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Deckard – Noble Gases (Disco del Mese)

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Il produttore Beppe Massara, in arte Deckard, fa seguire al suo Bit Bullets  del 2010 questo Noble Gases, sei tracce ispirate ai gas nobili, elementi costituiti da atomi con gusci elettronici completi. Deckard si ispira a questa caratteristica, che li rende inerti e strutturalmente stabili, per costruire panorami elettronici scarni e rapidi, dall’andamento fluente, ispirandosi ai suoni europei classici degli anni 80 e 90, in una nuova ricerca sonora che vede nella semplicità stilistica il suo cardine, la sua chiave di volta. Noble Gases miscela synth frizzanti e percussioni elettroniche frenetiche, in un tuffo nel passato che rimane gustoso grazie al minimalismo e alla semplicità della ricetta, nonostante il senso, incombente, di dejà vu. Deckard mescola all’inumano di sample e elettronica sparsa anche elementi acustici quali il wurlitzer di Alberto Fiori, il violoncello di Francesco Guerri e la voce di Carolina Pinto, che portano l’umano nei layer sovrapposti di strumenti virtuali, glitch e synth. Un disco scuro, di cupezza granitica e tenebroso brillio raro. Ma allo stesso tempo un disco suadente e notturno, rarefatto, vorticante. Noble Gases ci dona sei tracce di introspezione chimico-elettronica, di psicanalisi alchemico-musicale, con un piede sulla Terra e l’altro negli abissi. La testa, alta, trattiene il respiro, fuori dall’atmosfera.

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LPR8 – Piece of Kiss

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Proprio quando sei divorato dal dubbio che le tue capacità di giudizio critico si stiano ammorbidendo a livelli preoccupanti, col timore che potresti metterti tranquillamente a sdoganare un Cristiano Malgioglio, ti capita di ascoltare qualcosa che a velocità supersonica ti rifionda nella dura realtà. Un Ep sbagliato in tutto e non parlo solo di brutture musicali, gusti soggettivi (e come sennò?), apertura mentale, stato d’animo del momento. Tanto per capirci, quell’apparente acronimo LPR8, nome scelto dal produttore Marco Connelli per il suo progetto, non ha quel fascino elettronico che potreste aspettarvi da una fredda sigla. Basta leggere il sottotitolo, Il Leprotto. Proprio cosi, è questo il vero nome dell’artista (perdonatemi l’uso di tale sostantivo in questa circostanza) autore di Piece of Kiss. Non finisce qui, tuttavia. L’orrido prosegue con la visione delle grafiche e dei font di copertina, tanto brutti che quasi m’impediscono di rilevare la pessima scelta anche di titoli di Ep e brani. Prima di passare a descrivervi/non descrivervi la musica/non musica non posso che soffermarmi un secondo sul discorso featuring. Dio santissimo, ma è veramente necessario infilare feat ovunque per provare a rubare fan in mondi altrimenti inaccessibili? Veramente è una cosa utile? Tre pezzi, tre collaborazioni (Boom Girl, voce dei Sick Tamburo in “Kiss”, Don Turbolento in “Run or Die” e Pink Holy Days in “I Wanna Be the Best”) che faccio fatica a comprendere veramente, anche se lo scopo di inserire quelle voci dovrebbe essere di aumentare la portata melodica dei brani e la sua accessibilità.

I tre brani che compongono l’Ep sono un mix ripetitivo, apparentemente potente (ma in realtà soprattutto noioso e snervante) di suoni elettronici di stampo Tech-House e Break Beat, sulle quali le voci dei vari ospiti si appoggiano in maniera credibile ma non efficace. La strada battuta dai Prodigy è molto lontana da quella intrapresa da LPR8, piena di cliché, insulsaggini e totalmente priva di appeal, quantomeno se ad ascoltare è qualcuno che riesca ad andare oltre le capacità di coinvolgimento di suoni bassi e poderosi tipici del genere. Non ha senso spingersi oltre, non vi ho detto molto, scusatemi ma ho veramente altre cose da far girare nello stereo. Magari tornerò su questa roba quando, questa estate, mi ritroverò a ballare come un idiota in qualche pessima discoteca del litorale. Anche se sono troppo vecchio per iniziare a ballare.

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In.Visible – HaveYouEverBeen?

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Un progetto solista dall’esito Elettro Pop che nasce da ispirazioni Rock di spessore. In.Visible è lo pseudonimo di Andrea Morsero, già attivo nella scena underground italiana come batterista e DJ.
Il primo singolo estratto espone in maniera abbastanza completa ciò che bisogna aspettarsi da HaveYouEverBeen?. “Leather” è un tuffo di testa nell’elettronica ritmata degli anni 80, che comporta in sé l’alto rischio di essere un tuffo nel vuoto se nel frattempo sono trascorsi tre decenni e soprattutto se non si è Dave Gahan. L’ispirazione che Morsero trae dalla faccia più danzereccia dei Depeche Mode è palese, oserei dire un po’ sfacciata, a cui lui sembra però avere poco da aggiungere.

Ritmato sì, ma non abbastanza euforico da far scuotere le membra. Il fulcro attorno a cui far ruotare il resto sembra essere riservato alla voce, dal timbro ammiccante ma spesso ostentato e prevedibilmente effettato: le prime tracce scorrono via su tappeti sintetici su cui questa si sdraia comoda insieme alle seconde voci, in un susseguirsi di brani che nonostante alternino ritmi più serrati a ballad elettriche in una miscela gradevole fanno però fatica a trovare un angolino di memoria e di cuore in cui depositarsi. L’invadenza del cantato mi appare ormai indiscutibile quando mi sorprendo a godermi la strumentale “Stagen”. Sul finire del disco spunta invece fuori un ben più interessante lato New Wave del progetto, che scorre fluido grazie ad una sezione ritmica più marcata e le tonalità che scendono e si fanno un po’ da parte (“The Second Way”), oppure mostra una tendenza Romantic che evoca gli Ultravox, ma senza scendere nella mera citazione (“Feel”). È solo sull’ultima traccia che mi sembra di scoprire la naturale vocazione del timbro vocale di Morsero, sul più classico dei Rock melodici con crescendo di archi finale. In.Visible sembra più un saggio di tutte le facce che il progetto potrebbe assumere piuttosto che il risultato della scelta di una forma compiuta di espressione. Un background di tutto rispetto che senza qualche tocco reinterpretativo più audace rischia però di appiattirsi in un Pop senza molte vie d’uscita.

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MasCara – LUPI

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La prima cosa da dire di questo LUPI by MasCara sono belle parole relativamente all’artwork. Pulito, classy, semplice ed efficacissimo. Sorvoliamo giusto su qualche errore nella composizione interna, dove i testi di alcuni pezzi vengono scambiati di posto, e dove un paio di refusi disturbano la lettura delle liriche. Passiamo poi alle liriche, o meglio, per l’appunto, alla lettura delle stesse. C’è un gusto narrativo palpabile nelle dodici tracce del disco: la storia scorre fluida, e già dai titoli le visioni urbane quasi oniriche (“Macchine da Guerra”, “Cattedrali al Neon”, “Graffiti”, “Barricate”, “Gocce di Benzina”) si mischiano a tonalità più primitive e leggendarie (“Dei per Sempre”, “Isaac” – che echeggia vibrazioni bibliche -, “Falsa Età dell’Oro”, “Riti Ancestrali”), dandoci l’idea di un’epica distopica dalle sfumature varie e dai sapori intensi. All’ascolto i MasCara sorprendono per la fluidità e lo spessore della pasta sonora (aiutati al mix anche da un nome di punta quale Tommaso Colliva): chitarre, synth, bassi e batterie si fondono in soundscape estremamente riusciti ed affascinanti. Si rischia giusto qua e là un effetto già sentito (qualcosa alla Coldplay, qualcosa alla Ministri, per citare giusto le apparenze più facilmente intercettabili), ma è il rischio di andarsi ad infilare in questo tipo di proposta musicale.

La pecca maggiore di LUPI, a parer mio, sta però nella voce, e non tanto nel timbro o nelle capacità vocali di Lucantonio Fusaro, ma nella metrica, sghemba e scalena, claudicante. I testi vengono snocciolati sui brani in modi spesso storti, disequilibrati, qualche (rara) volta con risultati imbarazzanti, più spesso semplicemente facendo apparire i testi disorganici rispetto alle musiche, ai ritmi, alle fasi del pezzo. Questo non toglie certo al disco i suoi meriti, ma ne penalizza l’ascolto – o almeno così è accaduto al sottoscritto. Concludendo, LUPI è un disco maturo, di una band interessante, narrativamente e musicalmente. Per raggiungere le vette mi sento di consigliare una personalizzazione maggiore della proposta sonora e una cura dei testi che riesca a coniugare linea melodica e cuore pulsante delle canzoni senza affossare né l’una né l’altro. Ascolto consigliato in attesa di prove future, si spera più decisive.

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Lo Stato Sociale – L’Italia Peggiore

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Tornano quei fenomeni, nel bene e nel male, de Lo Stato Sociale, e lo fanno con L’Italia Peggiore, secondo disco che prosegue il discorso del precedente Turisti Della Democrazia. Verbosi, danzerecci, di un’allegria folle che ricorda il discorso di Vasco Brondi sulle “feste senza senso” in cui “ballare sotto le bombe”: tutto è in macerie, tanto vale pompare il volume e cantare con una voce sola, sentirsi finalmente insieme ad alzare le mani e batterle, forte. Mentirei se dicessi che le canzoni de L’Italia Peggiore sono brutte canzoni (a parte qualche faux pas in cui si toccano le profondità di una piscina per bimbi, tipo elenchi alla Jovanotti – “C’Eravamo Tanto Sbagliati” – oppure quando si cerca la simpatia a tutti i costi in situazioni di cui ormai abbiamo la nausea“Instant Classic”). I testi sono ironici e brillanti, e quando non eccedono in paraculaggine si fanno ascoltare con un mezzo sorriso complice. Certo, c’è sempre quella sensazione sotterranea e strisciante di fregatura, ma ci torniamo dopo.

Musicalmente, Lo Stato Sociale fa esattamente ciò che si pone come obbiettivo: farti ballare e sorridere. L’uno-due con i testi (tu balla, ridi, ogni tanto ti tocco la spalla, serissimo, per ricordarti che vivi in un Paese di merda in mezzo a gente di merda, poi scoppio a ridere anch’io e tu continui a ballare senza capire se ti sto coglionando o meno) è ciò che distingue Lo Stato Sociale da altri act simili: un loop trasformista tra serietà acida e follia demenziale (esemplare “”Questo è un Grande Paese”, che è più cabaret radiofonico che canzone). Da questo punto di vista, il disco è riuscitissimo, e sono certo che sarà un successo, trascinerà torme di fan ai concerti, pronti a scatenarsi nel delirio quasi tamarro di questi cazzoni col cuore dal lato giusto. Però. Però c’è qualcosa, lì dentro, che non mi convince più di tanto. C’è qualcosa che puzza, che serpeggia tra le righe dei quattordici pezzi di questo disco variopinto. È una sensazione di incompiutezza, di pressapochismo. I sostenitori dei bolognesi la chiameranno Lo-Fi, scelta artistica, stile. A me sembra scazzo, una terribile parvenza di ruvidezza generale. Il fatto che magari sia voluta non so se migliori o peggiori la situazione. L’effetto che mi fanno le canzoni de Lo Stato Sociale è quello degli animatori nei villaggi vacanze. Ti devono caricare, energizzare, devono per forza farti sorridere, partecipare. Si attaccano ai luoghi comuni, li sfruttano, per poi farti credere che è ironia, e magari lo è davvero, ma dopo due o tre giri di giostra, come si fa a distinguere il cliché dal commento sarcastico al cliché? Si divertono a cazzeggiare senza remore, però in fondo si percepisce un orgoglio da gruppo impegnato che a quel punto un po’ stona.

Forse non si può fare tutto, o forse è la mia piccola testa limitata che, ad oscillare così ampiamente tra un estremo e l’altro, si sente nauseata e incerta sul da farsi. Senza parlare della resa sonora che, qua e là, tocca livelli pessimi (pensate a come sono prese certe voci, o considerate che, in “C’Eravamo Tanto Sbagliati”, c’è una chiarissima interferenza da cellulare, minuto 0:33 – per dire). Sono queste sensazioni, per così dire, “scomode”, a non farmi godere il divertimento e l’acutezza che certamente Lo Stato Sociale sa così efficacemente trasmettere. Ma voi non fatevi problemi: L’Italia Peggiore fotografa, forse meglio di molto altro, lo spirito (anche musicale) di questi tempi. Voi ballate e divertitevi, e cercate di perdonarmi se non faccio salti di gioia…

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Connect_Icut – Small Town By the Sea

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Small Town By the Sea non è uno di quei dischi che puoi esporre nel loro insieme, come un’entità unica, a sé stante, integra; necessita, senza possibilità di alternative, il seguire una precisa linea che porti dalla prima traccia fino all’ultima nota, duemila cinquecento sessantaquattro secondi dopo. Andiamo però per gradi. Solo qualche mese fa, sul finire dell’anno passato, vi avevo raccontato chi fosse quest’oscuro produttore di musica elettronica di Vancouver e vi avevo suggerito appassionatamente l’ascolto del suo Crows & Kittiwakes & Come Again. Ora, con Small Town By the Sea, c’è da fare un bel passo avanti, perché, se per certi versi sono allentate le tensioni date da quelle che io stesso ho definito deformità tecniche del suono talvolta esasperate in chiave rumoristica, Connect_Icut riesce anche a prendere fedelmente la strada buona che lasciavo scorgere alla fine della mia recensione. Un disco perfetto per iniziare ad ascoltare musica elettronica di qualità senza il timore di dover abbandonare per manifesta incapacità di ascolto, cosi chiudevo e da quella frase riparte il canadese, avendo ora appianato il suono, senza banalizzarlo e avendo creato un’opera che può definirsi tanto temeraria almeno quanto più abbordabile rispetto al passato. Ora sono i beat che divengono la solida base dei brani i quali altresì si contorcono in una serie di vortici di elettronica psichedelia.

Ancora una volta, però, non posso che mettervi in guardia perché se è vero che, rispetto al passato, ancor più facile è che vi piaccia un disco come questo pur non essendo voi appassionati di musica Elettronica Sperimentale, non aspettatevi niente che possa dirsi accessibile a un ampio pubblico, in senso assoluto.

Già l’introduzione (“Bird Internet”) ci trasporta senza perdere troppo tempo in un’irrealtà fredda e inquietante, fatta di battute e campionamenti ai limiti del surrealismo, con una certa ossessione nelle ritmiche e poche variazioni sul tema. Diversificazioni che sono anticipate da suoni naturali (come un cinguettio) che s’insinuano nelle gelide note iniziali. Sul finire del pezzo, una massa multiforme, amorfa e sonica sembra aggregarsi e pulsare attorno a quella stessa eterea natura, fino a liquefarsi nella parte finale, dopo oltre otto minuti. Nella successiva “Tennis Player” torna ancora più muscoloso il tema criticamente onirico; sullo sfondo i suoni naturali si mescolano a dialoghi, pianti di bimbi, e la musica pare essere parte di un mondo parallelo. È introdotta la voce femminile che prende la strada di una melodia Soul intensa e appassionante pur nella sua disarmante purezza. Forse il momento più Pop (difficile usare questo termine per il disco) è tutto qui, in questa melodia incantevole, ma ben presto si torna sulle già battute strade del Glitch (“Bathroom Mirror (Smash Patriarchy)”) con momenti di eccezionale dualismo tra ritmiche poderose e potenti e l’impalpabilità del resto. L’acqua scorre fino a “74 Guitars”, quando note di chitarra e passi pesanti sulle assi malmesse si confondono, creando momenti di terrificante serenità prima di esplodere in frizzanti e luminose note elettriche. Nell’ultima parte di Small Town By the Sea si accentua il nervosismo acustico che quasi sembra destinato a sfociare in un Trip Hop e la voce femminile pare accennare una melodia Soul/Funk, propria dell’House Music, sempre però strozzata nell’inquietudine e nella voluta cacofonia del canadese, che abbandona il brano incompiuto, come a calcare il concetto dell’impossibilità di completare una vera metamorfosi verso una nuova realtà. “Cat Town” chiude il viaggio psicotico ma anche distensivo con ritmiche bassissime e sciolte, lasciando aperte porte sensoriali che sembrano spalancate dopo un ascolto a volume sostenuto, con le cuffie ben ancorate alle tempie.

Connec_Icut comincia a fare sul serio e presto non sarà più un oscuro produttore di musica elettronica di Vancouver, su questo sono pronto a mettere una mano sul fuoco. Voi non fatevi trovare impreparati.

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Evacalls – Seasons

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Piove sempre, sembra non esserci più nessuna soluzione. Scariche elettriche cadono dal cielo plumbeo, l’elettronica degli Evacalls contraddistingue positivamente l’esordio discografico Seasons. Un sound proveniente dagli anni 80 ma visibilmente riadattato alle moderne concezioni di suono, campionamenti rincorsi dalle chitarre e sinth in continua evoluzione. Diventa tutto molto chiaro già dal primo pezzo “The Second Winter of the Year”, un titolo premonitore di quello che stiamo vivendo in questo particolare cambiamento climatico. La voce prende gran parte della scena, a volte sembra somigliare a quella di Paul Banks, ma è soltanto una questione di sensazioni, soprattutto causate dalle aperture delle canzoni come nel caso di “Give me a Reason”.

Gli Evacalls provano a personalizzare un genere strasuonato, un genere maltrattato negli ultimi anni, un sistema di fare musica diverso dai soliti preconfezionati pacchetti commerciali. Seasons suona otto tracce completamente diverse tra loro, ogni canzone contraddistingue una volontà d’espressione, il cuore salta in gola durante l’ascolto di “No Silneces”, apertura alla Joy Division. Poi tanta emozionalità e la voce riesce ad intraprendere uno stile decisamente Post Punk. Basso energico e sinuoso nella più sensuale “Two Lines”, le chitarre suonano alla Rem primo periodo, il risultato è piacevole ma forse troppo semplice e già suonato. E’ il rischio da correre quando si rielabora musica “datata”, si rischia di assomigliare troppo a qualcun altro, si rischia di lavorare invano senza ricevere gloria. Preferisco di gran lunga la parte elettronica Post Punk degli Evacalls, in quella circostanza riescono a dare il meglio della loro produzione, riescono a creare delle ottime canzoni evitano banali sgambetti. Infatti, in “Mondey” ritrovano la loro dimensione, riescono a riprendersi la fetta d’orgoglio che gli appartiene. Il resto è composto bene ma non regala neanche una piccola briciola di soddisfazione. Seasons è un disco che potrebbe piacere a tutti, gli Evacalls non sono una band capace di creare tendenza, sono capaci di svariare in tanti generi e quindi abbracciare varie tipologie di pubblico. Ho provato delle belle sensazioni soprattutto nella parte iniziale del lavoro, alcune cose mi sono piaciute parecchio e altre meno ma nel complesso Seasons merita di essere apprezzato. Gli Evacalls hanno tutto il tempo necessario per dimostrare di aver messo apposto le idee e di crearsi una propria identità musicale.

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TYING TIFFANY, ecco il video di “A Lone Boy”

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Nuovo video estratto dall’album Drop (Trisol/Audioglobe)  uscito lo scorso Febbraio per Tying Tiffany. Il brano si chiama “A Lone Boy”, inoltre l’artista sarà in concerto il prossimo 23 Maggio al Plastic di Milano. Buona visione.

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Moongoose – Irrational Mechanics

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Il mondo dei Moongoose non è certamente razionale, la sensazione è quella di trovarsi perduto all’interno di forme geometriche tridimensionali. Poi queste forme iniziano a riempirsi d’acqua, il respiro si strozza in gola, tanto buio, Trip Hop anni novanta. Il primo disco ufficiale del trio Moongoose si chiama Irrational Mechanics e segna una svolta importante per le ambizioni di una band emergente alla conquista del grande pubblico. Le sonorità sono raffinate, non potrebbero essere altrimenti, la voce di Dea Mango lascia tensione a chi ascolta, dolce e tenebrosa nello stesso tempo. I brani viaggiano lenti con improvvisi battiti elettronici, l’opener “Closed Field” raggiunge subito la massima espressione del Bristol Sound, riff Dub rallentati con rabbuiate circostanze Soul. Potrei parlare dei Massive Attack ma rilegandoci all’attuale scena Trip Hop italiana citerei senza ombra di dubbio i Sixty Drops. La title track “Irrational Mechanics” rende quasi opportuno un abbandono della mente, molto coinvolgente la batteria, la voce ancora una volta riesce a fare la differenza. Non apprezzo il basso, sembra venire fuori da un altro contesto. Un continuo scivolare verso suoni glitch, la band stessa definisce questo concept nel seguente modo: “Le meccaniche irrazionali minacciano ogni certezza, rafforzano ogni debolezza. La realtà è armoniosa, la contingenza è caotica”. Tutto viaggia secondo una retta linea, non trovo quasi mai colpi di scena improvvisi e questo rende il mio ascolto attento e uniforme, non fatico mai e assorbo il tutto con desiderato piacere.

Cambiamenti improvvisi di tempo vengono percepiti in “Fomenta” ma il risultato non sembra essere gradito dalla mia attenzione che fino a quel momento si spostava sopra ben altre sonorità. Adoro la parte ipnotica del Trip Hop e la sua versione originale, riuscire a modernizzarla è una cosa molto difficile e soprattutto rischiosa. I Moongoose registrano un disco difficile, cercano di buttarci dentro eroicamente il (quasi)moderno concetto di Indie Rock, la loro prova non delude affatto e meritano interesse. Per ascoltare Irrational Mechanics bisogna essere dotati di grande concentrazione e spirito propositivo, a noi questo tipo di scommesse piacciono molto. I Moongoose fanno parte di quella schiera di band che non possono che fare bene alla musica considerato, anche, il valore di una cantante emozionale come Dea Mango. Una puntata sopra cui sarebbe opportuno alzare la posta.

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Time Zero – Silenzio/Assenso

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Sulle ceneri calde e al grido di battaglia “post fata resurgo”, i The Banditi rinascono sotto il nome di Time Zero con una rinnovata line up e un nuovo album Silenzio/Assenso. La band romana ha affrontato un cambio importante di formazione che ha coinvolto voce e batteria e portato alla realizzazione di un album innovativo, che disegna una nuova rotta musicale dalla forte impronta elettronica. Messe nel cassetto le sonorità balcaniche, del precedente lavoro, le otto tracce di cui è composto Silenzio/Assenso ci catapultano in un mondo fatto da synth, sequencer e drum machine, nel quale s’innestano decisi elementi Rock alla Nine Inch Nails. Le liriche asciutte e taglienti, a volte feroci, contribuiscono a creare atmosfere dark e dare un mood sfacciato a tutto il disco. Un Songwriting ragionato che li avvicina ai nostrani Subsonica nell’attenzione verso le parole, con uno sguardo improntato al contenuto e alle immagini evocate da un lato, e al suono e al suo impatto sul risultato complessivo dei brani dall’altro. Nella mezz’ora abbondante di ascolto il quartetto romano ci regala molti pezzi interessanti che propongono inusuali soluzioni Elettrorock. Prima fra tutte, “Soluzione” è l’assoluta hit dell’album, ritmica, travolgente, parte in sordina per poi esplodere in un riff contagioso, che non ti scrolli più di dosso. “Cane”al contrario è la più sporca, nervosa e cattiva, e insieme a “Prurito” sono i due brani in cui l’attitudine Rock del gruppo prende il sopravento sull’elettronica, grazie ad una massiccia dose di chitarra distorta. “Satellite” e “Cellula” mantengono alto il ritmo sintetico e il livello di ballabilità, ma con risultato meno aggressivo e nevrotico. Chiude bottega “Varietà”, che in scarsi tre minuti riassume tutto lo spirito dei Time Zero spettinadoci con un attacco al fulmicotone, per poi lasciarci con un mix elettro prog, ritmicamente rallentato. Silenzio/Assenso rappresenta un’ottima prova musicale, originale, anche se non priva di alcune incertezze o scivoloni in alcuni brani causati da suoni datati, un po’ troppo 90ties.  La scelta vincente è l’utilizzo della voce non distorta ed effettata, il timbro graffiante e metropolitano di Nicola Pressi crea e mantiene la giusta tensione che regge il gioco tra base elettronica ed elementi rock. Speriamo che questa rinascita possa rappresentare per i Time Zero una nuovo punto zero da cui costruire il proprio futuro.

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Stri – Atom

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Purtroppo alcune volte ti capitano fra le mani lavori come questo che appaiono troppo statici nella struttura dei pezzi, che non aggiungono nulla rispetto a quanto ascoltato già in passato e viene quindi voglia di fermarsi un attimo e riflettere sulla condizione della musica elettronica odierna. Se l’obiettivo è quello di far ballare il proprio pubblico, allora rimpiango i tempi di Donna Summer e della mitica “I Feel Love” in cui il nostro Giorgio Moroder dava il meglio di sé a livello compositivo. Se lo scopo invece appare differente, come nella quinta traccia del disco, “Pigiama”, che è quanto di più riflessivo ed introspettivo possiate trovare, allora il discorso potrebbe far alzare positivamente l’asticella dell’interesse . Troppo poco tuttavia, per far pensare a un prodotto originale nei suoni e nelle atmosfere, che spesso non è nient’altro che un insolito mix di voci e strumenti sempre in bilico fra il Post Rock e la musica elettronica degli Apollo 440 (quelli di “Ain’t Talking Bout Dub” per capirsi) con variazioni dei bpm che passano da un minimo di 90 a un massimo di 133.

L’autoproduzione è una scelta consigliatissima a quasi tutti ma sarebbe giusto che questo duo trovi qualcuno che li affiancasse perché forse questo progetto qualche idea buona la riserva, soprattutto verso la fine con “Estelle” e “Opa”, due brani che, inseriti in un altro contesto, non passerebbero mai inosservati. La scena marchigiana attuale presenta diversi talenti che varrebbe la pena vedere dal vivo e forse un’occasione la meriterebbero pure gli Stri, di cui si dice un gran bene in giro. Se però avete solo intenzione di sentire un disco nuovo, conviene stare alla larga da questo lavoro ed orientarsi altrove, magari ripescando la precedente uscita discografica del gruppo, Canyon, che ottenne un ottimo riscontro dalla critica. Atom appare come una serie di tentativi (la maggior parte mancati) di emulare ora i Chemical Brothers ora i Radiohead dell’ultimo periodo. In entrambi i casi, ahimè, il fallimento è dietro l’angolo.

Tutto da rifare?

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Is Tropical a Parma il 25 aprile!

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Il trio londinese aveva sorpreso tutti con il loro Native To, uscito due anni fa per Kitsunè, e che li aveva portati a suonare in tutti gli angoli del globo, trascinato da singoli come “The Greeks” (e lo spettacolare video by Megaforce) e “South Pacific”. Ora, dopo un EP e aver messo mano a tanti remix e produzioni, i tre scapestrati di Londra tornano in Italia con il seguito di quell’album d’esordio, dal titolo I’m Leaving. Potrete sentire gli Is Tropical a Parma, al Pulp, il prossimo 25 aprile.

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