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Dustman – Sad Baby Home

Written by Recensioni

Quanto peso diamo al packaging di un disco? E dai video promozionali? E agli abiti a puntino dei musicanti? Quanto il nostro orecchio al giorno d’oggi è influenzato dalla pagina Facebook e dal relativo spam che un gruppo spara in continuazione? Forse troppo, e forse stiamo perdendo il contatto fisico con la musica nuda, spogliata di ogni contorno. Come se tra noi e il suo corpo ci fosse una barriera che non ce la fa assaporare in pieno. Un preservativo che ci impedisce di godere della bellezza e semplicità di suoni che vivono da soli anche senza la giacca giusta e tanti finti amici digitali. Stiamo perdendo il contatto? Forse però non è mai esistita questa primordiale naturalezza nella musica pop. Ed non è proprio un controsenso dare del “pop” ad un uomo privato del suo vestito patinato?

L’uomo in questione ha una maglietta sgualcita in foto, ma si mostra in questo album più nudo che mai. Solo 71 amici su Facebook, un disco Verbatim con il titolo scritto a pennarello e una copertina ritagliata a mano e incollata posticcia. Il “naturalista” in questione si chiama Dustman, viene da Brescia e suona tutto lui in questo “Sad baby home”. Ad accompagnarlo (e a dare grande qualità) la voce celestiale, perforante e nebulosa di Elise.

Detto questo io altre informazioni nel web su questo personaggio non ne ho trovate, quindi mi limito a parlare di ciò che sento. Mi lascio trasportare dal lento flusso dell’album e annego la stupida foga di chi ascolta per giudicare.

“Mystic rain” apre le danze e ci porta lentamente sulle nuvole, da cui non scendiamo più fino alla fine. La voce di Elise ben si incastra agli onirici arrangiamenti del misterioso Dustman, e anche la title track rimane soffice nonostante accarezzi superfici più ruvide e patinate. La voce del compositore prende invece piede in alcuni episodi, più diretti e terreni (anche forse per la sua non perfetta intonazione) come la dilatatissima e inglesissima “Anything is lazy” che mi sarei immaginato però un pelo più chitarrosa. Quando poi i due uniscono le forze vocali nel blusaccio marcio ma (stranamente) trendy di “Little Mary” i White Stripes sono dietro l’angolo, ma rimandi celestiali vanno anche al (meraviglioso) disco sfornato dall’insolito duo Robert Plant e Alison Krauss. E poco importa se “Color TV” è imprecisa nell’esecuzione e naif per la poca pericolosità tra strofa e ritornello, tutto questo ci rimanda un po’ a terra e rende tutto meno fluttuante e più vero e carnale.

“Sad baby home” si barcamena nella sua totalità tra mura sconnesse e vento leggiadro, tra blues soffocato e la possenza della più facile musica leggera, tra ritmiche e atmosfere ipnotiche per esplodere nel finale con due gemme. “Black Sand” è orientaleggiante e sensuale, una passeggiata notturna nel deserto contornato da miraggi. “A horse in the sun” è poesia per le orecchie, tra Florence and The Machine e il miglior rock da cameretta dei Counting Crows (ah perché no, anche dei Perturbazione), il suo ritornello perfora tutte le barriere e la carne si mischia al fluire delle note.

Altro che precauzioni e rivestimenti farlocchi, questo è un disco intimo senza barriere o sorprese particolari. Un fiume di sonorità nude e allo stesso tempo incredibilmente pop. Che magnifico controsenso!

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