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Ottovolante – Re di Quadri in Trip

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A tre anni di distanza da La Battaglia delle Mille Lepri, i molisani Ottovolante si ripropongono con una formazione diversa, un’etichetta che crede profondamente in loro (la Diavoletto Netlabel) e soprattutto un nuovo disco: Re di Quadri in Trip, registrato interamente al Red Sound Studio di Petacciato (CB). Il singolo “R.i.p. Nichilismo” ci indirizza attraverso un caleidoscopio nero pece fatto di suoni elettronici e New Wave anni 80. Non risulta particolarmente assimilabile per chi non mastica bene questa mistura. La solenne “Sul Fronte di Guerra” ha un’articolazione che è un autentico passaggio tra generi che non hanno nulla l’uno con l’altro: una sorta di battaglia galattica tra il Rock, la Techno dei The Prodigy e i film western di Sergio Leone. L’Ispettore Bloch Va in Pensione” (chiaro omaggio al fumetto cult Dylan Dog) e “Edimburgo 31/12” sono le facce identiche di una medaglia diversa, rappresentano il principio e la fine di una festa, nata inizialmente come un rave party e chiusa come una funzione religiosa. Inizia a mancarmi l’aria mentre porgo l’orecchio a “Disagio del non Oltre”, claustrofobica e nebulosa fino al midollo. Apro la finestra e da fuori entra “Storie di Nessuno (Me Compreso)”, ma non capisco se provenga dallo stereo dell’auto di uno sbruffone maleducato o dal giradischi di un cultore della musica d’autore. Confuso, sono troppo disattento per apprezzare “Geometria dell’Incontra tra Due Cerchi”, che scambio per il proseguo del brano che l’aveva preceduto. Re di Quadri in Trip ha tante idee, poche verità e un’accentuata mancanza di compattezza. Nei tempi passati non gli resterebbe che abdicare, atteso alla forca dalla folla impazzita. L’ispettore Bloch chiederebbe un antiemetico a gran voce, Dylan Dog la sua Bodeo 1889. In entrambi i casi non sono affatto presagi positivi.

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Maria Antonietta – Maria Antonietta Loves Chewingum

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Nuovo, breve EP per Letizia Cesarini, in cui la cantante pesarese, insieme ai Chewingum, già al suo fianco durante il tour autunnale elettro-acustico “Tra me e Tutte le Cose”, rimette mano ad una manciata di brani del suo ultimo disco Sassi e si lancia in una cover Synth Pop (alquanto piacevole) di “Fotoromanza” della Nannini. Maria Antonietta polarizza, la ami o la odi, così si dice. Io che in musica sono abbastanza moderato (che brutta parola) invece preferisco, al manicheismo dell’evitare come peste e dell’abbracciare come vitelli d’oro, il girarci intorno del curioso al museo: attento, ma col distacco di quell’ultimo metro che lascia lo sguardo libero di osservare le cose nella loro interezza. E insomma a me Maria Antonietta a volte piace nella sua libertà così sincera (o nella sua sincerità così libera), altre volte mi pare infettata da quello scazzo indie che dopo un po’ stufa. Tutto questo per dire che Maria Antonietta Loves Chewingum si porta dietro questa doppiezza; le canzoni sono sempre canzoni di Maria Antonietta, solo sporcate di ritmiche elettroniche, suoni frizzanti, suggestioni giocattolo. I Chewingum pure mi piacciono abbastanza (ludici, simpatici, si fanno apprezzare nei loro divertissement anarcoidi – date un’orecchia a Nilo: cazzeggio senza fine, ma con una certa arguzia). Qui appunto continuano il loro errare irrispettoso e sorridente (“Tra Me e Tutte le Cose” sulla base di “Clint Eastwood” dei Gorillaz…) che rivoluziona in qualche misura l’apparenza più superficiale dei brani ma non sposta eccessivamente il baricentro: rivisita con sguardo diverso (e un po’ strabico) canzoni che, comunque, già funzionavano nel loro disco d’origine. (“Giardino Comunale”, per dire, a me piaceva più prima – ma è questione di gusti). Maria Antonietta Loves Chewingum è un’aggiunta non fondamentale alla discografia della Cesarini: se ne siete ghiotti godetevela che il materiale c’è, altrimenti passate oltre.

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Cravagoide – Empty Frame

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Empty Frame dei Cravagoide, duo di Elettronica strumentale da Brescia, parte dall’artwork per suggestionarci e lanciarci nello spazio vuoto di un abbacinante quadro bianco, che sale oltre le montagne come un sole o comunque un’apparizione, da accettare così com’è, senza troppe spiegazioni. E così sono i dieci brani che compongono il disco:  Elettronica suadente, rilassata, con ritmiche sommesse e soffuse, che avvolge come luce. È musica albeggiante, emotiva ma soffocata, che intrattiene sullo sfondo, che non distrae e non colpisce duro: accarezza. Pregio e difetto di un disco che non stupisce ma forse incanta, che non inventa ma suggerisce. Ci si perde dentro Empty Frame, come in un labirinto fresco, un giardino celeste. Ma quando ne si esce si è esattamente come prima.

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Back To Mercurio – Umani Front

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I Back to Mercurio sono Marco Mirk e Roberto Dossi, questi due musicisti romani come un infuocato asteroide si sono staccati dal pianeta Aldrin, per gli amici mercurio, per ritornare sulla terra, con una nuova veste musicale e un nuovo EP Umani Front. Quattro brani che mettono subito in chiaro il netto distacco con tutto l’immaginario di suoni e melodie legati al Post Rock degli Aldrin, e più in generale a quelle atmosfere dilatale e cosmiche, caratterizzati delle lunghe cavalcate strumentali alla God Is an Astronaut. Ora ci troviamo sulla terra, ferma, consistente e devastata dalla caduta di un asteroide, in preda e scenari post apocalittici e pseudo cibernetici. Un netto cambiamento di scenario che trasuda dai pezzi proposti, composti di suoni cupi, densi, pesanti, con una predilezione alla ripetizione al limite dell’ossessivo. Gli strumenti messi in gioco per creare questi pattern sonori sono principalmente batteria, chitarra, sintetizzatori e drum machine. L’inizio dell’EP è affidato a “Not Okmin”, nove minuti abbondanti di stratificazioni progressive di suoni che si ripetono in un continuum, che partono da una chitarra per perdersi in una deriva di synth opprimenti e fredde distorsioni. Unico momento di distrazione è l’incursione di una voce femminile, una breve pausa prima di ributtarsi in un tunnel profondo, rosso, e senza fine. Seguono “Tougue” e “ Metalserbatoi” e se la prima riesce a concedere qualche sguardo verso il cielo, la seconda, attraverso combinazioni di suoni digitali e drum machine, qui più forti che negli altri brani, ci butta in uno scenario cibernetico, fatto di schermi rotti e macchine che ripetono all’infinito la stessa sequenza di movimenti fino alla fusione dei circuiti. Chiude l’EP “The Smallest Machine” (Is Mine), che rallenta e allarga il tempo senza rinunciare, però, alle atmosfere ansiogene e ossessive, un piccolo incubo che termina questo percorso nell’oscurità. “Umani Front” è un progetto impegnativo, interessante, ma difficile da valutare sotto il profilo della godibilità e della gradevolezza. Il duo ha certamente ereditato dalle precedenti esperienze un approccio esplorativo alla composizione, anche se in questo frangente la ricerca così specializzata, fa emergere, per sua stessa natura, un risultato che tendo al ripetersi, con pochi veri guizzi e aperture. Un ascolto per i curiosi e per i più tenaci e amanti del genere.

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iFasti – Palestre

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C’è un bellissimo spirito dietro a questo Palestre de iFasti, ex Seminole. Un disco che, nelle loro intenzioni, è esercizio mentale e allenamento al pensiero critico, in una scaletta che riprende brani già editi e li ripropone ri-arrangiati e ri-registrati per l’occasione, insieme a canzoni nuove. Anche le coordinate sonore sono interessanti: un’Elettronica Cantautorale molto ritmica con qua e là momenti più ariosi che ricorda, a volte anche troppo, gli Offlaga Disco Pax (“Gracidi”, “Mercy”). Ciò che li ferma è la resa che spesso non decolla, soprattutto per la parte vocale, che non riesce a ingranare (di Max Collini ce n’è uno). I brani, se sulla carta vivono di uno spirito battagliero e “dalla parte giusta”, nell’aria si perdono in qualche banalità di troppo e non riescono a crearsi un’identità veramente personale e interessante. Un disco non da buttare che racconta storie anche curiose e con uno sguardo con cui viene facile simpatizzare, ma che purtroppo non riesce a rimanerci nella memoria e nel cuore quanto dovrebbe.

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Kiasmos – N/A

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Non una parola. Ma un cielo di suoni. A volte nuvoloso, a volte minaccioso di neve, a volte completamente annebbiato da non farsi vedere. Un’infinità di sfumature di grigio insomma (nessuna citazione letteraria!) e qualche sprazzo di timido sole del Nord, giusto ad intiepidire la pelle, seccata da un freddo costante ma più vitale del calore. Già, cosa potevamo pretendere da un progetto definito “Elettronico sperimentale” portato alla luce da due islandesi (per la cronaca Olafur Arnalds e Janus Rasmussen, quest’ultimo leader dei Bloodgroup)? In questo caso la geografia è la perfetta cornice delle vibrazioni sonore, si perché di vere e proprie canzoni non si può parlare. Gli otto episodi del progetto Kiasmos sembrano ad un primo ascolto essere un divertente esercizio di stile, dove la tecnologia incontra il classico, le diavolerie dei suoni computerizzati abbracciano violini e pianoforte. Sarebbe in questo caso tutto fine a se stesso, facile da ballare ma anche da piazzare in un lounge bar per un aperitivo con tanto alcol e poche tartine. In verità scopriamo presto che non è molto difficile andare oltre a tutto ciò.
Le tracce sono intitolate con una e una sola parola, ad indicare che li dietro ci sta il mondo dei suoni. La marcia di “Lit” è granitica ma intima, con le bacchette di legno che sembrano suonare direttamente sull’hard disk di un pc. La fusione tra i due mondi è poi completata da un intreccio d’archi da grande opera classica. I brani sono tutti attaccati, senza pause, come una lunga odissea di emozioni, tutte caratterizzate da un freddo polare, che non blocca però lo scorrere del nostro sangue, turbato come le onde di questo oceano. In “Held” un orecchio Pop (come il mio dopotutto) si sarebbe aspettato un bel canto, la voce soave di Bjork che esce dalle acque quasi come una sirena. Ma nulla di tutto questo accade e le note di piano soddisfano comunque qualsiasi richiesta. “Looped” e “Swayed” sono più ritmate, pronte alla dancehall, loop insistenti e sfumature sempre diverse, sempre vellutate e soffici, quasi ad introdurre una fitta nevicata. Lo xilofono colora l’eterna cavalcata di “Thrown”, le acque sono in tensione, quasi ad indicarci aria di tempesta, scampata all’arrivo dei violini sul finale. Forte e massiccia è invece “Bent”, quasi a creare un contrasto, ma tutto si placa poi in “Burnt”. Ultimo gioiello di dieci minuti in cui ogni dettaglio già osservato ritrova il suo spazio, quasi come un riassunto di tutto il viaggio sonoro fatto in compagnia del duo. L’odissea è finita e la miriade di suoni ci ha regalato le sue parole. Che sono molto più profonde di quelle trovate in innumerevoli dischi Pop.

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Dr. Irdi – Radio

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Dopo l’EP d’esordio ironicamente titolato 2 tornano col full lenght i Dr. Irdi, e no, non si chiama 1. Radio (questo il titolo) è composto da dieci pezzi elettronici che si dipanano tra synth e campioni, voci distanti e citazioni, giocosità combinatoria ed emotività trascinante. L’ho ascoltato in stato di semi-incoscienza, prima e dopo il sonno, e mi ha regalato sguardi su mondi lontani, dalle oscillazioni di “Trapano” alle scalinate a spirale di sintetizzatori e tastiere in “Temporale”, dal Pop sbilenco e altalenante di “Airone” (meticciato di scuola Blur) allo spazio aperto dell’Ambient meditativo in “Euridice”. Potrei anche andare avanti, tra gli scratch Electro Funk di “George Clinton”, il pianoforte saltellante e caleidoscopico di “Weltschmerz” o la sporcizia distorta di “Scimmia”… ok, l’ho fatto, scusate. Quello che volevo dire è che il punto di forza del lavoro è certo il suo saper essere eclettico, e trascinarti per mano intorno al globo, sotto i mari, nello spazio e dentro la tua testa, senza mai fermarsi. Si fa ancora fatica a sentire un’identità precisa nei Dr. Irdi, ma ora è chiaro che questa sia una loro caratteristica peculiare, l’altra faccia della medaglia della libertà di poter andare ovunque, essere chiunque. Radio scivola via tranquillo, dieci pezzi per trentanove minuti, un ottimo condensato di Elettronica casereccia e Pop nel senso più alto del termine, psichico quanto basta per non essere musica da ascensore ma comodo abbastanza per goderselo senza intellettualismi. Unico neo l’utilizzo della voce, nel timbro, nella ritmica, nella cadenza. Tendeva a riportarmi coi piedi per terra, mentre volavo alto nella mia testa e mi sembrava di essere chissà dove. Tutto sommato un disco da riascoltare più volte, per scavarci dentro.

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Ash Code – Oblivion

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Immaginate di camminare in una strada di periferia, una di quelle buie illuminata quel poco che basta da un paio di lampioni e dall’insegna neon di quell’unico bar presente, la meta perfetta per una notte in solitudine tra whiskey e sigarette. Una strada ai piedi di enormi grattacieli equiparabili solo a giganti di pietra, il tutto avvolto da una fitta nebbia. Questo è grossomodo lo scenario che si crea ascoltando Oblivion, il nuovo disco degli Ash Code. La band napoletana propone un sound che miscela il Dark con l’Elettronica; per essere chiari immaginate i Joy Division con un sound Elettronico, otterrete la coraggiosa proposta degli Ash Code. Nel disco c’è la cupezza e l’angoscia di quei gruppi Dark che hanno segnato la New Wave degli anni 70 e 80, il tutto amalgamato con dei synths e degli effetti che tanto piacciono ai Ministry. Oblivion è un disco di un certo livello che mette in evidenza la torbida indole degli Ash Code. La bellezza del disco sta nella sua capacità di coinvolgimento, insomma, ti trascina lievemente in oscure atmosfere. La voce di Alessandro è simile a quella di Ian Curtis, ha la stessa tonalità bassa e oscura. Claudia invece è un portento con i suoi synths, è colei che effettivamente crea la magia intorno alle canzoni. Infine c’è Adriano capace di mantenere ritmi eccezionali. In Oblivion ogni traccia ha una sua particolarità, anche se, personalmente, ritengo che la migliore di tutte sia “Waves With No Shore” con la sua melodia sinistra che ti fa decisamente viaggiare con la mente. La successiva “Dry Your Eyes” mette bene a fuoco il connubio tra Joy Division e Ministry: lo stile dei primi con l’elettronica dei secondi. “Crucified” ed “Empty Room” sono due tracce che danno la possibilità di ballare e muoversi a tempo. La titletrack ha un particolare suono in cui i synth e gli effetti ricordano tanto una di quelle musichette di quei videogiochi del Megadrive o dello Snes; se qualcuno ha giocato ai primi Splatterhouse si renderà conto delle interessanti similitudini. Passiamo direttamente a “Drama”, un altro pezzo da novanta in cui il grosso del lavoro viene svolto dalla talentuosa Claudia: la sua calda voce è accompagnata da plasticose e cupe melodie. La chiusura del disco spetta all’angosciante “North Bahnohf”: tetri synth ed oscuri effetti si accostano ai bassi toni di Alessandro. Con Oblivion parliamo di un album di alta classe che suscita un miscuglio di emozioni; è suonato bene e gli Ash Code sanno il fatto loro. Appena ho ascoltato questo lavoro sono subito rimasto rapito da quel particolare sound costruito su effetti e melodie che, in un modo o nell’ altro, ti riportano a pensieri di ogni tipo. E’ un disco da ascoltare assolutamente.

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Phantom Love – Crave For Lust

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Phantom Love è il nuovo volto di Valentina Fanigiulio, una degli migliori espressioni dell’avanguardia musicale. Un’artista che collochi difficilmente in un’area geografica. Crave for Lust, il suo ultimo lavoro, raccoglie tre tracce di grande suggestioni. Niente parole, ma molti suoni, che pescano da più tradizioni insieme: Elettronica, Shoegaze, New Wave, Psichedelia e Kraut. Pezzi ipnotici che ti proiettano, come minimo, in qualcuno dei migliori locali che puoi aver frequentato finché il tuo fisico ha saputo sopportare ore di trance e luci colorate. Sì, probabilmente per apprezzare fino in fondo questo lavoro devi essere un appassionato. Sì, forse non è un disco che ascolti in perfetta scioltezza, ma in queste tre tracce c’è la sintesi di una frontiera musicale che continua a sperimentare, incrociando digitale e analogico senza timore. Phantom Love, oppure Mushy, oppure ancora Valentina, così si legge nella sua presentazione, ha tra i suoi “fari”, Kenny Carpenter,  Michael Mann e la scena elettronica underground che va da Detroit a Roma. Che possa avere tutte le carte in regola per avvicinarsi ai suoi artisti di riferimento lo conferma il fatto che abbia creduto in lei la newyorkese ZeroKilled Music. Va bene, non metterei questo Ep nello stereo dell’auto per farlo girare a ripetizione, ma il lavoro di Phantom Love è tutt’altro che da scartare.

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Donamorte – Gemini

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Ero curioso di ascoltare questo nuovo disco dei Donamorte; gli spezzoni in giro per la rete e le pubblicità promozionali avevano suscitato in me un certo interesse, anzi, parecchio interesse. Purtroppo però non tutto ciò che luccica è oro, e di questo si potrebbe parlare per ore. Inizialmente mi aspettavo un travolgente lavoro di Gothic ed Elettronica insieme ma non è stato cosi; con questo Gemini, sembra di ascoltare un ennesimo e stancante album pseudo Industrial (tedesco) suonato da una band italiana. Questa “fatica” risulta monotona e poco ispirata, c’è poca personalità e a lungo andare l’ascolto diventa alquanto indigesto. Diversi brani si somigliano tra loro e, come se non bastasse, non c’è traccia di motivetti orecchiabili che, nel bene o nel male, facciano la differenza. Manca qualcosa da stamparsi nella mente. Vero, il disco gode di un’ottima produzione e di un’eccellente lavorazione, (vedere, anzi ascoltare, registrazioni e missaggi) ma è comunque troppo poco per un album ambizioso in cerca di fama. Le tracce dalla resa migliore sono l’opener (che è anche la titletrack), la successiva “Cant’ You Feel” (presente anche nel loro EP precedente) e “I Want to Escape”. Guardando al di fuori di queste poche canzoni Gemini non ha più molto da offrire, a dirla tutta è un grande peccato perchè i Donamorte hanno enormi potenzialità; mi riferisco all’assemblaggio del concept in termini di registrazione e rifiniture del sound. Con qualche accorgimento in più il gruppo avrebbe potuto creare un disco degno di nota ed invece Gemini lascia solo un po’ di amaro in bocca. Attendiamo la loro prossima uscita e incrociamo le dita.

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Niagara – Don’t Take It Personally

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Se dovessi immaginare il secondo album dei Niagara come una creatura mitologica, sarebbe l’unione fantascientifica di essere vivente e macchina, un bio-computer di silicio e carbonio, nervi cellulari e codici binari, un centauro di metallo e carne, di corteccia lignea ed elettricità. Il duo di producer torinesi torna con Don’t Take It Personally, dieci brani che rappresentano il desiderio umano di sfruttare la tecnologia e, insieme, la lotta per rendere tale tecnologia più in sintonia con la natura. Questo meticciato d’idee è palpabile fin dalla prima traccia (“John Barrett”): i Niagara ci circondano di synth liquidi e frizzanti, ritmiche elettroniche che incedono uptempo e voci che oscillano tra il sussurro e la declamazione, ossessive ed ipnotiche (“Vanilla Cola”). Lo squarcio tra passato e futuro dei Niagara è suadente, rapisce la mente e le membra e vola lontano, nel tempo e nello spazio, tra echi orientali (“Curry Box”), glitch magici che diventano litanie desertiche immerse in arpeggiatori graffianti (“China Eclipse”), chitarre a sorpresa con finali beatlesiani (“Laes”) o echi di età elettroniche che vengono stratificate come ere geologiche, in un incedere che ricorda l’emersione del primo anfibio, in un incessante zoppicare mentre gli spuntano le zampe (“Speak & Tell”). Un disco di suggestioni, squisitamente elettronico ma con un’anima sperimentale, di ricerca leggera e Pop, aperta e pronta a tutto ma di facile presa, in cui le evoluzioni a spirale non si chiudono in cerchi autoreferenziali ma si aprono anche all’ascolto più occasionale, alla piacevolezza più immediata. Meno folli di un Flying Lotus ma con simile eleganza. Un disco da cui farsi cullare, da leggere alla profondità desiderata: tra divertimento animale ed elucubrazione sintetica.

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Calista Divine – Vacante

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Desiderio grande di sentirsi sopra il tetto del mondo, magari imparando ad ammettere i propri sbagli, magari sentendosi liberi di correre nudi per strada. Tanto freddo, la pelle è secca, le piaghe non danno tregua, la sofferenza aumenta a dismisura. Tutta un’altra dimensione quella proiettata dai Calista Divine, il loro primo full length Vacante suona talmente violento da restare inerti, il modo migliore di suonare Post Rock nel 2014. La produzione di Cristiano Santini, mixato da Giulio Ragno Favero de Il Teatro degli Orrori, masterizzato da Jo Ferliga degli Aucan, uscirà il prossimo Ottobre sotto etichetta F.O.H. Records. Il sound pulitissimo e meticoloso entra rapido nelle orecchie per poi uscirne, poi ancora dentro e poi di nuovo fuori per una sequenza infinita di avvenimenti. “Ma ci sono pensieri che non riesce a trattenere, ci sono pensieri che lo fanno sentire come se andasse a tutta velocità in un tunnel, in equilibrio sopra un’asse di legno che corre su due rotaie” (Massimo Volume, “Alessandro”). Elettronica miscelata ad una ritmica impaziente, sempre tirata, un gancio sotto il mento, qualcuno inizia a sentire forte il fiato sul collo. Poi in tutti i pezzi esplode la bomba. Iniziate a trattenere il fiato all’inizio di “Astray”, qualcosa nella vostra vita potrebbe cambiare per sempre, niente tornerà più come prima, il sole è sceso per sempre. Sperimentazione sonora degna del miglior Amaury Cambuzat, un’esagerazione “sperimentale” riportata in forma canzone, l’opposto che si potrebbe percepire ascoltando Bologna Violenta per intenderci. E di queste produzioni bisognerebbe andare fieri, sono tanti i motivi che potrei elencare per elogiare Vacante, i Calista Divine sono italiani e per questo sbatterei il disco sul muso dei critichini troppo atteggiati a catalogare l’alternativo italiano nei soliti venti gruppi. Un cuore pulsante di creatività è pronto per sfornare lavori di questo livello, sette brani completi sotto ogni punto di vista, mi sento di citare “Be Lost”, ma tutti gli altri hanno diritto di fare parte di questo straordinario album. Sarebbe bello riuscisse ad entrare tranquillamente in tutte le orecchie, sarebbe una questione di educazione musicale, sarebbe una vera e propria rivoluzione culturale. Vacante rappresenta alla grande lo stato di salute della musica italiana, innovazione, tecnica e razionalità. Lasciamo che i chitarrini tornino a suonare sulla spiaggia, noi abbiamo bisogno di tornare ad alzare la testa, i Calista Divine sono un motivo in più per sentirci fieri di ascoltare musica italiana. Non potevano esordire in maniera migliore.

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