qualcuno si è chiesto perché Satomi Matsuzaki (basso e voce) e la sua banda non scrivessero canzoni di quel tipo ed ecco che Greg Saunier (batteria e tastiere) butta giù in un baleno la bozza di quella che sarà “Exit Only”, traccia numero sei che diventa il centro nevralgico dell’intera fatica. Non sarà questo l’unico omaggio diretto dell’opera; già l’opening (“Paradise Girls”) nasce come cover di “What Have You Done for Me Lately” di Janet Jackson, anche se poi il brano ha subito alterazioni tali da diventare qualcosa di nuovo mentre “Black Pitch” prende spunto da 24/7: Late Capitalism and the Ends of Sleep, realizzazione letteraria di Jonathan Crary che esplora il susseguirsi disastroso e lo sviluppo devastante del capitalismo moderno.
Quello che è indubitabile è che con circa venti anni di carriera alle spalle e una quantità non indifferente di full length, ep, singoli, live e apparizioni in compilation, nonostante i cambi di formazione, ancora è durissima trovare qualcuno che possa sedere al fianco di Ed Rodriguez e John Dieterich (chitarre) oltre che dei due già citati Greg e Satomi, sia in quanto a stile sia come qualità. Il loro Pop destrutturato è cangiante a ogni volteggio, si veste di matematiche e fredde stoccate per poi ricomporsi in melodie accattivanti o ancora aggredirci con poderose cavalcate Punk. Insegue ritmiche Dance Pop soffocate da strati di chitarre Noise da far sanguinare le orecchie che pure si rifanno a certo Math stile Battles. Art Pop che si trasfigura in un Freak Folk tra Animal Collective, Dirty Projectors e Tune-Yards per poi divenire nuovamente altro. Nulla è direttamente riconducibile ad alcunché di noto anche se ogni cosa ha il sapore vago del conosciuto. La linea vocale di Satomi regala un incredibile tocco di delirio nipponico come nella migliore tradizione Experimental del Sol Levante. Non manca inoltre di trattare temi di stampo politico, economico e sociale (“Mirror Monster”, “Last Fad”, “Big House Waltz”). Riesce anche ad allentare le tensioni con una sognante e psichedelica atmosfera caraibica che fa pensare a dei Vampire Weekend sotto gli effetti di qualche allucinogeno andato a male (“Doom”).
La Isla Bonita si chiude quasi con un gioco (“Oh Bummer”), con i membri a scambiarsi gli strumenti, voce compresa, come a ribadire una certa voglia di dire le cose per bene, fare le cose per bene ma senza prendersi troppo sul serio (lezione portata avanti con successo anche dai Flaming Lips) perché il segreto di questo disco alla fine sta tutto nella sua follia allegra, nei suoi deliri colorati, nel suo caotico ordine innaturale.
Boxerin Club
Intervista con una delle band italiane che più e meglio si stanno aprendo la strada per la fama a livello mondiale. I Boxerin Club.
Partiamo dalle presentazioni: chi sono le persone che formano i Boxerin Club, cosa fanno nei Boxerin Club, e, soprattutto, perché “Boxerin Club”?
I Boxerin Club sono in cinque: Matteo Iacobis (voce, chitarra acustica, elettrica e ukulele), Gabriele Jacobini (chitarra elttrica e ukulele), Francesco Aprili (voce e batteria), Matteo Domenichelli (voce e basso) e Edoardo Impedovo (tromba, tastiere e percussioni). Il nome Boxerin Club viene trovato per caso durante una partita di Taboo, circa 4 anni fa e si riferisce ad un pub in Scozia gestito da un cane addestrato di nome Tarzan, frequentato da soli cani, è inevitabile rimanere affascinati.
È da poco fuori il vostro Aloha Krakatoa. Presentatelo a chi non lo ha ancora ascoltato.
È il nostro primo disco ed è la raccolta di quasi tutti i pezzi che abbiamo scritto nell’anno appena passato, nel quale ci siamo divertiti a sperimentare sonorità World Music, provenienti dalla cultura brasiliana, afro-cubana ed orientale, mantenendo comunque un impianto Pop, fatto di armonizzazioni vocali, qualche distorsione nelle chitarre e cantando sempre in inglese, quindi mantenendo un filo conduttore con i nostri ascolti americani, inglesi e italiani.
Recensendo Aloha Krakatoa l’ho definito disco d’evasione, nel senso che mi è parso di capire che lo scopo primario della vostra musica, ammesso che ne abbia uno, chiaramente, sia divertire, stupire, e allo stesso tempo “coccolare” l’ascoltatore, ovviamente attraverso il vostro divertimento. Che ne pensate?
Sicuramente è un disco d’evasione. Durante la stesura dei pezzi avevamo sempre come obbiettivo quello di far evadere l’ascoltatore dal proprio contesto giornaliero e trasportarlo emotivamente in un posto che magari non aveva mai visto, rendendolo felice e allo stesso tempo stupito, speriamo di esserci riusciti.
Raccontateci come sono andate le registrazioni. Quanto ha influito sul disco la figura del produttore? Come avete organizzato i lavori, data la varietà di stili, strumenti, e mood che il disco incorpora?
È stato un processo molto faticoso ma allo stesso tempo estremamente stimolante. Tutto è iniziato a giugno scorso quando il nostro produttore Marco Fasolo, leader dei Jennifer Gentle, è venuto a stare da noi a Roma per fare un po’ di pre-produzione e registrare dei provini, quindi circa due settimane dopo siamo entrati in studio, a Vicenza. Il disco è stato registrato tutto in presa diretta e completamente in analogico, con alcuni strumenti e microfoni molto rari e datati; abbiamo deciso di agire in questo modo perché volevamo mantenere la complicità del live e al tempo stesso avere un sound molto nitido grazie alla registrazione su nastro.
Le vostre canzoni come nascono? C’è un’idea centrale (o una figura centrale, tra voi) da cui poi si sviluppa il resto? O, all’estremo opposto: lunghe jam e labor limae?
Lo scheletro dei brani viene creato da Matteo Iacobis e Matteo Domenichelli, successivamente realizziamo dei provini che ci passiamo per sviluppare le nostre idee tranquillamente a casa, poi con un po’ di tempo e pazienza in sala prove escono le canzoni.
La cosa che mi ha maggiormente colpito del vostro lavoro è la libertà d’espressione, l’abbattimento dei confini di genere, all’apparente inseguimento di una vostra personale visione musicale. Come nasce questo atteggiamento? È innato, naturale, o frutto di una ricerca o di una decisione presa a priori?
Abbiamo sempre avuto voglia di sperimentare grazie ai nostri ascolti, che sono la cosa di cui andiamo più fieri al mondo. La musica come qualsiasi altra forma d’arte è un modo per esprimere se stessi, ridursi a voler assomigliare il più possibile ad un artista che ti piace sarebbe riduttivo e sicuramente poco divertente.
So che avete avuto esperienze varie e molto soddisfacenti dal punto di vista del live. Avete girato da questa e da quella parte dell’oceano portando a casa ottimi risultati. Cosa combinate sul palco? Idee particolari, tradizioni strane…? Quanto conta l’aspetto live nel mondo dei Boxerin Club?
Il live è la cosa a cui teniamo di più, sin dall’inizio, ci troviamo a nostro agio e ci divertiamo dall’inizio alla fine sempre. Negli ultimi due anni abbiamo girato molto e stiamo continuando a farlo, questo è il miglior modo per crescere come musicisti, come amici, ma credo sopratutto come persone, perché grazie ai ragazzi di Bomba Dischi e DNA Concerti con cui lavoriamo, abbiamo la grande fortuna di confrontarci con migliaia di persone e cercando di stabilire un contatto diretto palco-pubblico. L’America è uno dei paesi dove tutto questo succede in maniera totalmente naturale: l’ascoltatore è molto attento e curioso, sa divertirsi ma sa anche riflettere… non si trova lì solo per passare una serata, vuole essere parete integrante del concerto, per noi è stato così.
Raccontateci le tre cose più strane che vi sono capitate nelle vostre peregrinazioni.
Essere assaliti a Milano da due cretini entrati da dietro nel furgone in movimento alle 5 di mattina senza un motivo, aprire il concerto di Marina Rei senza saperlo, incontrare P. Diddy all’una di notte a Brooklyn che ti chiede di suonare per lui.
In chiusura, domande secche. Gli artisti più strani e meno “azzeccati” con cui vi hanno paragonato?
Devo dire che ci hanno sempre preso con i paragoni.
Il disco (o i dischi) fondamentali che dovremmo sentire per capire da dove arrivano i Boxerin Club.
Graceland di Paul Simon, Nacked dei Talking Heads e Swing Lo Magellan dei Dirty Projectors.
L’italiano “no, mai”?
No, mai.
Vi considerate, in qualche misura, un gruppo “psichedelico”?
A volte sì, sopratutto in studio, alcuni pezzi si prestano, altri no.
Per avere successo, secondo voi, serve di più essere capaci tecnicamente, avere idee originali, farsi il culo o essere rompicoglioni?
Tutto quello che hai detto, facendolo con il sorriso.
Voi pensate di avere tutte queste cose o ve ne manca qualcuna?
Pensiamo di dover fare ancora tanta strada, sicuramente ci facciamo un bel culo ogni giorno, sempre con il sorriso però (ride ndr)
Farete successo?
Non lo so e non so neanche se mi interessa.
Prossime cose che farete che volete si sappiano: concerti, dischi, ecc. Vai.
Presto usciranno dei nuovi video sia live che ufficiali. Il tour di Aloha Krakatoa è appena iniziato e sta andando molto bene, da qui ad Aprile ci sono 30 date e a breve avremmo anche il piacere di aprire il concerto de I Cani a Cesena, serata fra amici. Per il resto vi invito a consultare la nostra pagina Facebook che ci piace tanto aggiornare quotidianamente, cosi da poter rimanere sempre aggiornati su tutto!
Grazie per la disponibilità, alla prossima!
Grazie a voi per l’invito!