Il disco dei Rifugio Zena è rapido e coeso come un caricatore di fucile automatico. I pezzi scorrono rapidi, graffianti, precisi: quasi non mi rendo conto di come finiscono che già sono ricominciati, uno dopo l’altro, in rapida sequenza.
Il punto forte del trio è il groove: batteria piena e diritta, basso pieno, mobile, a tratti funky. Il tappeto sonoro è continuo, sapiente. La chitarra, sopra, ricama elettrica, ritmica, tagliente. Mi fanno pensare alla California, equidistanti tra certi richiami desert e strumentali alla Queens Of The Stone Age (e scena Palm Desert a seguire) e un impatto quasi fisico stile primi Red Hot Chili Peppers – in entrambi i casi con più pulizia, più definizione.
Non che sia un male: i virtuosismi s’incastrano bene, non stonano nel complesso (rischio che si sfiora sempre su musiche di questo tipo, sudate e muscolari). Merito anche della produzione, che è di ottimo livello, pulita, ma che non suona del tutto “finta” (mi ricordano un po’ i Fratelli Calafuria, con meno – decisamente meno – follia).
Anche il capitolo voci si presenta pulito, definito, a tratti anche orecchiabile, ma mantiene un’ambientazione prettamente rock, sia come registro che come approccio alle liriche (semplici, certo, ma che influiscono in misura marginale sul prodotto complessivo, che è fortemente “strumentale”, e si sente nella capacità di non annoiare mai l’ascoltatore nei vari momenti di “vuoto” lirico, ma, al contrario, di tenerlo appeso, trepidante, in attesa di scoprire come andrà a finire questo rocambolesco giro di basso, quell’infernale pattern di batteria).
Si vede che i ragazzi del Rifugio Zena ci sanno fare. Ad un primo ascolto, superficialissimo, mi veniva da paragonarli ai Negramaro (forse perché ho iniziato ad ascoltarli da “Musa”, la balladdel disco), ma è palese una profondità diversa, influenze numerose e distanti tra loro, una capacità di scrittura e esecuzione ammirabile e basata su fondamenta solide ed elaborate (e varie).
L’unico neo, se proprio devo trovarne uno, è la mancanza di “ganci”: non c’è un pezzo in particolare che rimanga nell’orecchio, non c’è l’effetto “tormentone” – vabbè, senza esagerare, nemmeno l’effetto “tormentino”. È un rock “puro”, nel senso che non è da canticchiare, da ripetere sotto la doccia, da fischiettare – e non credo neanche sia poi questo, l’obbiettivo dei tre Rifugio Zena.
Se vi piace il rock suonato bene, energetico, mobile, virtuoso a tratti, non troppo “fighetto”, È tempo che passa è senza dubbio il disco per voi.