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Counting Crows – Underwater Sunshine

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Adam Duritz ed i suoi sodali Counting Crows non smentiscono la loro infinita fama di raccounteurs, commissionano solitudini, piccole gioie e trame nascoste al loro modo semplice di essere band eternamente di provincia, senza fronzoli da agitare né urla da espettorare, raccontano i personaggi interiori della strada intesa come mezzo di vita, come tracciato da seguire per viaggiare sui bordi  anche stando fermi.

La loro arte ce l’hanno confermata in splendidi album, ma ora vogliono cantare canzoni d’altri, non come un banale coveraggio di transizione, ma per dare voce a pezzi sconosciuti di altre band o minori di qualche grande discografia, per dare vita ad altri spiritelli interiori che agitano e si aggirano implacabili su differenti stati appassionati, tra dolcezza e passione; “Underwater Sunshine” è il lavoro che i californiani estraggono dal loro cilindro magico, diciassette rivisitazioni che, con movimenti di sapienza e autenticità sonora confondono circa la realtà esecutiva, tanto è forte e personalizzata la memorabilia esposta sul piatto stereo.

Disco bello e soprattutto a sole pieno in fronte, felice e giuggiolone come un gatto sornione, tutto porta ad un ascolto incontenibile, vibrante che – tolta qualche song del loro repertorio –  si avvicina al Dylan disilluso “You ain’t going nowhere”, la ballatina dubbiosa dei FacesOoh La la”, il plettro di mandolino che il grande David Immergluck che fa grandi numeri su “Return of the grevious angel” di Gram Parson, il rock nebbioso di “Hospital” o il country.field da accendino acceso che accarezza le visioni di un Duritz sempre più poeta dal versante intimo “The ballad of El Goodo”; i Counting Crows vogliono tornare giovani, vogliono reinserirsi in quei filoni libertari dove suonare e cantare non faccia parte dei tentacoli calcolati del mainstream, ma sia parte integrante di un contenuto che valorizzi, dia fiato e cuore ad un qualcosa che suoni per suonare, e con amore.

In questi frangenti sociali e di polifoniche drammaturgie Kafkiane, questo ottimo registrato arriva con la temporalità di un rapporto uditivo con la bellezza.

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Niccolò Bossini – QBNB

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Si canta ai tempi della crisi economica e gli argomenti certamente non possono mancare, si parla di quanto possa essere pesante questo mondo, comunque sia si scrivono canzoni. Niccolò Bossini è un musicista chitarrista con un curriculum estremamente rilevante, a cominciare dai suoi primi passi nel circuito hardcore per finire al fianco del Liga nazionale in concerti come quello delle 220.000 persone di Campovolo per poi registrare sempre con Ligabue l’album in studio “Arrivederci, Mostro”. Ebbene si, un musicista vero, niente hobby ma lavoro, studio e dedizione.

 

Ecco che decide di essere cantautore portando finito il suo personalissimo disco “QBNB” cercando di lasciarsi alle spalle ombre troppo opprimenti salendo dritto sul gradino più alto della musica, assumendo una propria identità che nessuno può intaccare. Il lavoro in questione dimostra alte capacità compositive, l’esperienza è tanta e il talento con gli strumenti assolutamente non manca, ma vogliamo parlare di emozioni? Già, dove sono finite quelle cose semplici o complesse che fanno arrivare brividi, lacrime o sorrisi? Rimango attento nell’ascolto e scopro anche brani orecchiabili e di semplice impatto, apprezzo ma qualcosa maledettamente manca, il sound è il più classico del rock leggero made in Italy. “QBNB” rimane in mostra per parecchio tempo, cerco angoli inesplorati, lo rivolto in tutte le direzioni ma qualcosa manca. Forse era intenzione rimanere lineari senza osare, forse qualcuno avrà meglio capito le intenzioni, io rimango contento ma senza un pezzo. Quel pezzo che avrei voluto cucirmi volentieri sulla pelle, quella finezza che distingue un fuori classe da un importantissimo e indispensabile gregario. Niccolò vale e tanto come musicista, la musica ha bisogno di gente con le sue stesse capacità ma fare il botto forte è comunque roba da pochi, fare il cantautore è roba da poeti.  “QBNB” rimane nella mia memoria come un buon disco da ascoltare quando la mente è libera e le sensazioni sono quasi del tutto azzerate. Questo lo prendiamo come un provino per affilare le idee e tornare in pista con un disco decisamente migliore, lo voglio io, lo vogliamo tutti, lo vuole innanzitutto Niccolò Bossini.

 

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Luchè – L1

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E’ un dato di fatto. Gli ultimi due anni hanno visto spuntare tra gli innumerevoli canali di MTV tipi più o meno loschi, più o meno muscolosi, più o meno tatuati sul collo, più o meno rasati ma decisamente più incarogniti e meno umili di qualsiasi altra cosa sia mai capitata nel music business in Italia.
A partire dall’esplosione di Fabri Fibra il grande schermo della musica è loro, tutti nati da i bassifondi, abituati a lottare in piccoli ring con le parole e con le braccia. E’ il loro momento ed è facile renderesene conto. E tutto ciò muove in me sentimenti contrastanti. Non saprei avere termini di paragone per stabilire chi è un semplice fenomeno incartato in diamanti e cappellino da chi emerge dal fondo e tiene il pugno chiuso con purezza e dignità, ma grida solamente un po’ più forte la sua prepotenza.

Potete dunque capire le difficoltà che io posso riscontare ora che mi trovo davanti a uno di questi personaggi. I muscoli? Ci sono. I tatuaggi sul collo? Pure. La rasatura? Capello sufficientemente corto. E ora concentriamoci sul contenuto del barattolo. Per vedere se riesco a distinguere la frutta fresca da quella omogeneizzata.
Luchè è un ragazzo di 31 anni, nato a Napoli e si sente (non solo dall’accento). Si presenta con le spalle forti di 15 anni di attività nell’underground hip-pop con il duo Co’Sang, ben conosciuto nell’ambiente. A pochi mesi dallo scioglimento del gruppo, Luchè prende coraggio, scrive in italiano (abbandonando il verbo napoletano che prodigava a spada tratta con il suo gruppo), si mette in gioco e ci mette la faccia. Ed ecco il suo primo disco “L1”.

Il ragazzo è furbo e si para subito con una produzione (magistrale) di Rosario Castagnola e Geeno e spara dritto sicuro allo schermo grazie alle collaborazioni con artisti ormai idolatrati come Marracash, Emis Killa e Club Dogo.
Si parte in quarta viaggiando verso il cuore, ma Luchè ci risputa fuori dalla sua ugola tagliente. “Bisogno di me” e il singolo “Appena il mondo sarà mio” fanno capire quanto intimo e incazzato sia l’esordio dello scugnizzo. Egoista per necessità, combatte il mondo che ha davanti con grande e fiera spavalderia (“davanti agli occhi del diavolo sarò un dio blasfemo”, “esiste l’hip-pop italiano poi esisto io”).
La precisione quasi maniacale nei dettagli e negli arrangiamenti spicca subito all’orecchio già dalle prime tracce, differenziando la musica di Luchè da gran parte del minestrone: tanta dance (a volte anche “vintage” da ricordare i gloriosi anni 90), basso distorto che pompa a manetta e tanta Napoli anche nelle melodie e nei beat che rendono ancora più luccicante la “poesia cruda” (così a lui piace definirla).

Poi arriva il superospite Marracash e il riffone di “Rockstar”, un po’ pacchiana e tamarra (solita questione: da quando strizzare l’occhio al music business è peccato?) ma onesta e ben bilanciata tra sacro e blasfemo.
Il disco si fa ascoltare tutto anche da chi come me l’hip-pop non lo digerisce facilmente: “Chi non dimentica” è violentissima, è guerra e far rabbrividire per quanto è sofferta e determinata; “On fire” sembra seguire un po’ troppo l’onda spregiudicata e autocelebrativa degli ospiti Club Dogo mentre l’altro ospite Emils Killa in “Lo so che non m’ami” ci riporta dentro le vecchie mura, atmosfere dance per rabbia sincera e irrazionale, a cuore in mano, delusione profonda di chi non molla la fune e risale piano piano la cima nonostante le innumerevoli valanghe gelide che gli piovono addosso (“per te io mi butto nel fuoco, tu invece ti incazzi e diventi di ghiaccio”).

La “poesia cruda” insomma stupisce fino alla fine del disco: “tatuarsi il mondo sulla pianta del piede e ballare fino a quando il sole interviene” è il grido d’amore de “La Risposta”; “sposo l’odio, il mio amore terreno, combatto questa guerra nel nome dei figli che avremo” è la profezia di “Figli dell’odio” che con giochi di parole riprende la dura guerra tra violenta passione e eccentrica spiritualità.
La chitarra di “S’il vous plait” grida ribellione nel pezzo più lento e sobrio del disco che chiude il cerchio e va al centro, proprio dentro le vene di Luchè, che pompano sangue marcio di vendetta e fluido come un mare in piena di emozioni.

Il frutto in definitiva sembra freschissimo, con quella punta di conservante che serve a mantenere piacione il prodotto, senza snaturarlo.
L’impressione ovviamente è che di tutto questo magna primordiale di brutti ceffi, che per ora intasa gli spettacoli pomeridiani delle reti musicali, non rimarrà molto neli anni a venire. E’ la dura legge del pop e lo sappiamo bene. Ma Luchè merita, la speranza per la buona musica è che arrivi in fretta in cima contro tutti i venti che ostacolano la salita. Per piantare ben salda nel terreno roccioso la sua personale bandiera, cucita con onestà, sangue, sudore e tante crude poesie.

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Michele Di Toro – Echolocation

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Recensire un disco strumentale e suonato interamente al piano potrebbe risultare a volte difficile.
Tuttavia qui la musica è talmente dolce e delicata che evoca il lento sorgere dell’alba, la leggera brezza mattutina che accarezza il volto, ma può far anche pensare al rumore delle foglie in un bosco.
Sembra già di intravedere l’erba ed i fiori che si adagiano e risorgono al leggero vento primaverile…
Una primavera imminente e una luce immensa che ci ricordano il lento ritmo che è talvolta interrotto da lunghe accelerazioni evocanti l’impassiva entrata di ricordi passati che caricano un animo sensibile (ma non per forza fragile) in attesa di un futuro di gioia e di felicità.

Quello di Di Toro è un talento naturale, che gli ha già fruttato molte soddisfazioni, come le esibizioni al prestigioso Blue Note di Milano e alla Settimana Mozartiana di Chieti e persino collaborazioni insolite quali quella con l’artista Maria Elena Carulli.
Nel disco non mancano tuttavia le sperimentazioni sonore, molto differenti da quelle effettuate negli anni ottanta da Steven Brown dei Tuxedomoon, ma altrettanto emozionanti, nonostante anche la diversità dei generi proposti dagli artisti.
Come scritto nel foglietto accluso al compact disc questo lavoro “è una somma di istinto e preparazione”, composto da tredici tracce totalmente arrangiate in sala prove e improvvisate al momento della registrazione avvenuta presso gli studi della Protosound il 4 aprile 2011 sotto l’orecchio sempre attento e tendente alla perfezione dell’ingegnere del suono Domenico Pulsinelli.
“Echolocation” è interamente prodotto da Paolo Tocco e Giulio Berghella (fondatori della Protosound Polyproject e della Volume! Records).
E’ ora che l’Abruzzo musicale emerga anche a livello nazionale, e perché no, anche mondiale, e questo disco può essere l’esatto punto di partenza verso mete inimmaginabili in passato.

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