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Mai Stato Altrove @ Garbage Live Club, Pratola P. (AQ) | 04.03.2017
Chissà se Gabriele Blandamura ha mai avuto modo di leggere le mie considerazioni post esibizione degli special guests di Streetambula Music Festival 2015.
Landlord – Aside
Scrivere dei Landlord senza citare la loro partecipazione ad X-Factor sarebbe inutile e controproducente, nonché sintomo di incoerenza intellettuale. Se spesso queste “fortune” si rivelano in realtà controproducenti per artisti e band, stavolta stiamo assistendo ad un’interessante eccezione.
Portatori di un sound pulito e preciso, di soluzioni melodiche interessanti – anche se non rivoluzionarie – e di una delicata voce femminile (Francesca Pianini), i quattro di Rimini hanno potuto, grazie alla enorme cassa di risonanza della prima serata, portare nelle case degli italiani un sound diverso dal solito prodotto impacchettato e pronto all’uso da consumarsi in pochi mesi. I Landlord hanno davvero qualcosa da dire e cominciano a scrivere la loro storia con un EP dal titolo sibillino Aside fuori per INRI (e scusate se è poco).
Cinque tracce per poco più di venti minuti sono sufficienti a scrollarsi di dosso la pesante eredità televisiva: Let me tell you I don’t care about it / Leave it behind, get by, get by è il ritornello dell’opener “Get by” e sembra ribadire più volte questo concetto. I Landlord confidano nella bontà del proprio progetto e non abbandonano la strada maestra (in “Still Changing” il termine “stay” è ripetuto molte volte) facendo di un’elettronica sapientemente addolcita il proprio marchio di fabbrica. Royksopp, Arcade Fire e The National sono tra gli ispiratori del quartetto ma nessuna di queste influenze è così evidente da risultare sgradevole o troppo presente, tutto appare in perfetto equilibrio.
Aside è solo un assaggio di qualcosa che si preannuncia esplosivo, nonché il perfetto compromesso tra Electro, Trip-Hop e Pop, laddove quest’ultimo fa rima con ricercatezza e distinzione.
I Landlord preferiscono restare, almeno per ora, volutamente Aside e far leva sulle proprie possibilità, forti di una capacità compositiva superiore alla media e di un’attitudine elegantemente Pop che li rende padroni di un linguaggio di respiro internazionale.
Black Deep White – Invisible
Ultimamente mi capita spesso di recensire album di band romane. La scena capitolina è incredibilmente variegata, oltre che di buonissima qualità, e, per me che sono piemontese, scoprire quanto il sound sia differenziato è sempre una sorpresa. Ciò che mi colpisce è soprattutto realizzare una certa affezione verso gli anni 80. Non sono da meno i Black Deep White, che dopo l’Ep Tonight del 2012, tornano con questo full length, Invisible, in omaggio alla celebrare frase tratta dal “Piccolo Principe”: l’essenziale è invisibile agli occhi. Il disco apre con la title-track, una commistione di Elettro Pop anni 90 e synth che strizzano l’occhio a qualche anno prima. Segue “All For You” con il suo cambio drastico di atmosfere e sensazioni, con un fischiettato quasi Folk e sonorità acustiche di sfondo. Il brano apre poco, non c’è una vera e propria esplosione, ma nel complesso non è male. Un’altra sterzata repentina arriva con “Farther Back”, praticamente un brano Disco anni 90, forse addirittura un po’ troppo Disco (e con “troppo” intendo che il primo rimando mentale sono gli Eiffel65). La prosecuzione naturale è la cover dei Level 42, “Lessons in Love”. Le sonorità Elettro Dance proseguono con “Utopia”, sostenuta però da un riff a intervalli brevi piuttosto accattivante. E fino a qui tutto fila piuttosto liscio: la band padroneggia la tecnica con una certa competenza, i brani sono piuttosto omogenei fra loro a parte un paio di inserimenti a cui io magari avrei riservato un’altra posizione nel disco, ma, insomma, è un bel sample. Con “Lost in a Moment” mi si insinua un dubbio però: era il caso di fare un album intero e non valutare la possibilità invece di partorire un altro Ep? Perché in questo brano appaiono ispirazioni alla Marylin Manson e ai Bauhaus, con un utilizzo ben più cupo dell’elettronica, che stride con le tracce precedenti. E di nuovo la formazione cambia registro in “Shattered”, Pop puro e semplice, come se i Negramaro avessero fatto un salto negli anni 80 e gridassero di voler sposare Simon Le Bon. Il mio dubbio sembra trovare una ragionevole conferma di esistere nell’ennesimo cambio di “Up to Some Days Ago”: questi ragazzi hanno davvero tante inclinazioni diverse o semplicemente non hanno ancora individuato la propria strada? “Tonight” e “Loneliness and Death” sembrano confermare una preponderante tendenza danzereccia, ma l’impressione a questo punto è che la Dance venga solo impiegata come pretestuoso calderone di ispirazioni diversissime da esplorare, ma ancora senza la giusta consapevolezza ed espressione di personalità. La capacità tecnica, ripeto, non manca, e, questo è il momento giusto di sottolinearlo, neppure la presentazione: il press kit ha davvero tutto quello che un giornalista vuole sapere ed è incredibilmente ammirevole l’attenzione che viene dedicata ai testi e al concept che sta alla base di tutto il lavoro, ma il risultato è, sciaguratamente, un disco macedonia. Il consiglio è cercare di ascoltarsi di più, di non affezionarsi ai brani in sé, ma capire prima di tutto chi si è.
John Grant – Grey Tickles, Black Pressure
Vive di paradossi affascinanti, questo terzo album dell’ex frontman de The Czars, di scarti minimi e diversioni apparentemente casuali. Un impianto minimale, di suoni elettronici qui frizzanti e là cupi, in cui John Grant sciorina flussi di coscienza tra vita quotidiana e paranoie notturne, zampate sensuali e paure profonde della malattia (è affetto da HIV) e della perdita. Pecca di Grey Tickles, Black Pressure è la sua linearità: sonora, quando questi brillii di beat secchi, questi fondali di synth, questa voce bassa e suadente iniziano a confondersi tra un pezzo e l’altro; e lirica, quando le rime baciate diventano un gioco ritmico più che una necessità poetica, quando il quotidiano si infiltra con troppa immantinenza per permetterci di uscire dall’hic et nunc di quella vita, di quel vissuto. La sfida vinta, invece, è sulla piacevolezza immediata, sul sapere essere profondamente Pop portando il minimalismo elettronico nell’area del Funk, del groove, del suonare cool intrinsecamente, senza sbavature, con un gusto melodico lanciatissimo che ricorda le grandi star inglesi, la scuola del titanismo popular anglosassone (potrebbe essere un Robbie Williams di un Rudebox meno paraculo, per intenderci), capace di suonare freak e insieme radiofonico, travolgente. Non so se questo disco passerà alla storia, ma di certo è un disco sincero fino alla nudità, dove John Grant si spoglia e, con un’ironia che fa trasparire una sensibilità malcelata, ci canta davvero il suo intricato vivere, le sue vibranti viscere.
Borghese – In Caso di Pioggia la Rivoluzione si Farà al Coperto
In Caso di Pioggia la Rivoluzione si Farà al Coperto è l’ultimo lavoro di Borghese, che a distanza di circa due anni vede trasformare il suo progetto da singolo protagonista a band, i Borghese, appunto, rigorosamente al plurale. La crescita del progetto non è da ricercarsi però solo nel numero dei componenti, ma è visibile in numerosi altri aspetti, come un maggiore distacco dal genere pop/cantautorale verso una più precisa identità electropop. Non aspettatevi però un album dai toni scanzonati e leggeri, come potrebbe far pensare l’ironia del titolo. Il racconto dell’insoddisfazione di un’intera generazione (la nostra), sempre in bilico tra il non arrendersi mai ed il rinunciare ai propri sogni (“I Miei Primi Trent’Anni”), il tema della crescita e del processo per cui prima o poi si diventa uomini o donne (“Le Foto Di Una Svolta”), i finti amori (“Il Finale dei Film Porno”), la nostalgia verso la propria terra di appartenenza (“Rotta a Sud”): sono solo alcuni dei temi presenti nel disco, caratterizzato da toni decisamente malinconici. L’intero mood del lavoro è ben rappresentato infatti dallo sguardo del bambino in copertina. Di pari passo con le tematiche scelte, la musica si tinge di sonorità malinconiche che ben esprimono gli stati d’animo raccontati. A creare distacco è invece la scelta compositiva delle liriche. I testi proposti sono infatti il frutto di un esperimento di disco sociale; per più di un anno Angelo Violante, membro originario della band, ha annotato espressioni ascoltate in giro, degne di attenzione ed attinenti alle tematiche che aveva intenzione di trattare nel disco, arrangiandole in modo tale che potessero diventare i testi degli undici brani. Non so quanto i suddetti testi siano rimasti fedeli alle loro versioni originali, e in cosa sia consistito l’arrangiamento, ma lo stile compositivo scelto per la stesura delle liriche sembra viaggiare separatamente dalla parte musicale, lungo un percorso parallelo, penalizzando l’ascolto. Questo aspetto, presente nell’intero disco, è meno accentuato in brani come “Ho Ammazzato il Mio Produttore” o “La Tipa di Rockit”, forse il più riuscito a livello compositivo. Insomma, una buona, originale ed interessante intuizione con qualche problema nella modalità di esecuzione. Volendo citare gli stessi Borghese, Le Parole Sono Importanti, sono loro stessi a cantarlo. Importanti non solo nei contenuti ma anche nella forma, a quanto pare.
Galleria Margò – Fuori Tutto
La Galleria Margò nasce dall’incontro fra Antonio “Gno” Sarubbi (voce e testi) ed il chitarrista Stefano Re (chitarra e synth) nell’anno 2012. Alla batteria troviamo Tony Santelia ed al basso Marco Paradisi. Insomma, quattro ragazzi con la voglia di farsi sentire, voglia che verrà chiaramente espressa attraverso l’album di debutto Fuori Tutto (la scelta del titolo non è di certo casuale). Il disco, anticipato di un mese dal singolo “Glitter” su YouTube, esce in versione digitale il 16 aprile 2013, appena due giorni prima dell’uscita della sua versione fisica ed in un solo anno la Galleria Margò riesce ad accumulare un notevole numero di live, spaziando dall’estremo settentrione alla provincia salernitana (Scafati – 29 novembre 2013), dove registra un notevole seguito. Il disco si rivela intrigante sin dal primo sguardo, grazie alla strategica e brillante copertina (ad opera di Davide “Zark” Chiello) che sintetizza in maniera concisa il contenuto dell’album, attraverso la metafora degli occhi che rifioriscono (metafora contenuta, tra l’altro, nella quarta traccia del disco “Dovessi Mai”).
Per quanto riguarda il sound, ci si accorge sin dal primo ascolto che la Galleria Margò non si preclude nulla, sperimentando un mix di suoni che riesce a sintetizzare una musica alla portata di tutti, tuttavia non scontata (generlamente definita Electro Pop), che sembra riportare alla luce il sound anni 90. Tuttavia, troviamo senza dubbio un fattore di attualizzazione che conferisce al disco in generale una chiara vena moderna, realizzata in gran parte dal massiccio utilizzo di musica strumentale e per la restante parte dai testi di “Gno”, che trasudano polemica anticonformista contemporanea in lotta con l’esigenza/imposizione di allacciarsi agli schemi quotidiani (una lotta agli status quo). Polemica che trova la sua massima realizzazione nella traccia numero tre “Cupido se ne Fotte”, in cui si mette alla luce la totale indifferenza del dio dell’amore ai lucchetti degli innamorati, alle tariffe della Vodafone ed ai multisala che fanno sconti ai giovani amanti. La suddetta polemica, tuttavia, non si realizza attraverso schemi infantili sterili e diretti, bensì attraverso continui giochi di parole, metafore e vocaboli ricercati, che portano inevitabilmente al paragone fra Galleria Margò e Baustelle. Altro inevitabile avvicinamento sorge inerentemente l’ultima traccia, intitolata “Distretto Nove”. Una traccia che tiene con il fiato sospeso; senza dubbio quella di maggiore contenuto artistico-poetico. Amori e pianeti, alieni e costellazioni, sound epici, continue similutidini, rime, riferimenti platonici, che riportano alla mente “La cura” di Franco Battiato. Ispirazione o casualità poetica? In sintesi, posso riassumere così: un disco saturo di satira e sorrisi in controluce, meritevole di un attento ascolto, assolutamente non banale, che, tuttavia, lascia straniti, quasi come se avessimo perso un qualche dettaglio importante per chiudere il puzzle ed incorniciarlo con il giusto parere.
Stanley Rubik – Lapubblicaquiete EP
Avete presente i Subsonica e i Velvet? Bene, fondete le due sonorità ed avrete gli Stanley Rubik, un misto di pop e sperimentazione elettronica che potrebbe sfondare e diventare un’alternativa alla decadenza dei pezzi che ultimamente girano all’interno delle più importanti radio italiane. La loro musica è cinematica, carica di tensioni, risolte o meno, tuttavia descritte con un’ironia latente e un sarcasmo tragicomico di fondo che richiamano lo stile registico di Kubrik: nei testi echeggiano spesso le ossessioni, le ansie e le speranze del tempo presente, tinteggiate con colori diversi e (quasi) sempre irrisolvibili come nel Cubo omonimo. Il progetto Stanley Rubik richiama a partire dal nome, le contraddizioni insite nella contemporaneità, sia a livello artistico che esistenziale.
Lapubblicaquiete è il primo EP ufficiale ed è stato realizzato in co-produzione con i sopra citati Velvet, quindi non c’è da stupirsi che le sonorità appaiono affini tra le due band. L’EP è composto da tre tracce, la prima “Abuso”, è caratterizzata da un beat di batteria elettronica semplice ma importante e da una voce condita da delay ed effetti radiofonici. L’abuso in questo caso non è sessuale, ma a volte diventa abuso di precarietà, un abuso da cui è difficile uscirne, un abuso che al posto di regalare indipendenza crea dipendenza.
La seconda traccia “Pornografia” da cui è stato estratto il singolo, esalta le capacità vocali del cantante Dario, che insieme al testo che apparentemente potrebbe sembrare una semplice storia d’amore, nasconde invece al suo interno una dualità ed una libertà di interpretazione molto più ampia. L’ultima traccia “Vademecum” – parola utilizzata in italiano per indicare un piccolo manuale tascabile che contenga informazioni utili e sintetiche – è forse la più interessante, variata e “multipolare”, oltre che la più lunga (quasi otto minuti sonori). La canzone parte con un intro di 1 minuto e mezzo, iniziando con un disturbante sintetizzatore che riproduce il rumore di una chiamata telefonica, per poi evolvere in una moderna sinfonia caotica ed infine esplodere insieme a tutti gli altri strumenti. Finito il caos inizia la quiete ed inizia il “manuale vocale”. Il testo, sempre contorto, metaforico e dalle mille sfaccettature – riscriverò il copione vecchio e tutto ridisegnerò, sorriderai e sentirai – è una vera e propria guida per riuscire a mantenere il “benessere”, quel benessere necessario per essere lucidi e riuscire a cambiare le cose, le cose intime, le cose pubbliche. Quel benessere necessario per cucire le ferite e tornare ad avere pace.