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Land Lines – S/t

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Il progetto Land Lines è poco più della naturale prosecuzione di una lunga collaborazione tra un gruppo di amici intimi che, per oltre dieci anni, hanno suonato e scritto canzoni e musica insieme sotto il nome di Matson Jones, gruppo di Fort Collins, Colorado. Anche il quartier generale dei Land Lines è da individuare in quello stato federato degli Stati Uniti dalla forma rettangolare, non in quel piccolo paradiso che è Fort Collins ma novanta km più giù, nella capitale Denver, città resa mitica e immortale anche grazie a John Fante, Neal Cassady e Jack Kerouac.

Saranno quelle toccate dal mito della beat generation le linee di terra evocate dal trio Martina Grbac (violoncello, voce, percussioni), Ross Harada (batteria e percussioni) e Anna Mascorella (violoncello, voce, percussioni) in quello che è il loro primo full lenght ufficiale e che si annuncia come il primo di una lunga serie di lavori che ci presenteranno. Le dieci tracce altro non sono che una raccolta di canzoni rielaborate, originariamente scritte durante una pausa di quattro anni e ispirate dalle costrizioni della vita d’appartamento e poi registrate e mixate da Xandy Whitesel al Mighty Fine Audio di Denver e masterizzate da Bob Weston al Chicago Mastering Service.

L’opera si fonda su tre elementi portanti che si sviluppano e diventano l’emblema di tutto il sound e la proposta del trio americano. Per prima cosa c’è l’aspetto vocale, totalmente in mano o meglio affidato alle corde vocali di Martina e Anna. La loro voce diventa il protagonista quasi assoluto delle canzoni, l’elemento che permette alla musica di elevarsi e conquistare un’energia peculiare e assoluta. Non che la coppia dia uno sfoggio di tecnica senza uguali (diciamo che evitando ogni eccesso stilistico ci lasciano il beneficio del dubbio) ma riesce a inventare melodie avvolgenti e presentare una timbrica gradevole e forte, pur nella sua apparente delicatezza, ricordando per impostazione un’altra storica coppia femminile, le sorelle Casady conosciute come Cocorosie, anche se la voce delle due Land Lines, presenta spigolature e code ebbre più consone al grunge femminile anni ’90. Altra caratteristica importante è la struttura e l’architettura sonora (per lunghi tratti costeggiante il Dream e il Folk Pop) e gli arrangiamenti che riescono a essere perfetti senza suonare eccessivi; niente è di troppo e il risultato suona esattamente come dovrebbe, regalando momenti di femminea tragicità e altri di voluttuosa speranza, passaggi più eterei e altri maggiormente aggressivi, ora arricchendosi di fronzoli appariscenti, ora scivolando come un volo ad ali spiegate sotto la voce melliflua e ferma al tempo stesso. Ultimo fattore che diventa chiave di lettura di tutto quest’album che riprende il titolo dal nome stesso della band, è la presenza del violoncello di Martina e Anna, che riesce a sostituirsi con efficacia e ad accompagnare con eleganza le parti vocali, mentre la ridotta parte ritmica, si limita a ricalcare e portare il tempo delle musiche spesso ossessive, ben oltre le melodie vocali.

Se tutto sembra perfetto, nella sua semplicità e nel suo candore, è proprio nelle melodie che troviamo il muro più difficile da superare, perché se è vero che la musica dei Land Lines si presenta di una cedevole graziosità è anche vero che, per colpire, servirebbero quantomeno delle linee melodiche non solo ricercate ma anche d’impatto e immediatamente gradevoli. Le canzoni invece finiscono per suonare come un magma senza forma, pur se di bellezza innegabile. Un difetto da poco se si guarda all’interezza dell’opera ma che rischia di rappresentare un limite difficile da colmare, se si cerca anche un riscontro immediato del pubblico per sua natura, volente o nolente, legato all’impatto dell’orecchiabilità musicale. Non è un caso che gli episodi più riusciti siano proprio quelli nei quali tali limiti sembrano essere messi da parte per un attimo (“Bomb Blast”, “Sleepwalking”) e sono questi momenti del disco che lasciano intravedere possibilità sconfinate per i Land Lines.

Land Lines :: Wreckage from Mighty Fine Productions on Vimeo.

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Live Footage – Doyers

Written by Recensioni

Un album imponente. Questo è più di ogni altra cosa il secondo lavoro del duo di Brooklyn Topu Lyo (cello, sampler) e Mike Thies (drums, keyboards). A distanza di tre anni dal buonissimo esordio di Willow Be, tirano fuori un’opera costruita su ben diciassette tracce, rigorosamente strumentali, per la durata limite di quasi settanta minuti. Un disco che vi permetterà di godere pienamente del loro estro e vi giustificherà le parole di una certa critica che li pone tra i migliori compositori di colonne sonore surreali in circolazione. Corde ed elettronica, batteria e tastiere, realtà e sogno si mescolano alla perfezione per creare una suggestione sonica indimenticabile, resa ancor più umana dall’aspetto dell’improvvisazione esecutiva.

“L’assenza di limitazioni è nemica dell’arte”. Parte da quest’aforisma di Orson Welles il duo statunitense per mettersi a realizzare Doyers. Sono queste parole del genio della regia (ma non esclusivamente) che fanno da mantra al lavoro dei Live Footage, durante le registrazioni e la creazione delle diciassette (numero che in terra di Obama non genera gli stessi gesti scaramantici) gemme in questione.
Le limitazioni amiche dell’arte, in questo caso, possono essere tante e riferite a una miriade di diverse questioni tecniche, creative e non solo, ma quelle che saltano più all’orecchio, sono quelle dirette delle note, che sembrano spaziare e volteggiare nell’infinità del cosmo ma in realtà, alla fine dell’ascolto, vi renderete conto essere parte di una precisa galassia, uniforme e delimitata, pur se enorme. Tutto ha limite, anche se nella sua apparente illimitatezza e sta solo nel punto di vista dell’osservatore che tali limiti si rendono in parte visibili.

La musica dei Live Footage passa con disinvoltura da eteree e riverberate atmosfere lisergiche e Psych Rock (“Broklyn Bridge”, “Asian Crane”, “Lucien”) a un sognante Dream Pop più stile Beach House che Sigur Ròs utilizzando spesso le stesse forme del Post Rock mogwaiano, fatto di crescendo continui e muri di chitarre, o dello Slowcore Glitch (“Purgatory (The Storm Has Passed)”, “Broklyn Bridge”). L’ossessione ritmica dell’inizio di “Foresight” anticipa altri punti di vista, tendenti al Jazz e non mancano divagazioni addirittura nei territori della Dub Music (“Mortality”), della Drum’n Bass (“Going Somewhere”, “New Breed”), della musica sudamericana (“Caipirinha”), dell’elettronica di chiara matrice Kraftwerk (“Korean Tea Shoppe”, “Computer is Free”) o anche il Rock alternativo contaminato da ritmiche Funky, ovviamente sempre in combutta con un liquefatto e caldo Ambient (“Secret Cricket Meeting”) o il più fumoso e oscuro Trip Hop (“Ant Colony”). Eccezionali i passaggi più spiccatamente Film Score/Soundtrack (“Just Moving Parts”, “Airport Farewell”) nei quali si rende ancor più palese e chiaro il concetto di surreale applicato all’opera dei Live Footage.
Ovviamente, se ancora non avete ascoltato Doyers, vi starete chiedendo come possa io parlare di limiti ma poi tirare in ballo una quantità di generi musicali sconfinata. Come già vi ho detto, dovete ascoltare per capire. Ogni influenza sembra schizzare qua e là, apparentemente senza controllo ma in realtà, se provate ad allontanare per un secondo l’anima dalle note, noterete che la musica dei Live Footage, si ammorbidisce, quando deve suonare più forte e s’indurisce quando invece mira alla leggiadria. In questo modo, si crea una linea imprecisa che, come il volo d’un uccello, apparirà più armonica, con l’allontanarsi dello sguardo.

Per chiudere, non posso che rinnovarvi le mie promesse. Ascoltate e poi ditemi, basta leggere le mie parole, o impazzire dietro ad esse. Citando Welles, le promesse sono molto più divertenti delle spiegazioni. Quindi, buon divertimento.

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Ofeliadorme – Bloodroot

Written by Recensioni

Bloodroot, come la Sanguinaria Canadiensis, fiore della famiglia delle Papeveracee, le cui radici paiono sanguinare se vengono recise. Bloodroot, che gli indiani d’America utilizzavano per dipingersi il volto con i colori da guerra, ma anche come medicinale, come filtro d’amore.Questo sostrato romantico aleggia su tutto il lavoro degli Ofeliadorme, a partire dal nome della band, fino ad arrivare alle atmosfere, spesso impalpabili ed eteree, del loro secondo LP. Un approccio bifronte di ritmiche ossessive (la scuola Low è sempre dietro l’angolo) e arpeggi di chitarra suadenti, il tutto facendosi guidare da una voce femminile morbida ma con una sua personalità (che mi rimanda spesso all’ugola importante di Florence Welch, anche se con più morbidezza, in zona Feist), che è poi il vero centro di gravità di tutta l’evoluzione oscillante del disco.

L’uno-due iniziale è emblematico: “Last Day First Day” si appoggia ad una ritmica rumoristae ad un arpeggio di chitarra danzante, accompagnato da una linea vocale leggerissima, veramente molto Florence + The Machine, il tutto immerso in bagni di pad distanti e cori lontani. La seconda traccia di Bloodroot, la title track, invece, è più ritmica, più piena, più energica, più corale. È su questi due punti che oscilla tutto il disco. Un disco che si compone di opposti: un disco pulito, ma allo stesso tempo carnale, immediato; un disco che tradisce un approccio semplice, da DIY, ma allo stesso tempo una cura certosina per testi e arrangiamenti; un disco che riesce a far convivere la delicatezza della resa con la passione, suggerita, certo, ma che affiora qua e là, e che s’indovina reggere il peso di queste nove tracce in cui perdersi, da cui lasciarsi trascinare, per cui decidersi di staccare il cervello, in una mezz’ora (questo basta) di viaggio interiore. Un disco romantico, come dicevamo, nel senso più ampio del termine.

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Beach Fossils – Clash The Truth BOPS

Written by Novità

Ci sono dischi che si raccontano pezzo per pezzo. Si smontano, si analizzano, come un’autopsia, come al microscopio, atomo per atomo. Ce ne sono altri che invece sono un unico, grande viaggio. O un’atmosfera, una sola. Una fotografia a più dimensioni, da diversi angoli, ma della stessa cosa. Clash The Truth è fatto così. È onirico, sospeso, tenuto in volo dalla voce eterea e bagnata di Dustin Payseur, la mente dietro al progetto, un progetto nato DIY e casalingo e finito invece, con questo disco, in ben due studi newyorkesi (il primo è stato abbandonato, ad un certo punto, per colpa dell’uragano Sandy). Clash The Truth è fatto di melodie semplici, ritmi post-punk, bassi cordosi, chitarre che da acustiche diventano elettriche, morbide, poi acide, poi suadenti, ambienti riverberati e gonfi d’eco, come nuvole in fuga dentro la tua stanza. Melodie, ritmi, ambienti che sono una sola melodia, un solo ritmo, un solo ambiente, lungo quattordici tracce, circa mezz’ora. Poi, a scavare, si possono notare isole nella spuma (“Sleep Apnea”, la mia preferita, che non ha bisogno di spiegazioni; momenti drone e leggeri attimi strumentali, come “Modern Holyday”, “Brighter” e “Ascension”, a spezzare il tutto; brani leggermente più sostenuti – “Crashed Out”, “Burn You Down”, “Caustic Cross” pronti a mescolarsi con l’ossessività della title track, o con il sogno Pop-Noisedi “In Vertigo”, con Kazu Makino dai Blonde Redhead) ma a svelarli tutti vi toglieremmo il gusto di scoprirli da soli. Dalla Captured Tracksun altro esempio di post-qualcosa leggero, facile, intimo, di scuola Low. E oggi, col mal di testa che incombe e un’altra primavera alle porte, è tutto ciò che mi serve.

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Widowspeak – Almanac

Written by Recensioni

Arrivano dallo Stato di New York i due Widowspeak, e ci portano un bastimento carico di chitarre western e ambienti ariosi, voci eteree e atmosfere sognanti.
Registrato in un fienile vecchio più di cent’anni, Almanac (come i vecchi annuari con i consigli per agricoltori e naviganti) è il frutto soprattutto del labor limae del chitarrista Robert Earl Thomas, che ha espanso i demo prodotti dalla coppia dopo l’esordio omonimo del 2011 con strati e strati di chitarre, armonium, piano Rhodes, organi. Il risultato è un fondale a metà strada tra il West e il mondo dei sogni, dove tutto levita leggero, il vento soffia piano facendo roteare la polvere e le stelle tremolano distanti: davanti ad esso scorre il tempo della natura, con i suoi cicli infiniti, la vita e la morte delle stagioni, la giovinezza, l’amore.
Ma il disco non sarebbe lo stesso senza l’altra metà del duo, Molly Hamilton, che ci regala linee vocali sottili come carezze, leggere come soffi. E questa leggerezza è il marchio di fabbrica di tutto il lavoro, caratteristica centrale e ragione di vita del duo, che ci tiene sospesi sia negli episodi più incantati (“Perennials”), sia in quelli dall’andamento più western (“Thick as thieves”, “Minnewaska” – sorta di canto popolare sui generis -, “Spirit is Willing”), sia in quelli più spiccatamente pop (“Devil Knows”, “Ballad of The Golden Hour” – che fino al primo inserto di slide guitar sembra un brano da cantautrice folk anglosassone, tipo Amy McDonald).

Un ottimo prodotto, nel complesso, tra echi di Slowdive e capacità di sintesi alla Low. Da gustare passeggiando nei boschi (ma quelli con le sequoie), oppure osservando le onde disegnate dal vento su pianure coltivate a grano. O anche sdraiati su un prato, o seduti in veranda, ad aspettare le nuvole. Consigliato.

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