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RB.Novembre – Acriliche Addizioni Umane (Disco del Mese)

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Gabriele Squartecchia, in arte RB.Novembre, esordisce in un full length di incantevoli chiaroscuri con questo Acriliche Addizioni Umane: nove tracce che mescolano Elettronica dai toni Ambient e Pop impalpabile e sofisticato, utilizzando gli strumenti come pennellate leggere d’acquerello, in arrangiamenti sempre puntuali e ragionati, tra beat e batterie, chitarre elettriche e synth, pianoforti e archi.

Punti di forza del lavoro sono soprattutto la voce eterea e carezzevole di Gabriele, pronta a disegnare linee melodiche ipnotiche e appiccicose senza sembrare per questo eccessivamente ruffiana, e le piacevolissime fughe strumentali che si nascondono attorno ai brani, con quei tocchi di psichedelia atmosferica architettata con gusto e precisione (penso al finale di “Ironichetragiche”, alla coda di “Il Tempo lo Spazio le Visioni”, con un certo gusto orchestrale, o ai ritmi di “Se Poi pt.2”). C’è poi, nel complesso, un notevole gusto, quasi Prog, nella mescolanza di generi, negli arrangiamenti labirintici, nella rivoluzione delle strutture dei brani, che sono funzione dell’artista e della sua visione, e non il contrario, come spesso accade.
Acriliche Addizioni Umane è insomma un esordio curioso e stuzzicante, che pecca di qualche rara ingenuità vocale e di qualche lieve imperfezione sparsa che, ne sono certo, una produzione più attenta e più matura saprà correggere, regalandoci un secondo tempo ancora più entusiasmante.
Da ascoltare se siete degli inguaribili romantici alla ricerca di una colonna sonora per farvi un viaggio mentale di tre quarti d’ora e rotti, sognando.

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Mosè Santamaria – #RisorseUmane

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Con Mosè Santamaria bisogna stare attenti. Personaggio subito affascinante ma pericoloso, con questo alone mistico e quei riferimenti (Jodorowsky, Gurdjieff, ganja, mitologie, Bibbia) che basta poco per far crollare tutto nel pasticciaccio New Age. Nonostante le apparenze, in #RisorseUmane questo non succede. Il misticismo è una filigrana: i riferimenti culturali, esperienziali di Santamaria sono tra le righe, ma lui racconta altro, (anche) attraverso questi. Sono storie di un Pop focalizzato, intelligente, o di un Cantautorato alieno ma accessibile: amori perduti, infuocati o gentili, carnali, platonici o spirituali, raccontati con tratti vividi (“Mata Hari”), soffusi (“I Colori di Françoise”), intensi (“A Nizza”), oppure storie di paese (“I Love You Marzano”) o di città (“L’Altra Parte della Città” ), o ancora appunti e riflessioni sulla scoperta  di sé e del mondo, sull’evoluzione del proprio essere e di ciò che lo circonda (“Mine Vaganti”, “Come gli Dei”, “Passato Prossimo”). Santamaria racconta e si racconta con freschezza, con una leggerezza attenta, non troppo incline al caso, con accostamenti a volte sorprendenti che lo rendono interessante. Meno focalizzate le zone dove si ironizza (“Compromessi e Chiacchiere da Bar”, la più banalotta), ma nel complesso il tutto si regge sulle proprie gambe senza molta difficoltà. La musica segue il mondo delle canzoni, si adatta senza volersi etichettare in maniera troppo chiara, e quindi mescola strumenti acustici e virtuali in arrangiamenti mai casuali, alle volte veramente saporiti, stuzzicanti (“A Nizza”, per esempio), sempre in un’ottica Pop ma con una netta veste Elettronica, spesso uptempo, con ganci ad ogni angolo e in cui tutto (o quasi) rimane nelle orecchie e nella testa abbastanza in fretta. Pur se armonicamente abbastanza lineare, #RisorseUmane sa rendersi vario con guizzi e storture (di pianoforti, fiati, synth, cori…) che nobilitano e soddisfano. Detto questo, rimangono le ombre: in primis la voce, sforzata, imprecisa, un timbro posticcio, impostato, che si infila tra me e l’ascolto sereno di questo disco come uno scoglio praticamente insormontabile. E poi, poco distante, lo scarso senso melodico/metrico, che spesso fa intorcinare le frasi, le incaglia, le espande e le svuota, con effetti a volte pesanti sullo scorrere dei testi e in generale delle melodie. C’è insomma un personaggio molto interessante che sta facendo un percorso curioso, sincero e appassionato, con qualche difetto che non è chiaro se sia vezzo o limite: bisogna vedere come e quanto evolverà da questo, comunque buono, punto di partenza.

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Terzo Piano – Super Super

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Sonorità brillanti, piglio deciso e personalità sono la forza di questo Super Super dei Terzo Piano, band di Cava de’ Tirreni che giocherella incauta sul bordo tra la minchiata nonsense (il meta-testo di “H”, parte 1 e parte 2) e il capolavoro vorticante e cosmico dove si vola a occhi chiusi, liberi, senza farsi troppe domande (“Attratti Super”, che ha anche un video bellissimo). È bello sentire, nel marasma di band che tentano di piacere a tutti i costi, qualche raro esempio di sguardo che pare limpido, che sembra guardare dove vuole, sbattendosene di sembrare più o meno “hip”, più o meno fuori di testa. Ma mi trattengo ancora, perché nelle voci e nelle melodie così Pop eppure storte, nelle ritmiche minimali eppure trascinanti, nelle canzoni così vere che sembrano finte (o così finte che sembrano vere) c’è ancora una penombra di dubbio che non mi tolgo. Ci sono o ci fanno? Follia o calcolo? C’è chi direbbe che non importa, che l’opera è l’opera e da sé parla, e non ci sono contesti o contorni che tengano quando la si assume, quando ce la si inietta nel timpano. Sarà; io un po’ ci penso, ma nel frattempo mi riascolto Super Super e ci navigo un po’ dentro, poi vedremo. Nel peggiore dei casi sarà un guilty pleasure ad alto contenuto calorico. Nel migliore, una frangia del Pop di domani.

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Intervista a Mario Sp

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Mario D’Angelo, in arte Mario Sp, è un Dj producer di ultima generazione che, nei recenti mesi, sta provando a emergere nel panorama Deep Techno grazie anche a diverse collaborazioni con etichette di rilievo quali Klop Music, Bosom, Cubek Label e Klaphouse Records. Lo abbiamo incontrato per parlare del ruolo dell’Elettronica oggi e di quello che può esserne il suo futuro.

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Bonomo – Il Generale Inverno

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Bonomo, aka Giuseppe Bonomo, annata 1978 da Taranto, esordisce solista in queste dieci tracce di Pop Rock melodico, comodo ma competente, raccontando di tutte le cose che, nella vita, ci bloccano, ci rallentano, ci contrastano, simboleggiate dalla suggestione che dà titolo al disco: Il Generale Inverno. Bonomo mette nell’album tutta l’esperienza accumulata negli anni. Ha studiato, e si sente; ha suonato, e molto (vanta collaborazioni con, tra gli altri, Alberto Fortis, Filippo Graziani, Matrioska) e d’altronde anche in questo frangente si occupa di praticamente tutti gli strumenti – esclusa la batteria – e gli arrangiamenti, oltre a comporre tutti i brani del disco. I pezzi sono tutti molto orecchiabili e con una freschezza che arriva diretta all’ascoltatore senza eccessive complicazioni, anche grazie ai testi, che, se pure difettano in ricerca e stile, portano una leggerezza Pop che, date le coordinate del disco, può solo giovare alla sua fruibilità. Si sente l’amore per la musica d’oltremanica e d’oltreoceano (gli echi californiani de “La Visione”, o i riff Funk di “DNA”) e per il Pop elettronico (“Insonnia”), si sente la forza con cui si cerca di – e si riesce a – rendere ogni brano un potenziale singolo, anche perché Bonomo non sembra fare troppa fatica nel giostrarsi tra mood pure molto diversi, regalando al disco una varietà invidiabile: tra l’energia de “La Mia Rabbia”, pezzo alla Bluvertigo, e la dolcezza sospesa de “I Pesci Non lo Sanno” c’è un abisso, così come tra il Pop da radio primi 2000 di “Otto Ore al Giorno” e di “Araba Fenice” e la freddezza in 6/8 de “L’Ultimo Valzer”. Il Generale Inverno è, sostanzialmente, un disco di solido Pop Rock senza eccessive profondità ma che lascia un piacevole sapore in bocca, anche se magari senza rimanere sul palato molto a lungo. Le fondamenta per costruire qualcosa di più personale e inconfondibile ci sono tutte. Aspettiamo il seguito.

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florestano – noh

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Elettronica strumentale delle più convolute, noh del producer e polistrumentista florestano è un accartocciarsi e uno stratificarsi magmatico e ribollente. Layer di synth, rumori, beat e voci infestanti e inquietanti si ripiegano su loro stessi e gli uni sugli altri, a creare una pasta sonora di una fantasmagoria crepuscolare. Una spirale rotante e ipnotica che afferra l’immaginazione, suadente ma allo stesso tempo preoccupante, come una stanza spoglia o un sogno poco illuminato.
I pilastri del lavoro sono la cura per le ritmiche e l’attenzione nella ricerca del suono, ma anche il gusto per certe melodie spiritiche che s’affacciano qua e là (“Grizzled”, “Broken MP3”). Otto tracce d’elettronica poco tersicorea ma parecchio psiconautica.

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Syne – Croma

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I Syne (o Syne  E∆Ǝ ) sono di Milano e rischiano grosso. Rischiano tempi dispari, testi concisi, sguardi jazzaggianti e suoni a metà tra l’Elettronica e la tradizione italiana del Progressive Rock, che ascoltando quello che è stato prodotto negli ultimi anni pare si stia del tutto perdendo. Croma è il loro primo LP e suona forte, personale, ambizioso, robotico e spaziale. Insomma come nient’altro che io abbia ascoltato negli ultimi dieci anni. L’inizio di “Verdemente” (per altro accompagnato da un video azzeccatissimo) è scattoso come un vecchio videogioco nella sua sala dismessa, ha un perfetto incastro ritmico dove la voce e le liriche di Marcello fanno breccia nel nostro cervello. Il brano presenta uno spesso involucro roccioso che contiene un dolce liquido caldo, mieloso. Scavando si trova quella melodia che pareva perduta. In Croma c’è ampio spazio per ballate interstellari come “Sono Rosso” che ricorda molto il suono vellutato dei compianti Deasonika. “Cercami” è più testarda e spigolosa e si avvicina di più al Prog e alle inquietanti cavalcate dei Bluvertigo, i cori finali si incastrano tra loro sottolineando una produzione sopraffina. Il tema dei colori torna con “Nera” e l’idea del concept album si fa più completa. “Nera” è cupa, si muove sinuosa in un paesaggio futuristico, decadente, i suoi cinque minuti pare non finiscano mai in un vortice di suoni e parole che accendono nuova luce nel panorama musicale italiano. Le similitudini si sprecano, le canzoni sono così complete che potremmo citare insieme PFM e Muse, Elio e Le Storie Tese e Hawkwind. Sia ben chiaro che questa musica rimane fuori dal tempo e non è sicuramente accessibile a tutti. A trarre in inganno il dolce intro di tastiere in “B.L.U”, subito sballata da un tempo storto e dall’eco che avvolge parole visionarie (per altro metà in inglese e metà in italiano) fuse tra loro, come se si assistesse ad un discorso tra due astronauti dispersi nell’etere. La tensione è sempre viva e palpabile, il senso di instabilità ci tiene appiccicati fino alla fine del disco. Anche la bomba Elettronica “Witches” ha  il suo maledetto perché nel suono di un cyborg che martoria la sua chitarra super effettata. Mentre “Aerie” rimanda agli anni 80 e ad un mood vicino ai Depeche Mode, il finale dedicato ad un altro colore “Yellow” pare essere la previsione di quello che sarà il Punk Hardcore del prossimo secolo. Grida lontane, batteria martellante e synth ossessivo. Potrebbe scadere tutto in un facile pastone confusionario, ma i Syne sono bravissimi ad ammorbidire tutti gli spigoli, ammortizzando gli urti. La botta in testa alla fine manca fisicamente, ma il cervello esce annebbiato, affaticato e piacevolmente sotto sopra.  Questo disco è fatto di materia grigia e di tanto sudore, tutto unito a un’enorme voglia di futuro e di novità.

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The Soft Moon – Deeper

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Decidere di fare i conti con i propri demoni non è mai un lavoro facile; se poi scegli di passare questo tempo di pura introspezione tra la nebbia dei canali di una Venezia spettrale e misteriosa, fra anonime maschere e freddi stucchi è probabile che la tua anima nera e buia si amplifichi e si dilati tanto da farti cadere lentamente in un percorso buio e tortuoso di esplorazione e solitudine. Questo viaggio, espressione di una profonda interrogazione di sé, lo racconta The Soft Moon aka Luis Vasquez nel suo terzo album Deeper. Un disco introspettivo, nero, claustrofobico, che eredita molto dai precedenti lavori, ma che al tempo stesso fa un enorme balzo in avanti in termini di sperimentazione e innovazione. Post Punk ed Elettronica continuano a essere l’humus di base, al quale però si aggiungono brani che contengono vere e proprie melodie e un cantato d’ispirazione Pop. La Dark Wave, gli anni 80, i Depeche Mode, i Kraftwerk, i Nine Inch Nails, il Kraut Rock, Minimal Man e l’Industrial e qualcosa dei Tear For Fears non sono altro che fili nelle mani di un esperto burattinaio, che con maestria confeziona undici tracce intese, catartiche, ansiogene, a tratti rabbiose, spesso sospese e rarefatte. L’atmosfera generale è dark, opprimente, seriale, il ritmo è uno degli elementi decisivi, cuore e veicolo di tutti i brani, martellante e sincopato in “Black”, modulato, esotico e primordiale nelle percussioni di “Deeper”, elettronico, ricco di bassi e danzereccio in “Feel”. Il tutto è sapientemente condito da synth distorti, incursioni martellanti di ronzii e sirene, suoni robotici, voci effettate, echi e riverberi. Tra gli undici brani le tracce più sperimentali sono “Try” dal sapore vagamente decadente e distante,  “Without” dove per la prima volta il piano e la melodia sono protagonisti e “Wasting”, che riesce a trasmettere il senso di solitudine e distacco di una base strumentale con un cantato delicato. Il gran finale, la risalita dopo la caduta, è affidato a “Being”, che ci lascia con un’ineluttabile verità e un nastro, che nel suo continuo riavvolgersi, ripete in maniera ossessiva “I can se my face”. Luis Vasquez ha realizzato un album inteso e coinvolgente, estremamente autobiografico e per questo maledettamente vero.

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Bad Love Experience – Believe Nothing

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Questo è il Pop che mi piace: complesso ma non complicato, leggero ma con una sua densità. I Bad Love Experience volano alti nei venti minuti e qualcosa che compongono il loro ultimo Believe Nothing. Lingua inglese, sapore internazionale, atmosfera retrò, miscele di Art Rock e Art Pop con innesti Elettronici e sfumature Prog, un parco sonoro che dire vario è sminuire (“Inner Animal”), un gusto per la melodia che si accompagna all’idiosincrasia verso le strutture tradizionali della canzone (“Below as Above” e quel riff…). Gli anni Settanta visti dallo spazio o qualcosa del genere.

C’è poco altro da dire, perché il progetto fila e il disco è godibilissimo. A fine ascolto l’unica cosa che personalmente mi manca è quel qualcosa in più, chiamatelo “sguardo”, “identità”, “voce”, un qualcosa di personale che mi faccia innamorare irrazionalmente di loro, qualcosa che fra un anno mi obblighi a recuperarli e a immergermi di nuovo nei loro abissi luccicanti e vellutati. Ma voi non datevene cruccio e fate un tuffo, poi chissà.

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Recensioni | agosto 2015

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Ben Miller Band – AWSOF (Country, 2014) 8/10

Un secondo album spettacolare per il trio Ben Miller, Doug Dicharry, Scott Leeper che unisce in dodici tracce dal sapore Country tutta la propria esperienza e classe, miscelando Bluegrass, Americana e Southern Rock in un sound estremamente tradizionale ma che riesce a non emanare mai lo sgradevole odore di anacronismo.

Gab de la Vega – Never Look Back (Cantautorato, Punk, 2015) 7,5/10

Il cantautore Punk Folk bresciano Gab de la Vega torna e stupisce tutti con dieci nuovi pezzi e un’interpretazione di “Never Talking to YouAgain”, un grande classico degli Hüsker Dü. Un po’ ricorda quanto fatto recentemente da Tv Smith, ma c’è anche tanto di Bob Dylan e Neil Young. Da non lasciarselo sfuggire!

Stearica – Fertile (Post Rock, Math Rock, 2015) 7,5/10

Essere scaraventati al muro dalla potenza del suono non è cosa che succede troppo spesso. Gli Stearica ci riescono, in versione digitale quanto in versione live, a botta di drumming energici, bassi e chitarre distorti.

Lydia Lunch/Retrovirus – Urge to Kill (No Wave, Post Punk, 2015) 7/10

Lydia Lunch scrive il capitolo del progetto Retrovirus, riunendo sul palco Weasel Walter alla chitarra, Tim Dahl al basso e Bob Bert (Sonic Youth) alla batteria. Nove tracce per ripercorrere la carriera della “big sexy noise queen” e una ciliegina sulla torta: la cover di “Frankie Teardrop” dei Suicide.

OoopopoiooO – OoopopoiooO (Sperimentale, Ambient, 2015) 7/10

Due maestri del theremin creano un nome impronunciabile, sintomo di un universo distorto, onirico, pazzoide. Quella pazzia sana, che fa andare oltre le spesse barriere del Pop e mischia strumenti, giocattoli, elettronica, parole e voci che sembrano arrivare dalle zone più nascoste del nostro cervello. Tredici brani che sembrano difficili al primo ascolto ma che alla fine ci sembreranno vicini alle orecchie come ronzii di insetti.

All About Kane – Seasons (Pop Rock, 2015) 7/10

Gli All About Kane alla loro seconda prova discografica intitolata Seasons, confermano l’ottimo esordio con Citizens e aggiungono alla loro dna british un pizzico di sperimentazione che si spinge verso il Pop e l’Alternative. Seasons è un interessante insieme di melodie leggere e mood movimentati; canzoni come “Old Photograph” e “Hurricane” si fanno amare fin da subito per piacevolezza e orecchiabilità. Nonostante spesso la voce del cantante ci ricordi molto Brian Molko dei Placebo, gli All About Kane riescono a mantenere viva la propria identità per tutto l’album, offrendo all’ascoltatore qualcosa di interessante e ben realizzato. Anche se uscito da qualche mese lo consigliamo per tutti i viaggiatori estivi che hanno voglia di una sferzata di aria fresca.

My Own Prison – Sleepers (Hard Core, 2015) 7/10

Cagliaritani, i My Own Prison, dimostrano con questo loro lavoro di conoscere decisamente bene l’hard core e di possedere tutta la tecnica per poterlo personalizzare. Tutto il disco è fondato sull’infuenza grind e su un cantato growl che muove su ritmi serratissimi di basso e batteria (al limite dell’agilità), che non si concedono tregua neppure in “Sleepers Eve”, caratterizzata da un timbro chitarristico dal sapore Indie-Pop, o nella più intima “Temper Tantrum”. Dieci tracce per un full lenght davvero pieno di energia, decisamente per gli appassionati del genere.

Solkiry – Sad Boys Club (Post Rock, 2015) 6,5/10

A due anni di distanza dall’album d’esordio, torna il quartetto australiano con il suo dinamico Rock strumentale di chiarissima ispirazione mogwaiana. Un disco potente e variegato, che riesce a cullare tutto lo spettro di emozioni che si accavallano nei sogni ad occhi aperti e che ha l’unico difetto di mostrarsi troppo incapace di osare davvero, risultando troppo banale e ripetitivo nella scelta pura dei suoni.

A Minute to Insanity – Velvet (Grunge, Stoner, 2014) 6,5/10

Il Grunge non è morto. Gli A Minute to Insanity da Cosenza lo dimostrano con orgoglio in questo ep. La chitarra e la voce “consumata” di Francesco Clarizio, insieme al basso di Antonio Trotta e alla batteria di Francesco Lavorato, ti riportano lì, in quegli anni Novanta che non sono ancora messi in archivio del tutto.

Attribution – Whynot (Rock’n’Roll, 2015) 6,5/10

Potente e autorevole questo Whynot dei bergamaschi Attribution, album che mescola un’attitudine classicamente Rock and Roll ad una commistione di generi che invece di risultare indigesta esalta le qualità di ogni singolo componente (prezioso l’uso dei fiati). Da ascoltare soprattutto il divertente Funk di “Scofunk” e la bella rivisitazione di “Cold Turkey” di John Lennon.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Ep (Stoner, Noise, Hard Rock, 2013) 6,5/10

Un vero e proprio calderone: fondete Stoner, Noise e Hard Rock e otterrete la giusta ricetta sonora; un sound che appartiene più all’America che all’Italia e forse in questo la lingua non aiuta molto (sarebbe stato più giusto cantare in inglese!). Nonostante ciò un lavoro maturo negli arrangiamenti e perfetto nella registrazione

Snow in Damascus – Dylar (Elettronica, Shoegaze) 6/10

Atmosfere cupe e sonorità che spaziano tra Elettronica e Shoegaze, per un disco d’esordio che nel complesso suona come un buon lavoro di tecnica, ma che non colpisce per la sua originalità.

Moira Diesel Orchestra – Moira Diesel Orchestra (Alternative, Post Grunge, 2014) 6/10

Orfani degli anni Novanta, i MDO ricercano costantemente sonorità a metà tra il Seattle sound e dei seminali Litfiba. Tra qualche errore di gioventù e troppi eccessi di imitazione emergono alcuni momenti interessanti come “Nostema di Posizionamento Globale” o “Ardore” che per qualche minuto cancellano i molti reminder. Rimandati.

The Moon Train Stop – EP (Rock, Alt Pop) 6/10

Echi sixties per il trio piemontese all’esordio. Un Pop alternativo luccicante, divertito, ritmato, senza eccessiva originalità ma competente. Quattro brani suonati bene, cantati così così. L’inglese non rende benissimo. Non lasciano (ancora) il segno.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Di Blatta in Blatta (Stoner, Noise, Hard Rock, 2015) 5,5/10

Quando si incide un disco che ha il grave compito di succedere a quello d’esordio si pretende qualcosa di più; purtroppo in questo lavoro si mette in evidenza solo la bravura. Mancano i contenuti e le idee nuove. Un piccolo passo indietro quindi è stato fatto nonostante il gruppo si sia aperto ad un lato più “oscuro”.

Night Gaunt – Night Gaunt (Doom Metal, 2015) 5,5/10

I romani Night Gaunt fanno loro l’essenza dei Candlemass unendola alle cupe atmosfere dei Katatonia e alle accelerazioni di puro stampo Celtic Frost. Si resta sempre nell’ambito del Doom Metal, fedeli a un registro prestampato. Senza infamia né lode.

Marco Spiezia – Life in Flip-Flops (Cantautorato, Swing 2015) 5/10

Semplicità ed immediatezza sono le caratteristiche principali di questo disco che non fa ascoltare nulla di nuovo ma che diverte. Canzoni (quasi) sempre veloci ma dai ritmi abbastanza simili. Forse il cantautore sorrentino Marco Spiezia dovrebbe (e potrebbe) osare di più.

The Junction – Hardcore Summer Hits (Indie, Pop Punk) 5/10

Per i tre padovani, il secondo album è una nuova prova con pretese ridotte al minimo sindacale. Pezzi tirati quando basta per provare a non annoiare, qualche buona melodia, un inglese che si tradisce spesso e tantissime banalità, in una miscela di cliché Indie Rock e qualche incursione nei territori del Punk Rock (Pop meglio) da bermuda, occhiali da sole e infradito.

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Meta.Lag – Juxtapositions

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Giuliano Fasoli si presenta con un disco che vuole essere “strutturalista”, che comunichi, quindi, essenzialmente attraverso la propria struttura, essa stessa mezzo espressivo. Juxtapositions è, infatti, una riflessione sullo stato stesso della musica (Rock, paradossalmente; vedremo perché) attraverso, appunto, la giustapposizione di tematiche costanti, che gradualmente riempiono il vuoto al centro della struttura. Il risultato sono queste sette tracce di Elettronica minimale e ambientale (ecco il perché del “paradossalmente”) dove drum machine  e synth morbidi si mischiano a voci eteree e droni leggeri, dove ritmiche spezzate si fondono con echi di chitarre lontane, in un pastiche artificioso e soffuso che ha momenti di convincente facilità (il riff infestante di “Kingdom”) e altri di approssimazione meno interessante (in generale le voci, o per esempio l’andamento più farraginoso di “Wormplace”).

Un disco insomma la cui messa in opera, seppure per nulla malvagia, non trascende. Un plauso invece per il concept che sottende il tutto: ogni brano infatti si lega ad un artista e a un tema, in un movimento ancorato al fulcro centrale che rappresenta il vuoto. I primi tre brani rappresentano “gioia”, “amore” e “vita” e sono legati alle figure di Elvis, dei Beatles (in particolare Lennon) e di Jimi Hendrix; poi, nel brano centrale, il movimento si ferma: siamo al centro dell’opera, “Dot”, il vuoto. Si prosegue discendendo, con simmetria: i temi si capovolgono e abbiamo, in ordine, “morte”, “odio” e “dolore”, rispettivamente Cobain, i Sex Pistols e Jeff Buckley. Devo dire che è un concept che sulla carta incuriosisce, salvo poi tendere a perdersi nei fatti, a rimanere ideale, distante dall’ascoltatore e forse anche dai brani stessi.

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Hey Saturday Sun – VHS

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È un bene che io abbia ascoltato VHS di Hey Saturday Sun in una notte afosa d’estate. È un bene che io lo abbia ascoltato anche a ridosso delle ferie. Perché questo disco si porta dietro delle sensazioni di freddo e ghiaccio, nate sicuramente dalla presenza di suoni elettronici, meccatronici e robotici (“Pulsetrain”) che riportano alla mente la freddezza delle macchine, oltre ad evocare talvolta anche una certa inquietudine  (“Supercops”, “Analog6”). Quando questi suoni meccanici si attenuano, il disco riesce a svelare anche delle sonorità più calde (“Service”), senza però mai perdere le caratteristiche elettroniche e synth-pop che lo contraddistinguono.
VHS rispecchia pienamente la linea artistica del suo artefice (Giulio Ronconi alias Hey Saturday Sun, appunto), già autore di musiche di spettacoli teatrali e documentari. E proprio il titolo riporta alla mente questa predisposizione alla capacità di produrre immagini, nella propria testa o su uno schermo vero e proprio, quello schermo che forse in passato era collegato proprio ad un videoregistratore per videocassette VHS. Il riferimento agli anni ’80 dell’intero lavoro è dunque chiaro e netto, e non solo per i  suoni elettronici che a volte si rifanno addirittura ai  videogame protagonisti della nostra infanzia, ma anche per quelle caratteristiche dance che il disco acquista soprattutto nella sua seconda parte (“Vhs Heroes”.)
Il film che evoca questa videocassetta sonora che porta il titolo di VHS affonda le radici in sonorità appartenenti al passato senza per questo risultare irrimediabilmente nostalgico o privo di originalità. Un film che forse nelle sue undici tracce si sofferma un po’ troppo sulle stesse tematiche, ma che nel complesso risulta essere piacevole all’ascolto e alla visione.

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