Quando ho iniziato ad ascoltare Lo Specchio dei L’Ame Noir ho subito pensato: “No, dai! Un altro gruppo (l’ennesimo!) che studia gli album ed i pezzi dei Litfiba e li saccheggia ben bene”. Il motivo? “E Adesso tu” sembra troppo da vicino una rilettura di “La Preda”, uno dei grandi classici del famoso gruppo fiorentino, avendo metriche e ritmi fin troppo simili. Per fortuna andando avanti coi brani mi sono dovuto ravvedere e torna un briciolo di originalità già dalla seconda traccia (che dà anche il nome al disco) che riprende un po’ il sound delle boy band italiane moderne quali Modà e Velvet, composte da ottimi musicisti, per carità, ma pur sempre rivolte a un pubblico giovanile che raramente supera i vent’anni. Che sia questo allora il target verso cui si intendono orientare i L’Ame Noir con le dieci canzoni che compongono questa loro terza prova discografica che va a seguire l’ep Il Deserto e il full lenght Les Ames Noires? Probabilmente no, perché “Ti Rivedrai” e “Atomizzazione” che vede la partecipazione del duo siciliano Canone Inverso non avrebbero sfigurato certamente se fossero uscite dalla mente di Giuliano Sangiorgi dei Negramaro. La linea Rock torna a farsi viva con “Plastica” con sonorità e giri musicali che sembrano presi in prestito dagli Stiltskin, il gruppo di Ray Wilson che raggiunse la notorietà con l’hit “Inside”, che permise al predetto cantante di entrare persino a far parte per un breve periodo dei mitici Genesis. “Lo Puoi Capire” rivela invece il lato più oscuro, quello che finora era rimasto un po’ occultato, che probabilmente è anche quello più valente. “Il Nichilista” è di grande impatto pur essendo disarmante e semplice (per citare alcuni versi della canzone), così come la seguente “Immobile” in cui è ospite Giuseppe Scarpato, da anni fido collaboratore di Edoardo Bennato. La cover di “While my Guitar Gently Weeps” è l’unico esperimento in lingua inglese e forse avrei preferito vedere come sarebbe stata tradotta in italiano. La grande forza di questo disco infatti è, oltre che negli arrangiamenti impeccabili, nelle liriche che si contraddistinguono nel panorama musicale odierno. “Stranieri in Paradiso” è un alternarsi tra grinta, energia e calma ed è la degna conclusione di un album partito col piede sbagliato ma che guadagna punti dalla terza traccia in poi già al primo ascolto. Un ultimo elogio lo meritano infine un artwork e un mastering molto curati. Tanto impegno sotto ogni profilo va pertanto premiato con un voto alto che sarebbe potuto essere persino maggiore se il gruppo non avesse peccato di poca originalità in principio. Ma come si dice: “Errare humanum est”…
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L’Ame Noir – Lo Specchio
Francesco Vannini – Dinecessitavvirtù
L’artista siciliano Francesco Vannini arriva al primo lavoro discografico con l’Ep Dinecessitavvirtù, cinque pezzi che raccontano l’arte di arrangiarsi sfruttando il poco che si possiede nella vita, insomma, racconti di vita quotidiana. La scuola cantautorale siciliana, come tutti avranno notato, vive un periodo di felicità impressionante, ormai (ma non è solo così) il musicista siciliano viene associato involontariamente al cantautore. La produzione artistica dell’Ep in questione è affidata a Fabio Rizzo dell’etichetta 800A Records, quella di Pan Del Diavolo, Black Eye Dog, VeneziA e tanti altri di cui vi lascio il piacere della scoperta. “Bomboletta Spray” apre il supporto con un ritmo incalzante e travolgente, il brano più importante per il cantautore/sociologo Francesco Vannini. Deve molto alla fragranza del pezzo, il cantato non arriva mai all’eccelso, ma i cantautori sono sempre così. “I Treni” si presenta con l’opposta emotività della precedente, in questo caso la tristezza prende il sopravvento, un ribaltamento emotivo spiazza la mia condizione di ascolto. Però ci provo gusto, in fondo le canzoni tristi sono sempre le più belle, sono quelle che ci fanno viaggiare con la mente: “I treni ormai non li conto più, e ho smesso di pensare se non mi pensi”. Tanta scuola cantautorale classica italiana nei testi, tante atmosfere tipicamente nord europee nella musica.
Arriviamo alla title track “Dinecessitavvirtù”, il cuore dell’Ep. Ancora una volta si cambia completamente registro, i riff diventano quasi caraibici, o meglio, isolani. La voce ed il testo riescono a reggere l’attenzione perfettamente, il quadro generale della canzone è più che positivo nonostante qualche piccola scopiazzata vocale ad Edoardo Bennato. Ma niente di serio, forse soltanto inutili sensazioni. Da piccolo brivido “Soltanto una Canzone”, sarà quel bellissimo pianoforte che sembra essere messo a raccogliere lacrime, un brano che scava il cuore. Antonio DiMartino dietro l’angolo guarda soddisfatto l’evoluzione della sua lezione artistica nonostante come potenza siamo ad altri livelli. Si continua sulla stessa linea con “Un Uomo Qualunque”, meno strappa lacrime ma con un armonica fantastica, la voce nella migliore performance dell’intero Ep. Si piange e si ride durante l’ascolto de Dinecessitavvirtù, Francesco Vannini dimostra di avere le carte in regola per entrare a far parte della schiera dei musicisti siciliani che contano. Con un Ep purtroppo non è possibile leggere il futuro artistico di Vannini, aspettiamo l’album ufficiale e se il buongiorno si vede dal mattino… ci aspetta una giornata di sole.
“Voglio Una Pelle Splendida” feat. Samuel Romano anticipa l’edizione speciale di HAI PAURA DEL BUIO?
Esce l’11 marzo, per Universal Music, l’edizione speciale di Hai Paura del Buio?, album storico egli AFTERHOURS, pubblicato nel 1997, e definito dalla critica musicale come miglior disco della musica indipendente italiana degli ultimi vent’anni. Il brano “Voglio Una Pelle Splendida” interpretato insieme a Samuel Romano anticipa il disco nelle radio a partire dal 28 Febbraio. Il progetto vede coinvolti diversi artisti di spicco della musica italiana ed internazionale che hanno collaborato con gli Afterhours: Hai paura del buio? feat. Damo Suzuki; 1.9.9.6. feat. Edoardo Bennato; Male di miele feat. The Afghan Whigs; Rapace feat. Negramaro; Elymania feat. Luminal; Pelle feat. Mark Lanegan; Dea feat. Il Teatro degli Orrori; Senza finestra feat. Joan as Policewoman; Simbiosi feat. Der Maurer + Le Luci della Centrale Elettrica; Voglio una pelle splendida feat. Samuel Romano; Terrorswing feat. John Parish; Lasciami leccare l’adrenalina feat. Eugenio Finardi; Punto G feat. Bachi da Pietra; Veleno feat. Nic Cester; Come vorrei feat. Piers Faccini; Questo pazzo pazzo mondo di tasse feat. Fuzz Orchestra + Vincenzo Vasi; Musicista contabile feat. Marta sui Tubi; Sui giovani d’oggi ci scatarro su feat. Ministri; Mi trovo nuovo feat Rachele Bastreghi; Televisione (2014) feat. Cristina Donà + The Friendly Ghost of Robert Wyatt; special track: Male di miele feat. Piero Pelù.
Il brano in questione prima dello scempio.
Le Formiche – Figli di Nessuno
Un disco Rock è sempre un disco Rock. Poi se una band si chiama Le Formiche il misticismo della parola Rock assume significati indefiniti. O meglio, Le Formiche suona come un nome indiscutibilmente anti trendy per una band attuale, a qualcuno potrebbe anche fare schifo ma per me è amore a prima vista. Poi leggo il comunicato stampa e scopro il segreto di questo nome, il cantante e presumo leader della band si chiama Giuseppe LaFormica. Noooo!!!!! Non è una (re)invenzione “originale” come pensavo! Sai quei gruppi italiani anni sessanta tipo I Camaleonti, I Corvi, I Dik Dik, I Delfini etc. Ok Le Formiche mi facevano pensare a questo. Il loro primo disco ufficiale esce sotto etichetta 800A Records e prende il nome di Figli di Nessuno. Le Formiche mettono da subito in evidenza l’abilità nel raccontare in musica i fatti e le storie dei quartieri difficili della loro città d’origine Palermo, dalle rapine alla vita in prigione passando per storie d’amore e voglia di riscatto. Un disco impegnato. Il vero Rock deve essere impegnato o quantomeno dovrebbe aprire gli occhi.
Figli di Nessuno si apre con “Non ho un Lavoro”, titolo perfettamente legato all’attuale situazione lavorativa nel Bel Paese. Rock classico dalle influenze Blues, niente di italiano a parte la voce da cantautore tipico tricolore. Infatti leggo che il mastering è stato affidato a JD Foster dei Montrose Studio di Richmond. Dicevo io, quindi non c’entrano niente con i Dik Dik, il sound è tutto american old style. Molto Country la succesiva “Storie da Prigione” pezzo simbolo della loro attività live nelle carceri, molto cantautorato alla Edoardo Bennato. Viene voglia di ballare sebbene il testo non lo consentirebbe. Figli di Nessuno scorre liscio senza intoppi nelle successive canzoni “Fortuna” e “Le Bombe”, sentori USA sempre in prima linea. Stranamente sento poco il contagio di Springsteen e questo per qualche anomala ragione mi rende sereno, un disco di Rock americano che non subisce le attitudini del Boss è roba da non credere. Però a pensarci bene qualcosina springsteeniana si sente in “Sam Cardinella”, testo scritto sopra una vera storia di un condannato a morte. Le Formiche capiscono bene la loro condizione di rockers fuori sede proponendo musica leggera e orecchiabile, consapevoli della semplicità del loro prodotto buttano nel disco pezzi satellite come “Mio Fratello”, “Occhio per Occhio” e “La Tristizza” (in dialetto). “Figli di Nessuno” il brano che chiude l’omonimo disco appare come una ballata intramontabile dalle atmosfere cupe, una chiusura poco allegra ma molto intima. Le Formiche dopo due precedenti demo arrivano alla maturità artistica con il petto pieno d’orgoglio, la passione per la musica non conosce generi, il loro album sicuramente fuori dal tempo è il manifesto di una generazione legata al passato che non accetta il futuro. Figli di Nessuno accontenterà quella fetta di persone nostalgiche amanti del Rock Made in USA. Chi dice che il Rock è morto?
Cranchi – Volevamo Uccidere il Re
Il cantautorato italiano può tranquillamente essere sezionato in due: quello impegnato e fatto di sognanti poesie e quello incompetente, commerciale e vergognoso. Lo spacco è talmente netto che chiunque riuscirebbe a scegliere la propria sponda (collocazione) al primo ascolto. Non per questo l’impegnato debba essere meglio del demenziale ma necessariamente superiore al vergognoso commerciale (una fetta molto ampia e diffusa della musica in circolazione oggi).
I Cranchi sono la band del musicista Massimiliano Cranchi e per nostra fortuna fanno parte dello schieramento poetico impegnato, una scelta difficile perché in questo caso bisogna dimostrare di esserne capaci e loro non senza troppe difficoltà lo sono. Il loro disco Volevamo Uccidere il Re arriva come secondo lavoro ufficiale dopo Caramelle Cinesi mantenendo costante le proprie capacità compositive che iniziano a saldarsi prepotentemente all’ossatura della musica d’autore italiana più classica. I Cranchi o Cranchi Band non nascondono mai una somiglianza vocale quasi impressionate con De Gregori, anche il modo di affrontare un brano sembra essere molto simile al vecchio cantautore, un’affinità a doppio taglio per la band, da una parte la facile digeribilità delle canzoni dall’altra un effetto cover sempre nei paraggi. Dobbiamo però considerare la poca originalità di tutto il sistema dei cantautori italiani, ascolti dieci cantanti e nessuno o quasi mette una firma inconfondibile.
Detto questo torniamo al nostro disco Volevamo Uccidere il Re e confermiamo malgrado tutto la propria bellezza, attualità e freschezza. Ho ascoltato il disco per intero almeno quattro/cinque volte prima di arrivare ad una conclusione definitiva, imparavo subito le melodie folk, canticchiavo qualche strofa ma il colpo di fulmine è arrivato per il pezzo La Primavera di Neda (e chi ha già ascoltato il disco ribadirà le proprie perplessità sulla mia critica a questo disco). Non chiedetemi come mai visto che chiaramente non è il cavallo di battaglia della band padana ma il rimanere folgorati non deve per forza avere una spiegazione logica. Forse quel testo dolce e significativo, una melodia condita nel verso giusto, non lo so ma il pezzo merita decisamente. Poi altri grandi brani come Cecilia (penso all’Alice di De Gregori) o Anni di Piombo dove la musica folkeggiante ricorda in maniera convinta Edoardo Bennato. Volevamo Uccidere il Re mantiene un buon atteggiamento positivo per tutta la durata del disco (anche pezzi come Il Cuoco Anarchico) senza mai avere picchi di superiorità o di desolazione, un giusto concentrato di musica e parole, quel cantautorato equilibrato con il quale ogni persona dovrebbe confrontarsi almeno una volta nella propria vita. I Cranchi suonano il sentimento umano di una società senza valori destinata al collasso e lo fanno sulla punta dei piedi senza infastidire niente e nessuno.
“Diamonds Vintage” Edoardo Bennato – Non farti cadere le braccia
Gli studi d’architettura a Milano li ha finiti e allora, verso la meta degli anni sessanta se ne va in autostop in Inghilterra e sbarca il lunario come buskers one man band armato di chitarra acustica, armonica, kazoo e tamburello a pedale, poi gira l’Europa e inizia a collaborare con artisti italiani come La Formula 3, Herbert Pagani, Bobby Solo o Lauzi, qualche 45 giri tra il 1968/1971 per la Numero Uno di Battisti e Mogol, poi finalmente nel 1973 il contratto con la Ricordi ed esce Non farti cadere le braccia prodotto da Sandro Colombini e arrangiato da De Simone della NCCP e per l’artista napoletano fu – allora – un mezzo flop.
Il “Menestrello” Bennato, da molti dipinto come il Dylan italiano, con questo disco, sebbene la popolarità, non ebbe un grande successo, finì nel limbo della casa discografica e degli ascolti anche perché in quei tempi, si cercavano testi e musiche variopinte e briose, qualsiasi cosa che elevasse da una certa depressione sociale che imperava, e così l’immensa poetica del nostro cantautore non fu capita, né il sarcasmo e meno che meno il suo urlo nascosto verso la società e l’emarginazione del potere.
Un disco ora introvabile, straordinariamente – per allora – di rottura e alternativo al massimo, canzoni dirette, on the road, amori stralunati, valori dei ricordi, e tanta forza di rovesciare la canzonettistica italiota festivaliera e la grande illuminazione che questo artista di Bagnoli portò tra il cantautorato colto e non, una forza dal basso che a venire del tempo portò il suo nome ai cubitali dei grandi riconoscimenti; mito dei festival pop e di nuove tendenze, inno umano alla libertà d’espressione e poeta trasversale, da faccia a faccia, Bennato con le sue schitarrate convulse e parole dolcissime, tra il freak e la realtà, in questo disco mette l’anima a mollo in dieci pezzi che già scrivono la sua lunga storia, canta la denuncia sociale “Detto tra noi”, suggerisce di non mollare mai nella vita “Non farti cadere le braccia”, l’amore per la sua terra d’infanzia “Campi Flegrei”, la rabbia per il nulla che si muove “Tempo sprecato” e poi quel monumento alla dolcezza amara – scritta da Patrizio Trampetti – che ha fatto l’olimpo della sua lunga carriera, quello straordinario magone difficile da mandare giù e che fa piangere dentro se ascoltato in silenzio e col cuore spalancato “Un giorno credi”.
Quest’ultima canzone finirà riproposta nel successivo album “I buoni e i cattivi” in quanto l’artista non voleva cadesse nel vuoto perché la gente non l’aveva ascoltata bene, ascolto che col senno di poi divenne l’inno di una generazione intera.