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D.In.Ge.Cc.O. – Y.S.I.L.F.U.

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L’esordio di Gianluca D’Ingecco, in arte D.In.Ge.Cc.O., titola Y.S.I.L.F.U. (sta per “your spirit is looking for u”) ed è una raccolta di brani elettronici strumentali dalla durata media di sei/sette minuti. In otto tracce di atmosfera vintage, tra sintetizzatori pastosi, beat retrofuturistici, arpeggiatori frizzanti, D.In.Ge.Cc.O. ci dona il biglietto per un viaggio in un mondo tutto suo, di un’Elettronica giocattolo di riff scomposti e soundscapes ruvidi. Lo sguardo di D.In.Ge.Cc.O., che in questo disco riflette sue più ampie filosofie (“D’Ingecco si propone di far luce su tutte le sensazioni che nascono da tutte le esperienze umane, sia quelle terrene, ovvero quelle legate ad un mondo crudo, minimale e molto violento ma reale, sia quelle riferibili ad un mondo immaginario surreale, a volte rappresentante esperienze al di là del tempo e dello spazio”), pare comunque volto al passato, per quanto riguarda sonorità e scelte stilistiche, con alterne fortune: in alcuni episodi sembra fuori dal tempo, piacevolmente, in un tentativo di catturare l’ascoltatore nella trappola di armonie rotonde e suoni slabbrati, spigolosi, con una punta di fastidio che è come grattarsi un prurito, un soddisfacente disagio; in altri, pare un rigurgito di tempi che furono e non sono più, sommersi da ormai brevissime e rapidissime ere elettroniche che hanno portato con loro altri gusti, suoni, paesaggi. Ma ricordiamoci che nulla si crea e nulla si distrugge, e che la ciclicità è la vera legge delle cose che non esistono, come l’anima e la musica.

Quindi largo a D.In.Ge.Cc.O. e al suo affascinante enigma: in bilico tra passato e futuro, il disco scorre, si lascia ascoltare, un piacevole panorama che sfreccia fuori fuoco oltre il finestrino di un treno veloce il giusto. Y.S.I.L.F.U. non apre nessuna porta prima chiusa, ma ci mostra un vecchio corridoio in cui non mettevamo più piede da un po’, ed è un corridoio che hanno riarredato da poco. Farci due passi potrebbe anche non essere un male.

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Frank Sinutre – Musique pour le Poissons

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Isi Pavanelli e Michele K. Menghinez sono i due mantovani che hanno dato vita a questo strampalato progetto dal nome in stile Rock Band demenziale. Sono loro i Frank Sinutre e sono loro a costruire l’Elettronica che ne consegue, a partire dalla materia prima, perché tanti degli apparecchi utilizzati per produrre suoni, altro non sono che strumenti idealizzati o messi insieme dallo stesso Isi Pavanelli. Pensiamo al reactabox (un controller midi che funziona con dei cubetti, ispirato a reactable) o al drummabox (una drum machine acustica basata su arduino). La loro arte, dunque, si mischia con la tecnica e si amalgama anche con le altre arti, perché se è vero che già in passato i due si erano confusi col teatro (La Colpa della Leonessa), questa volta sono andati oltre e, insieme a Musique pour le Poissons, potrete pescare un libro di narrazioni inedite scritte dallo stesso Michele K. Menghinez, dal titolo Racconti per Pesci dal Mare d’Aria, che non è congiunto a filo serrato con le undici canzoni, ma è un ottimo complemento, non certo il massimo per i più pedanti letterofili, ma sicuramente apprezzabile da chi ama scivolare nelle parole e farsi trasportare in una certa malinconia esistenziale.

L’Elettronica dei Frank Sinutre è una miscela beffarda di Dub, Ambient, Lounge e Reading Elettronici con voci in base e un esempio chiaro di cosa descrivano e vogliano essere è dato dalla rivisitazione di “Oye Como Va” la quale salta a piedi pari dall’omaggio al rinnovamento passando per una certa impalpabile ironia capitale che sembra sempre presente, anche quando non si sente. Musique pour le Poissons ha una sobrietà talvolta esasperata, tanto che alcune sezioni ritmiche e linee di basso paiono insuperabili per condurre Giovanni Muciaccia in uno dei suoi attacchi d’arte (“Clock Never Stops”) ma al tempo stesso è capace di infiammare e accompagnare l’ascolto con ritmiche avvincenti (“Someone’s Dub”, “Passa”) ora con vigore (“Life Is Just Waiting for a Big Party”), ora con restaurata voglia di scrutare l’intimità umana (“Musique pour les Poissons”, “Two Sea Minutes”, “Please Visit Sermide”), magari sperimentando nuove strade sonore (“I Am Going to Do Nothing”) e sfruttando tutte le carte messe sul tavolo dalla strumentazione classicamente Rock unita alle innovazioni elettroniche. Sgradevolmente Indieggiante “Iolanda Pini”, con il testo parlato e non cantato su una base Elettronica in perfetta tendenza Offlaga Disco Pax ma con una timbrica certo meno intrigante e più mediocre e, similmente la conclusiva “Una Possibile Storia su Dio”, che concede qualche cosa in più al Post-Rock, regalando uno Spoken Word che più che a Max Collini, deve a Emidio Clementi (Massimo Volume).

La formula dello Spoken Word è sempre più una prassi nell’Indie Rock ma allo stesso tempo si sta trasformando in un’arma a doppio taglio e in questo caso rischia di essere lo stesso coltello che darà il colpo di grazia a una band che avrebbe tanto altro da dire. Non che questo linguaggio canoro, se cosi si può definire, sia l’unico problema del disco. Ci sono anche composizioni non eccessivamente convincenti come “Life Is Just Waiting For a Big Party”, qualche lacuna compositiva, non tanto tecnica quanto estetica e idee troppo confuse. C’è però anche tanta voglia di mettersi in gioco, di provare a superare i propri limiti, di non aver paura di esprimersi, nel modo che si ritiene più opportuno e tutta questa genuinità artistica trasuda negli oltre sessanta minuti di Musique pour les Poissons. Prima di scegliere il voto penso a questo e penso che il giudizio serve veramente a niente perché dentro la nostra musica c’è qualcosa, a volte, che non si può spiegare a parole, figuriamoci a numeri. E poi mi ricordo che però devo metterlo un voto ma voi non siete certo costretti a leggerlo, ascoltate l’album piuttosto.

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Wild Beasts – Present Tense

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Seguo i Wild Beasts da quando vidi il video di “Brave Bulging Buoyant Clairvoyants” su qualche canale musicale una domenica mattina post-sbronza. Ipnotizzato da quella sequenza di immagini da emicrania, complice forse il mio stato mentale alterato, fu amore istantaneo, un amore che è cresciuto all’uscita del secondo disco, Two Dancers, e si è leggermente sopito con il terzo, Smother, che mi pareva mancasse di unità nel suo declinarsi verso l’elettronica.

Bene, con questo ultimo Present Tense il quartetto inglese recupera ciò che eventualmente aveva perso negli ultimi tempi, e si conferma una band intensa ed estremamente interessante, capace di creare atmosfere rarefatte e cariche di tensione allo stesso tempo, generando canzoni piene di meraviglie e con una sorpresa ad ogni piega della stoffa morbida di cui sono ricamate, ma riuscendo a renderle orecchiabilissime, un balsamo uditivo che scorre facile come un placido fiume fresco nella calura estiva (fin dal primo singolo, “Wanderlust”, brano che apre il disco e che con le sue percussioni ossessive bagnate in ondate sonore che le spostano in battere e in levare già dimostra come, nei Wild Beasts più che mai, il bello sia come il diavolo, nascosto nei dettagli). Il loro mix sapiente di beat elettronici e atmosfere sintetiche è ciò che li caratterizza maggiormente: sono danzerecci e radiofonici ma allo stesso tempo ricercati e imprevedibili, e nel panorama dell’elettronica vintage rimangono comunque gli aristocratici bohemienne e senza peli sulla lingua che erano ai tempi di cose più suonate. Senza tacere del fatto che, come musicisti, sono fenomenali: andateli a vedere dal vivo, se vi riesce. Fosse anche solo per le voci di Hayden Thorpe e Tom Fleming (risulta quasi incredibile la casualità con cui due vocalità del genere si siano trovate nella stessa band).

Present Tense è uno di quei dischi di cui non si può parlare più di tanto, perché tutto ciò che si può dire è contenuto nel disco stesso. Non c’è interpretazione o spiegazione che tenga: ascoltatelo. Può giusto non piacere a chi soffre l’elettronica e la morbidezza, ché qui si spinge l’acceleratore a tavoletta su tutte e due le strade, senza remore. Per tutti gli altri, fatevi accompagnare dai Wild Beasts per un tratto di strada, sarà la compagnia più bella: quella dell’amico con cui puoi stare in silenzio perché, tanto, non c’è bisogno di dire nulla.

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Le Luci della Centrale Elettrica – Costellazioni

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È difficile scrivere una recensione di questo disco. Forse perché non stiamo parlando davvero di UN disco, ma di dischi, al plurale. E poi stiamo parlando di Vasco Brondi, che, volenti o nolenti, è stato considerato una voce di punta della fantomatica leva cantautorale degli anni zero. Da questo disco (il terzo) ci si aspetta qualcosa, fosse anche il proseguimento della continuità che c’era tra i primi due, ma più realisticamente si spera in un’evoluzione, un passo avanti nel percorso artistico de Le Luci della Centrale Elettrica. E quindi? Andiamo con ordine. Prima di tutto va detto che il disco è un disco denso. Non è un disco facile da esplorare. Alcuni episodi sono magari più accessibili del solito, ma si ha bisogno di tempo per entrare in tutti i dettagli, e anche scrivendo questa recensione continuo a scoprire cose e a rendermi conto di particolari prima inosservati. Questo fatto è strettamente collegato a ciò che accennavo più sopra: I dischi, non IL disco. Costellazioni (così ammette lo stesso Vasco) ha avuto una genesi travagliata, prima scritto e arrangiato “al computer” con Federico Dragogna dei Ministri, poi registrato in studio con una pletora di (peraltro ottimi) musicisti, ottenendo in pratica due dischi distinti, che in seguito sono stati “fusi” per creare questo prodotto ibrido, che Vasco sente suonare come “canzoni dalla pianura padana lanciate verso la galassia, storie piccole ma che si vedono anche dalla luna”. È un disco in cui convivono tante anime diverse, dove Vasco si è divertito a inseguire i tanti suoi gusti e punti di riferimento (CCCP e Battiato su tutti), dove ha sperimentato cose mai tentate prima (testi narrativi, più focalizzati; il cantato, che prima era esclusivamente parlato o urlato, diventa in alcuni casi più melodico; la chitarra viene spesso relegata in secondo piano, e sostituita con pianoforti, beat elettronici, oceani di synth, archi, fiati). Abbiamo quindi “I Sonic Youth”, una dolce ballata per pianoforte, elettronica e voce, ma anche “Firmamento”, elettrica e aggressiva, dove Vasco riprende “lateralmente” i generi che suonava nella sua adolescenza; c’è “Le Ragazze Stanno Bene”, scritta con Giorgio Canali, più classica, con voce e chitarra acustica a giostrare il marasma, ma anche “Ti Vendi Bene”, che è in pratica un pezzo sfigato dei CCCP (ma non per colpa di Vasco, sono i CCCP che sono inarrivabili).

Insomma, Costellazioni è un pastiche, è caos, è confusionario e sfilacciato, però è anche un disco coraggioso, perché darà nuovo materiale critico ai detrattori, scontentando al contempo quella fetta di seguaci affezionata allo stile sempre identico che Le Luci della Centrale Elettrica aveva reso quasi materiale di barzellette o di generatori automatici di canzoni di Vasco Brondi. In questo io ci vedo coraggio, perché Vasco ha saputo inseguire alcune ispirazioni che lo tentavano, lasciando i lidi comodi e sicuri della sua solita solfa, sperimentando, incastrandosi, cucendo, scucendo e ricucendo i brani. In alcuni casi questo coraggio ha pagato (il primo singolo, “I Destini Generali”, è luminoso e leggero, cosa che non gli era mai riuscita bene in passato, e rappresenta bene il filone di speranza, di “musica sotto le bombe” che attraverso il disco come una lama di luce nel buio; in “Un Bar Sulla Via Lattea” e in “La Terra, l’Emilia, la Luna” è riuscito a rendere bene l’idea di musica rurale e spaziale” tra la provincia, a cui tiene tantissimo, lui emiliano di Ferrara, e le stelle), in altri casi rischia molto di più di spiazzare l’ascoltatore (“Padre Nostro dei Satelliti”, “40 Km”, “Macbeth Nella Nebbia”, per alcuni versi “Uno Scontro Tranquillo”) e di sembrare perso, smarrito nel disorientamento causato da un overload di informazioni, idee, spunti. Il disco, insomma, è un mezzo fallimento, ma al contempo una mezza vittoria: porta Le Luci della Centrale Elettrica fuori dal pantano, verso le stelle. È vero, lo fa spesso con ingenuità e con poca chiarezza del percorso da fare, ma mi sento di dire che ascoltando Vasco parlare durante la presentazione del disco ho percepito che questo, lui, lo sa. Sa che il disco è il risultato di tentativi, di prove, di colpi di reni disperati e molto, molto necessari. E sa (e lo ammette) che il futuro sarà scegliere, tra le numerose vie che questo album-crocicchio ha aperto, quella che saprà convincerlo di più, e prenderla e percorrerla fino in fondo.

Per finire, due considerazioni: la prima è che non scherzavo quando dicevo che il disco è un mezzo fallimento, ma anche una mezza vittoria. Sono I dischi, ricordate? Quindi il mio consiglio per l’ascolto è di approcciare Costellazioni col cuore aperto, e di saper riconoscere quali canzoni riescono a parlarvi, e quali no. C’è per forza qualcosa per voi, lì dentro. Io, per esempio, sono stranamente stregato da “Blues del Delta del Po”, da “Uno Scontro Tranquillo”, da “Le Ragazze Stanno Bene”… insomma, io mi sono creato una sorta di Costellazioni privato, che mi parla in prima persona, lasciando fuori ciò che non mi arriva. In questo senso, l’avere perso focus in favore della varietà e della sperimentazione anche “strana” è stata una mossa vincente. Pezzi così, nel bene e nel male, difficilmente li incontrerete altrove. La seconda considerazione è su Vasco Brondi. In questo disco è chiaro come non mai che definirlo cantautore, se non un errore, è quantomeno un understatement. Vasco fa Punk, fa Rock, ha nelle orecchie gli anni 80, l’elettronica, i sintetizzatori, le distorsioni. Le Luci della Centrale Elettrica può diventare, ancora di più, un progetto trasversale, aperto, capace di tutto. Questo disco è un azzardo, è, se vogliamo, uno sbaglio, ma è dagli sbagli che nascono le emozioni vere. E quindi ascolto questo delirio di disco immaginandomelo con la metà delle canzoni e con una concentrazione più affinata, e so (e spero) di stare ascoltando il prossimo disco, Le Luci della Centrale Elettrica di domani, ed è un bel sperare.

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Il Cane – Boomerang

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Nuova fatica per Il Cane che torna a due anni di distanza dal precedente disco Risparmio Energetico. Il secondo lavoro si chiama Boomerang ed esce sotto etichetta Moscow in collaborazione con Matteite Records. Un sound elettronicamente moderno scaccia la noia dei soliti cantautori Indie, ormai non sentiamo niente di nuovo da troppo tempo, la paura è sempre quella di scendere nella convenzionalità assoluta. Il prodotto di Matteo Dainese aka Il Cane è fresco, il profumo si sente da lontano, il rancido malessere della mediocrità non passa mai dalle sue parti. “Vero” apre Boomerang in maniera delicata, chitarra acustica ritmata dal sentimento, batteria che apre il pezzo come nei migliori stati di grazia, il riff gira simpatico e dannatamente orecchiabile. Grande impatto il primo brano. Capisco subito di avere tra le mani una produzione importante. Quindi qualcosa di musicalmente valido vive in Italia? Piacerà a molti, attirerà l’invidia dei saputelli musicali. Poi “Il Premio” e l’effetto sole continua ad abbronzarmi la faccia, quasi brucio ma resisto. Particolarmente colpito da “Maledizione”, elettronica cupa, ritmo capace di trasmettere gioia e tristezza. Miscela di sensazioni, tremo col sorriso e nonostante tutto sono felice. “Al Tuo Tempo” arriccia la pelle, intima e violenta. Interiorità trasmessa dalle fredde corde della chitarra, pezzi di vita in musica.

Musica ritmicamente incalzante in “Alla Grande” e “Sguardo Perso”, buona interpretazione vocale de Il Cane, la sua voce rimane impressa come poche. Particolare e da non sottovalutare. “Lacrime” sembra un inno alla delusione, pizzica lo stomaco. Emotività al massimo ed esplosioni Post Rock. Sempre tutto legato da un senso di innovazione, qualcosa di diverso. Sulla stessa linea “Spettri”, un testo bellissimo e la capacità di lasciarsi penetrare incondizionatamente. Perché fare musica significa soprattutto regalare emozioni, e in Boomerang troviamo tanta roba, ascoltate “Cuscino Rosso” e lasciatevi incantare. Le idee girano bene nella testa de Il Cane, girano talmente bene che le soluzioni sembrano essere sempre a portata di mano. Diversa e particolare “Panico”, si gioca molto d’effetto. Si ritrova la potenza delicata dell’inizio nella conclusiva “Sconosciuti”, molto Rock e introspettiva, Il Cane brucia di molto la diretta concorrenza. Non mancano importanti collaborazioni per la riuscita del disco, Egle Sommacal (Massimo Volume), Ilaria D’Angelis (… A Toys Orchestra) e Marco Testa di Fuoco (Giorgio Canali & Rossofuoco) sono soltanto alcuni dei musicisti presenti in Boomerang. Arrivare al secondo album e confermare il primo è roba rara tra le band e i cantautori di questa sporca epoca, Il Cane non solo conferma ma migliora la propria produzione e Boomerang assume una propria personalità garantendo bellezza e originalità. Il Cane è tra i migliori artisti italiani in circolazione, e quelli meritevoli si contano sopra le dita di una mano. Se non volete scendere nella banalità di album fotocopia e finti cantautori questo disco darà la svolta alla vostra ricerca. Pop è bello. Boomerang è stupefacente.

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Le Chiavi del Faro – La Furia degli Elementi

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La Furia degli Elementi: il titolo di questo primo lavoro degli umbri Le Chiavi del Faro è azzeccatissimo. Partiamo subito con il dire che in questo disco c’è veramente tanta (troppa?) roba. I tre definiscono la loro musica Free Funk, ma diciamo che l’accento va messo, senza dubbio, sulla parola free. Il disco infatti miscela di tutto, dall’elettronica giocattolo, fuori posto, di “1-2 (IN)” (che prosegue nelle successive “3 (CON)”, “4-5 (SCIA)” e “6 (MENTE)” – scelta che mi sento di non condividere, sembra un EP piazzato forzatamente dentro ad un disco che è tutt’altro), al sax in salsa progressive di “Tentativo Numero Uno”, al “Post-Funk” con cui aprono le danze, nei sette minuti e rotti di “Tormentati alla Ricerca dell’Obbiettivo Comune”.

A Le Chiavi del Faro va dato atto di non risparmiarsi su nulla, e di seguire le loro inclinazioni con una libertà rara, che permette loro di arrivare veramente ovunque. Il rischio (che qua è certezza) è di creare un prodotto magmatico, “furioso”, per l’appunto, dove si fa fatica a trovare capo e coda, le tracce, almeno, di un discorso, di un percorso. Musicalmente il trio gira, sa inventare e re-inventare, suona anarchico e spaziale, con attimi di quasi Post-Rock atmosferico (“Cambiamento”) da un lato e groove virtuosistici dall’altro (“Le Macchine Straordinarie”, “La Morte del Fuoco”). Manca una direzione, ma può essere una scelta, e se di scelta si tratta, è solo (!) questione di arrivare alle orecchie (e alle teste) giuste. Discorso a parte per il cantato, che sembra sempre un po’ fuori luogo, messo lì a caso, con linee melodiche che sanno di vecchio, tra accenti dislocati, un suono troppo neutro sopra la follia strumentale, e testi che non riescono proprio ad arrivare. Forse ci voleva più coraggio (poco, pochissimo in più di quello che già c’è – ed è tanto!): fare un album strumentale di musica infuocata, tempestosa, devastante, senza parole ad interrompere questo flusso inconscio, questa esigenza psicofisica, come la chiamano loro, dove comunque appare chiara e lampante la necessità, l’ansia, l’urgenza di fare, di creare. Un po’ di controllo in più, qualche ingenuità in meno e il disco avrebbe acquistato spessore e importanza. Così sembra un’eruzione vulcanica caotica, un maelstrom senza direzione. La capacità c’è, si può fare di meglio, senza la necessità di voler stupire a tutti i costi. Aspettiamo il seguito.

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The Divinos – The Divino Code

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The Divino Code prende le mosse da una singolare e temeraria intuizione del frontman/songwriter partenopeo Max Russo (chitarra acustica/voce), accompagnato per l’occasione da una compagine di indubbio talento e provata versatilità: Chiazzetta a.k.a. Corpus Tristi (Rap vocalist), Roberto Pirami (batteria/programmazione elettronica: Vinnie Moore, Michael Angelo Batio, Uli Jon Roth, Blaze Bayley), Simone Massimi (contrabbasso elettrico: Vinnie Moore), Marco Bartoccioni (chitarra southern/mandolino) ed infine Licia Missori (pianoforte acustico: Steve Hewitt, Spiral 69). Il concept in questione narra le fantomatiche vicissitudini della sgangherata famiglia Divino (un infelice alter ego dei celeberrimi Sopranos?), attraverso un insolito itinerario Noir/Pulp/Western particolarmente intriso di ironia, drammaticità, tragicommedia. Cinematografia musicale (sulla scia di Tarantino, Rodriguez e Leone), indissolubile sinergia visiva/uditiva in cui vengono scarnificati e messi a nudo (in maniera piuttosto semplicistica e puerile) alcuni cliché tipici del famigerato sistema malavitoso italo/americano (“more power, more business, more women, more respect”), efficacemente evidenziati dalla peculiare contaminazione linguistica impiegata a livello semantico/testuale, come testimonia l’interessante rivisitazione della closing track “It’s Wonderful” (“Vieni Via Con Me”, Paolo Conte).

Detto questo, ammetto di non aver mai gradito i progetti di tal fattura, profondamente convinto che il linguaggio musicale debba essere, in un modo o nell’altro, veicolatore privilegiato ed assoluto di messaggi, emozioni, ricordi (positivi o negativi che siano), non impressionistica ed asettica rappresentazione di una qualche realtà immobile e precostituita. Apprezzabile, d’altro canto, l’innegabile spessore della proposta stilistica: una feconda e traboccante cornucopia espressiva dove convivono armoniosamente Classic/Southern Rock, Ballad (“Criminal’s Confession”), Opera, Musical (“You Have to Give Respect”), Rap (“The Divino Code”) ed Elettronica (“I Live Just for the Best”), il tutto cesellato da una produzione imponente ma troppo spesso incline alla saturazione e perciò fuori controllo. Da segnalare il videoclip del brano “Doll’s Amore” (secondo singolo in Europa ed U.S.A.), recentemente prodotto in territorio transalpino dalla prestigiosa Cité du Cinéma del regista francese Luc Besson.

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Fluon – Futura Resistenza

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Come se doveste aprire una medicina vi invito a leggere queste indicazioni prima di ascoltare il disco dei Fluon.


1) Questo lavoro non ha nulla in comune con i Bluvertigo se non il fatto che sotto la sigla Fluon si nasconde Andy che non ha mai smesso di darsi da fare dopo la seconda ibernazione del gruppo di Monza; se vi farà piacere al massimo consideratelo la sua naturale “evoluzione” (che è anche il titolo della opening track);
2) Se non vi piace la musica elettronica potete tranquillamente starne alla larga, ma se la adorate maniacalmente non ne potrete più fare a meno;
3) Se non amate il Kraut Rock stile Kraftwerk questo non è un articolo per voi; i Fluon possono essere considerati infatti i loro pronipoti.


Detto ciò, possiamo proseguire che troverete tante influenze in questo lavoro, in primis i Depeche Mode, per cui Andy è in fissa da sempre, pur mancando forse quel dualismo Gahan / Gore che  contraddistingue il sound e la musica dei tre di Basildon. Tuttavia lo spettro dei suoi tre ex compagni di avventura (Morgan, Livio e Sergio) si fa abbastanza evidente in pezzi quali “In Verità vi Dico” e “Dove si Comincia” e l’interrogativo più frequente che ci si pone è come avrebbero suonato tali canzoni se i quattro di Monza vi avessero lavorato assieme… Spezzo però una lancia a favore dei suoi tre nuovi compagni di avventura, Faber (synth, programmazione), Fabio Mittino (chitarre) e Luca Urbani (voce, synth) i quali svolgono il loro compito egregiamente. I Fluon hanno comunque un talento smisurato, soprattutto se confrontato ai tanti surrogati che ci propongono i vari Talent Show e manifestazioni canore quali il Festival di Sanremo. Qualcuno di voi probabilmente se ne era già accorto quando parteciparono al tributo a Enrico Ruggeri, “Le Canzoni ai Testimoni” con cui lasciarono già un segno della loro bravura riproponendo la sua hit “Polvere” persino in coppia in un videoclip col noto cantautore / scrittore / presentatore milanese. Dieci tracce insomma in totale che potrebbero impressionarvi facilmente, soprattutto per il contrasto che si crea fra apertura elettronica e chiusura in grande stile con un lento quale “Buio”, che permettetemi il paragone, mi emoziona tanto quanto quella “Somebody” dei Depeche Mode soprattutto nel finale dove il sax e la chitarra si incastrano perfettamente tra loro. Davvero un esordio all’insegna della classe e della raffinatezza!

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Anders Trentemøller in Italia

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Non solo un Dj, ma un vero e proprio performer che rielabora gli stilemi del genere e offre un personalissimo live set. Questo è Anders Trentemøller, danese noto ai più per essere stato inserito da Pedro Almodovar nella colonna sonora del suo “La Pelle che Abito”. Il giovane artista elettronico sarà in Italia per due date, il 24 febbraio all’Estragon di Bologna e il 25 febbraio all’Atlantico di Roma. Per entrambe le date i biglietti sono disponibili su TicketOne.

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Il Video della Settimana: Gabriele Deriu – “Verso la Fine” feat. En?gma

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Gabriele Deriu è un’artista di Olbia trapiantato a Roma. A distanza di tre anni dal suo primo lavoro Gabriele Deriu Ep (2010) esce con un nuovo lavoro, Oltre il Muro Ep, che intreccia Cantautorato, Elettronica, Dubstep e Rap. Il singolo è “Verso la Fine” ed è anche il nostro videoclip della settimana. A duettare con Gabriele Deriu troviamo En?gma, rapper della crew Machete. Il testo racconta dell’annuncio di una rivoluzione da parte di un popolo stanco di sopportare ogni cosa, un popolo che vuole far rinascere il valore della verità. Il videoclip ufficiale è diretto da Mirko De Angelis, regista che ha firmato i video di molti rapper italiani.

Anche questa settimana dunque, una scelta insolita per la redazione di Rockambula che dimostra ancora una volta di non avere alcun tipo di pregiudizio verso nessun genere musicale. Di seguito trovate il nostro Video della Settimana che, ricordate, sarà presente in home fino a sabato prossimo.

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Sydyan – Benefico Perturbante

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I Sydyan dicono nel terzo pezzo di questo Ep: “C’è divisione tra bene e male”. Ma in questo caso ci sono solo elementi buoni che permangono durante l’ascolto di Benefico Perturbante. Il gruppo veronese nasce nel 2005 dalla penna di Michele Ambrosi e dal bisogno incipiente di dare voce alla propria soggettività trasponendo in musica le suggestioni del quotidiano vivere.
Dopo aver assunto la forma di quintetto tante cose sono cambiate sia nella dimensione live sia in quella da studio. Ecco quindi che spunta fuori lo strano ed inusuale incrocio musicale che assume le fattezze di un  taglio cantautorale già vivo negli esordi e di una componente elettrica istintiva, incalzante, a tratti vicina a certa psichedelia rarefatta ma sempre viva dei giorni nostri.
Sono proprio queste le atmosfere che si respirano sin dall’iniziale “(Se so) Stare con te”, in cui ci sono suoni che ricordano da vicino i Subsonica, i Bluvertigo e i Soerba (insomma la creme del Rock Elettronico anni Novanta italiano). In “Vuoto” invece è una chitarra allegra a far da padrone almeno per gran parte del brano (fino a quando non arriva un piano a ricordare quelle melodie care ai Gazebo di “I Like Chopin”).
La convivenza fra i due strumenti è pacifica e spontanea anche nel successivo brano, il già citato “Sia Bene e Male”. “Profumo” odora (concedetemi il gioco di parole) di Indie Rock alla inglese, anche se lascia trasparire qualcosa di natura italica (giusto per non allontanarsi troppo dalle origini). “Aspettiamo” è l’unico video per ora tratto da  Benefico Perturbante, una scelta giusta perché la canzone ha degli arrangiamenti più curati rispetto al resto dell’Ep ed ha tutte le carte in regola per diventare un caso da migliaia di visualizzazioni su Youtube. Mentre mi concedo questa recensione le visualizzazioni sono a quota 287 ma certamente il numero crescerà di giorno in giorno.
“Larutinmiaiuta” mette fine (purtroppo) a questo lavoro che lascia un po’ di amaro per la sua brevità (poco più di venti minuti la sua durata) ma lascia ben sperare per il futuro del gruppo.
Se si fosse optato per includere almeno due o magari tre brani in più i Sydyan avrebbero potuto guadagnare forse qualcosa ma va bene anche così.
Le scelte artistiche non si discutono mai in fondo…

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Blevin Blectum – Emblem Album

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È da tempo che ci ribadiscono che il futuro del Rock è nell’Elettronica e qualcuno ci aveva pure creduto. A distanza di tredici anni da Kid A già cominciano a fare dietrofront in tanti e il futuro del Rock diventa, di volta in volta, “il vintage”, “la riscoperta degli anni 80”, “il revival Rock’n Roll”, “la sperimentazione cinese”, “gli Arcade Fire”, “la Dubstep”, “il Pop”, “il Blues Rock classico”, “il Lo-Fi”, “il Minimalismo”. Sono passati quarantacinque anni dall’omonimo album dei Silver Apples e a quanto ho inteso l’Elettronica non è mai stato il futuro ma solo uno dei tanti mezzi con i quali il Rock si è confrontato e allo stesso tempo una realtà a sé stante, disgiunta dalle dinamiche di mercato e dalle tensioni emotive del Rock. L’Elettronica è un mondo a parte nel quale, di tanto in tanto, i protagonisti della scena Rock si inabissano per cercare nuove vie d’ispirazione (vedi Reflektor). Il futuro è la contaminazione e la distruzione delle classificazioni. Forse e forse lo sottoscrivo ma forse farò dietrofront anch’io, un giorno.

Tuttavia, c’è chi sembra calarsi perfettamente in questo ruolo dell’Electronic Music di secondo interlocutore e prosegue per la sua strada cercando non di scoprire come sostituire corde e pelli nelle nostre orecchie ma come spalancare nuovi varchi stilistici per un settore che ha ancora tanto da dire. Una di loro, di questi neo romantici dell’astrattismo musicale, si chiama Blevin Blectum (voce in A Chance to Cut Is a Chance to Cure e The Civil War, entrambi album degli straordinari Matmos) e da fine millennio cerca una formula ideale miscelando sostanze, spesso con scarsi o modesti risultati, ma che, nelle ultime cose, pareva aver trovato l’ingrediente segreto mancante.

Anche questa volta, giunta al quinto album solista, Blevin Blectum edifica tutto un mondo sonoro (con un utilizzo minimo delle parole) che regge su strutture artificiali ben delineate procedendo lungo la scia di Gular Flutter, album del 2008 nel quale l’artista sembrava essere riuscita a indovinare e rendere a pieno il senso della sua proposta. In apertura scoviamo le due parti di “Cromis” le quali, nella loro semplicità, figurano come l’inizio esemplare di una tanto attesa risposta a chi chiedesse all’Elettronica di cambiare il suo ruolo. Ritmiche e suoni scomposti ma ossessivi fanno da contraltare a una vocalità destrutturata ma puntuale. Manca una melodia precisa eppure le ritmiche poggiano su solide basi tanto da rendere il brano orecchiabile nella sua sventatezza. Ben presto però il sound si altera, perde consistenza, diventa un’accozzaglia neanche troppo articolata di suoni (“Nanofancier”) elettronici alternati in maniera metodica su uno sfondo di illusorio caos che richiama in maniera netta lo stile dei Matmos (“Deathrattlesnake”) ma non riesce a eguagliarne l’intelligenza e la complessità sostanziale. Poche cose, non troppo interessanti e mescolate maldestramente e una delusione evidente in chi, come me, si apprestava ad ascoltare un gioiello, dopo Gular Flutter e dopo l’ascolto dell’opening track. Mi attendevo una strada piena di ritmiche incalzanti, di voci straniate e stranianti, di suoni compositi, variegati e cangianti e per quasi cinquanta minuti subisco un attacco furioso da un quasi nulla sonico buono solo ad annoiarmi senza neanche riuscire a farmi addormentare.

Emblem Album è un passo indietro per Blevin Blectum, greve e in parte inatteso ma è solo un insignificante passaggio a vuoto per il mondo dell’elettronica intelligente che forse non sarà il futuro del Rock, ma di certo ne ha uno tutto suo, pieno di accecanti colori al neon.

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