Domino Tag Archive
Wild Beasts – Present Tense
Seguo i Wild Beasts da quando vidi il video di “Brave Bulging Buoyant Clairvoyants” su qualche canale musicale una domenica mattina post-sbronza. Ipnotizzato da quella sequenza di immagini da emicrania, complice forse il mio stato mentale alterato, fu amore istantaneo, un amore che è cresciuto all’uscita del secondo disco, Two Dancers, e si è leggermente sopito con il terzo, Smother, che mi pareva mancasse di unità nel suo declinarsi verso l’elettronica.
Bene, con questo ultimo Present Tense il quartetto inglese recupera ciò che eventualmente aveva perso negli ultimi tempi, e si conferma una band intensa ed estremamente interessante, capace di creare atmosfere rarefatte e cariche di tensione allo stesso tempo, generando canzoni piene di meraviglie e con una sorpresa ad ogni piega della stoffa morbida di cui sono ricamate, ma riuscendo a renderle orecchiabilissime, un balsamo uditivo che scorre facile come un placido fiume fresco nella calura estiva (fin dal primo singolo, “Wanderlust”, brano che apre il disco e che con le sue percussioni ossessive bagnate in ondate sonore che le spostano in battere e in levare già dimostra come, nei Wild Beasts più che mai, il bello sia come il diavolo, nascosto nei dettagli). Il loro mix sapiente di beat elettronici e atmosfere sintetiche è ciò che li caratterizza maggiormente: sono danzerecci e radiofonici ma allo stesso tempo ricercati e imprevedibili, e nel panorama dell’elettronica vintage rimangono comunque gli aristocratici bohemienne e senza peli sulla lingua che erano ai tempi di cose più suonate. Senza tacere del fatto che, come musicisti, sono fenomenali: andateli a vedere dal vivo, se vi riesce. Fosse anche solo per le voci di Hayden Thorpe e Tom Fleming (risulta quasi incredibile la casualità con cui due vocalità del genere si siano trovate nella stessa band).
Present Tense è uno di quei dischi di cui non si può parlare più di tanto, perché tutto ciò che si può dire è contenuto nel disco stesso. Non c’è interpretazione o spiegazione che tenga: ascoltatelo. Può giusto non piacere a chi soffre l’elettronica e la morbidezza, ché qui si spinge l’acceleratore a tavoletta su tutte e due le strade, senza remore. Per tutti gli altri, fatevi accompagnare dai Wild Beasts per un tratto di strada, sarà la compagnia più bella: quella dell’amico con cui puoi stare in silenzio perché, tanto, non c’è bisogno di dire nulla.
Anna Calvi – One Breath
Non si può non restare colpiti dal fascino suadente e oscuro della britannica Anna Calvi. È una malia femminile e voluttuosa, ma non per questo indolente (come invece può esserlo una Lana Del Rey, pur essendo anch’essa ombrosa e vocalmente eterea). One Breath, il suo secondo disco, potrebbe apparentemente non suonare originalissimo: voce femminile dalla personalità forte più ritmiche intense uguale qualcuno ha detto Florence + The Machine? Sfido chiunque, però, ad ascoltare “Piece by Piece” e a continuare sulla strada del paragone. Anna Calvi prende l’impervia strada dell’Art Rock, miscelando archi taglienti e percussioni ossessive, organi incombenti nascosti appena sotto la superficie che si rompono e si spezzano con l’emergere di chitarre elettriche cacofoniche e disturbanti (“Cry”), passando da canti di sirene ipnotici ed inquietanti (“Sing to me”), armonie ripiegate su loro stesse e appoggiate su soundscape distanti e voci dalla carica sensuale fuori scala (la title-track), fino ai cori da cattedrale della chiusura (“The Bridge”).
Non so decidere, di questo disco, quale sia l’attributo più godibile: se gli arrangiamenti, così beatamente schizofrenici e radicalmente liberi; il mood, così scuro eppure così sensuale, così lieve nel suo pungere sul vivo eppure così decadente; oppure la voce, un mix killer delle già citate Florence e Del Rey, una voce lasciva, morbida, ma anche aguzza, affilata come un machete, o densa come sciroppo. Per gli amanti delle atmosfere meno prevedibili, un disco da consumare riscoprendone ogni volta lati nuovi ed inaspettati, fino a quando, inevitabilmente, non vi capiterà di invaghirvi della sua tenebrosa autrice, diabolicamente intenta a sussurrarvi nell’orecchio le sue canzoni maledette e dolcissime, facendovi, ogni volta, rabbrividire un po’ di più.
Artic Monkeys – AM
Tipo strano Alex Turner: considerato dalla critica tra i migliori cantanti della sua generazione, accostato ai nomi più autorevoli del pantheon del Rock su tutti il Modfather Paul Weller; artista capace di togliere quell’odioso ghigno dal volto dei fratelli Gallagher superando il record raggiunto da Definitely Maybe nel 1994 vendendo,con Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not, trecentosessantaquattro mila copie in una settimana, aggiudicandosi così il Guiness dei primati per il “disco di debutto con maggior numero di copie vendute”.
Profeta anti-hype ma al tempo stesso avido opportunista, trasformista a trecentosessanta gradi memore della lezione bowiana,Turner torna a far parlare di sé con AM, quinto e attesissimo album, accompagnato come sempre, dalle sue fedeli Scimmie Artiche. Sin dal primo ascolto ci si rende conto che AM è un lavoro destinato a suscitare pareri discordanti. I fan accaniti si sentiranno in qualche modo traditi dalla loro inversione di tendenza, quelli più distaccati forse ne saranno lieti e, chi ancora non li conosce, probabilmente ci si avvicinerà. Questo disco ci trasporta da subito in morbidi territori Alt Pop in cui suoni più audaci di matrice Rock si amalgamano a languide e pericolose tendenze R&B quasi da boy band; miscela evidente in “One For The Road” pezzo che, col suo cantato melodico alla Justin Timberlake, risulta stucchevole. Una parte oscura si nasconde in AlexTurner, irrequieto beatnik musicale che sembra non trovare pace e quasi quasi mi viene da pensare a un disturbo di personalità ascoltando “R U Mine?” brano che, in un colpo solo, cerca di fondere imprudentemente i Black Sabbath con sonorità Hip-Pop; la cosa sorprendente è che ne viene fuori un pezzo orecchiabile e adatto anche al pubblico più ingenuo.
Un po’ ci si riprende con l’intro di “Arabella” che ha un vago profumo di Morphine e chitarroni anni 70 devoti a Tony Iommi. Vogliono tutto e subito questi Artic Monkeys, lo si capisce da “I Want It All” col suo abbordabile ritornello da Hit Parade contornato da un pulsante Alternative Rock che s’imprime da subito nella mente. Merita di essere citato il video di “Why’d You Only Call Me When You’re High?” perché la dice lunga sull’intento della band; è guardando questo video che capirete molte cose sul contenuto dell’album:protagonista è ovviamente il nostro caro Alex Turner che, con un look alla Gene Vincent, gioca a fare il maledetto perdendosi nei fumi dell’alcol e della mescalina mentre tutto fila via, scontato come un telefilm per teenager,su una base alla Craig David. L’album procede con lentezza fino alla dodicesima e ultima traccia, “I Wanna Be Yours” perfetta per un ballo di fine anno stile America anni Cinquanta. Mi piace pensare che queste sonorità faranno storcere il naso anche a Josh Homme che nel 2009 produsse “Humbug”, disco dalle sonorità squisitamente Stoner ma che già lasciava intravedere una sottile furberia commerciale.
Seppur abili nell’arte del remake-remodel, gli Artic Monkeys di AM mancano di spessore, troppo intenti a confezionare un disco accessibile si dimenticano della sostanza scivolando in una banale palude sonora. Insomma,un lavoro fumoso che non ha di certo alte ambizioni artistiche.