Impegno senza compromesso su pazzie incontrollate, e tutto in salsa psicotropa come solo la migliore scena del Copycat Building di Baltimora sa dare e diffondere; Dope Body, quattro sciamani dell’industrial noise si agitano a dismisura tra le dieci pugnalate che costituiscono il secondo album, Natural History, disco successore di quel dannato Nupping che li fece conoscere lungo i marciapiedi di quell’America sozza e ruvida che prova a trinciare ogni forma di melodia per poterla riassembrarla in una stordente fusione di arty-punk e nichilismo, roba scottante per chi cerca – sui border del rock urbano di nuova generazione – i latrati, i sanguinamenti o le epilettiche vicissitudini di un Dan Deacon ed i suoi Wham City.
Ribellioni chitarristiche e posture alla Henry Rollins, abrasioni Pissed Jeans style e squadrature che prese ed ascoltate da lontano in certi frangenti riportano in ballo Talking Heads di primo pelo, sono le crude e fragorose credenziali che il quartetto americano colora di noise a rotta di collo, quel noise casinaro e ben architettato che mantiene fede all’understatement di una poliedria immacolata di peccati lirici; dieci tracce dal trattamento shock in ogni secondo della loro durata, che oltre che ha farsi belle sulla corta distanza di ascolto, riescono poi a primeggiare nella realizzazione di un sottofondo “musicale” che inquieta di piacere come una casalinga violenza psicologica che uno fa a sé stesso, quella dolce e onesta dose di masochismo, che ognuno di noi nasconde e caldeggia nell’intimo.
Loro definiscono il loro sound “industriabalismo”, e non hanno torto credete, fatevi smangiucchiare le dita della mano dagli ingranaggi rettili di “Shook”, “Beat” o “Out of my mind”, fatevi venire un attacco epilettico per montare il ritmo che “Road dog” vi lancia, ed una trinciatina d’orecchi? “Weird mirror” vi soddisferà, e se poi siete ancora idonei per un altro un altro “piacevole supplizio” iniettatevi “Lazy slave” nelle vene e tutti i vizi dei bassifondi del Maryland saranno vostri per un bel pezzo.
Suono radicale e prestazioni aliene eccellenti, cosa si può chiedere di più da un disco?