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The Poison Arrows – No Know Note

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One Boy Band – 33 Giri di Boa

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Ed Wood Jr – The Home Electrical

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Josy & The Pony vs The Poneymen – Hippodrome Club

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Blanck Mass – World Eater

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Casa – Variazioni Gracchus

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Swomi – Painless

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Seaofsin – Timeless

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Sixty Drops – Turquoise

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Kick – Mothers

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Concept d’esordio per il duo bresciano che prova a scandagliare le sofferenze umane nate dal contrasto tra natura e società contemporanea, da quello spazio in cui l’uomo può sentirsi animale libero e la gabbia nella quale è quotidianamente rinchiuso. Riflessioni che arrivano a una conclusione, una soluzione banale. La via di fuga da questa gabbia è l’amore in ogni sua forma e non poteva che esserci una soluzione tanto semplicistica a una questione tanto inflazionata. Lasciando da parte l’aspetto speculativo, sotto quello musicale i Kick prendono a prestito tanti dei suoni che hanno fatto la fortuna del Trip Hop e del Bristol Sound, cercando disperatamente “rumore” personale che fatica a farsi sentire. Il primo j’accuse già nell’intro in cui note nostalgiche introducono il tema del lavoro e della burocrazia spersonalizzante solo attraverso la musica. Tali temi critici sono costantemente alternati a momenti di “luce”, come nella successiva “Vision”, inno alla natura e all’amore. Non mancano brani tratti da terribili fatti di cronaca (“Magick”), metafore per raccontare l’amore umano (“Merry Go Round”) e raccontarne gli aspetti più disperati (“House of Glass”, “Dead End”), citazionismo (“Solitary States”), riferimenti a luoghi magici di questa terra (“Land!”), veri e propri elogi alla vita personificata nel sole (“King Sun”), omaggi personali a persone scomparse (“March”) fino alla conclusiva “Human Error” in cui si palesa la speranza di creazione di un mondo nuovo previa distruzione di quello attuale.

Per tornare al tema portante dell’opera, c’è troppa confusione in questo Mothers, con l’amore visto come unica via di salvezza ma poi raccontato anche come causa primaria di sofferenza ma non è certo questo il grosso limite di un album che non manca solo di talento compositivo ed esecutivo, e per talento s’intenda qualcosa in più della semplice destrezza al canto e alla composizione/esecuzione, ma anche di originalità, idee vere, scelte indovinate di suoni e melodie. Un disco che scivola via senza troppo entusiasmo, totalmente incapace di rapire, sotto qualunque aspetto si voglia considerare. E questa volta, la soluzione non può essere semplicemente l’amore.

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Serena Abrami – Di Imperfezione

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Dopo il debutto con Lontano da Tutto, la cantautrice marchigiana torna con un nuovo Lp per l’etichetta Nufrabic, con l’intento di non fossilizzarsi sotto la catalogazione musicale e cercando di riunire una certa poliedricità per creare un’opera di senso compiuto. Di Imperfezioni è dunque opera dalle mille facce, costruito in un lungo arco temporale, con la collaborazione di virtuosi musicisti e degli scrittori Luca Ragagnin e Francesco Ferracuti per la parte lirica. È anche un disco congegnato con cura e non è un caso che abbiano scritto brani per lei artisti come Ivano Fossati o Niccolò Fabi o che abbia duettato con Max Gazzè, con i quali e non solo con loro (vedi Perturbazione, Cristina Donà, Simone Cristicchi, ecc…) ha condiviso anche alcuni importanti palchi nazionali. Tutte considerazioni che lascerebbero protendere per un giudizio positivo ma non è per niente così; quella ricerca di unità nella varietà finisce per portare su territori pericolosi, con un sound banale a far da sfondo a qualche tentativo di eccentricità che molto sa di forzatura. Gli arrangiamenti, certo ben curati, sono paurosamente mediocri, poco coraggiosi, Pop se vogliamo, nel senso più commerciale del termine, ma incapaci di elevare le undici canzoni oltre la banalità del genere. La lingua italiana non è supportata da una voce in grado di mostrarsi superiore per tecnica e timbrica alle sue colleghe e l’idea generale che si costruisce ascolto dopo ascolto, è di un lavoro studiato a tavolino per provare inutilmente a ficcarsi nel plastico mondo del Pop da radio commerciale (ha partecipato a Sanremo Nuove Proposte nel 2011 e la cosa significa più di molte parole), con il problema che per imbucarsi in tali strade, conta saper toccare i tasti giusti delle persone giuste ma anche costruire canzoni che, se proprio non siamo memorabili sotto l’aspetto artistico, possano almeno essere orecchiabili, intuitive, d’immediato e sicuro impatto. I brani di Di Imperfezione non hanno nessuno di questi pregi ma anzi, a tratti infastidiscono per quanto lasciano trasparire certe intenzioni malsane. Il nuovo e secondo disco di Serena Abrami non è altro che un bel costruito esercizio di stile di qualcuno con non molto più talento delle centinaia di cantanti e musiciste che provano a scalare i muri di vetro che li dividono dalla fama. Non è certo di costoro che la musica italiana ha davvero bisogno come non ha bisogno di Sanremo o di altro Pop inutile e ridondante.

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Push Button Gently @ Garbage Live Club, Pratola Peligna (AQ) 10/12/2016

Written by Live Report

Al Garbage Live Club di Pratola Peligna (AQ) si suona a terra, in mezzo al pubblico, tra la gente, sopra il sudore e le birre rovesciate che ti fanno lo sgambetto e ti buttano giù come se vodka e birra non bastassero. Si suona così per una scelta precisa; eliminare quanto più possibile il distacco tra gli artisti e chi li ascolta, che di ragazzini alle prime armi che si credono rockstar ne abbiamo fin troppi. I piccoli locali come questo, che danno spazio alle formazioni emergenti tagliando fuori le cover band e i karaoke, sono la palestra perfetta e necessaria per diventare grandi e imparare a costruirsi un pubblico, prima che sia il pubblico a cercarti. Lo scorso sabato, sul (non) palco del piccolo club abruzzese c’era una grandissima band londinese; anzi no, c’erano i Push Button Gently, che, musica a parte, di britannico hanno ben poco trattandosi di quattro ragazzi provenienti dalle parti di Como e Lecco. Musicisti in gamba, non proprio giovanissimi, che hanno preso in pieno lo spirito di questo locale integrandosi perfettamente tra la fauna autoctona già prima di iniziare il concerto. Non si tratterà di una band d’oltre manica, eppure, il loro suono non solo non ha nulla da invidiare a tante formazioni emergenti della City riportando alla mente, anche in maniera netta, un certo Brit Pop, di quello più sporco e sghembo. L’influenza dei Beatles è palese, soprattutto nella linearità del disco più che nel live, ma non tutto si riduce a questo e l’azzardata auto definizione di Technicolor Fuzz Rock prende una forma più precisa col passare dei minuti e dei brani. Non solo Brit Pop, dicevamo, e non è certo un caso se Francesco Ruggiero alla batteria sembra pestare come un matto avendo scoperto che Darkwave, New Wave e simili sono la sua primaria passione. Discorso simile per Julio Speziali, voce (ma anche chitarra e basso all’occorrente) della band, con una timbrica forse non pulitissima e perfetta stilisticamente ma che ha il pregio di incastonarsi perfettamente, col suo incedere volutamente claudicante, dentro i continui cambi di ritmo dei pezzi, nelle intercapedini tra note e rumore; voce che ha anche il pregio di mostrare una duttilità impressionante, riuscendo a evocare tanto il Soul yankee, quanto il Pop continentale e un certo cantautorato fuori dal comune. Mai forzato l’apporto di Natale De Leo ai Synth, che non esagera e si limita a impreziosire brani già dalla struttura portante ben salda mentre fondamentale è il lavoro di Nicolò Bordoli, che, oltre alla chitarra, aggiunge la sua voce a supporto di quella di Speziali.

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Il live inizia con “Hurkah”, opening dell’ultimo disco ‘Cause e il resto del concerto sarà tutto incentrato sulla presentazione dei suoi brani, con tutta la tracklist riproposta, più una versione alternativa di “Morning Sailor” nella parte finale. Ci penserà il bis, richiesto da alcuni, a farci ascoltare qualcosa di più vecchio e la cosa non potrà che farci piacere, considerando che, alle spalle, i comaschi hanno tanti altri lavori interessanti, tra cui Confortable Creatures, Fuzzy Blue Balloon e Uru. I quattro ci sanno fare, si dimostrano ottimi tecnicamente, meno nel rapportarsi col pubblico forse; ma sanno come scrivere canzoni, scegliendo ottime armonie e linee melodiche e fanno anche un lavoro eccelso in fase di esecuzione, riuscendo a mantenere intatta una certa propensione al Pop di fondo, pur suonando spesso “storti”, come ha detto qualcuno di fianco a me, cioè con variazioni continue, feedback, rumorismi, interruzioni, e schitarrate pesanti che, in alcuni punti, sembravano quasi volersi trasformare in note Stoner. Sono proprio i pezzi più potenti e nevrotici, quelli in cui i Push Button riescono meglio, mentre convincono meno nelle ballate più languide e morbide. Nonostante le influenze fuori confine siano molteplici ed evidenti, non possono mancare i paragoni col panorama italiano e qui, necessario è l’accostamento con i Verdena, specie per quella capacità di mantenere intatto lo scheletro dei brani mentre intorno sembra scatenarsi un cervellotico caos sonico. Nei lombardi sembra sempre un po’ troppo tirato il freno a mano, rispetto ai colleghi, ma le similitudini non sono certo una forzatura, nonostante la differenza di lingua (i nostri cantano in inglese); come non lo sono quelle con i veneti Jennifer Gentle, nei passaggi più psichedelici, o ancora con i milanesi Fuzz Orchestra, anche se l’aspetto sperimentale e rumoristico è molto meno presente.

È stato un live gradevole, soprattutto nella prima parte, che ha messo in mostra una band ancor più meritevole di quello che non poteva sembrare su disco. C’è ancora e ci sarà sempre tanta strada da fare per loro ma sono assolutamente già pronti per calcare palchi più importanti di quelli di piccoli club di provincia senza dimenticare quanto sudore hanno versato, quanta birra bevuto e quanto affetto hanno ricevuto in questi piccoli club di provincia.

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