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DNA Dance Department a Club To Club

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Anche nel 2013 si terrà la rassegna Club to Club a Torino, un appuntamento che è diventato “il” punto di riferimento per tutti gli appassionati italiani di musica elettronica “avanzata” (quella, per intenderci, che contrassegna il Sonar di Barcellona), oltre che un festival stabilmente in cima alla lista degli eventi consigliati nei principali media internazionali dedicati alle sonorità digitali: il torinese Club To Club da tempo ha smesso di essere un coraggioso ed interessante esperimento per diventare, invece, una realtà di enorme prestigio a tutti gli effetti, capace come pochissime altre in qualsiasi campo culturale di coniugare qualità e favori del pubblico. Strettissima la collaborazione di quest’anno fra gli artisti del roster di DNA concerti e l’organizzazione della manifestazione, come dimostrano gli appuntamenti che seguono:

JON HOPKINS 8 novembre // Cantieri OGR

TODD TERJE 8 novembre // Hiroshima Mon Amour

SHERWOOD & PINCH 9 novembre // Lingotto Sala Rossa

KODE9 9 novembre // Lingotto sala Rossa

MODESELEKTOR 9 novembre // Lingotto Padiglione 1

FOUR TET 9 novembre // Lingotto Padiglione 1

FUCK BUTTONS 9 novembre // Lingotto Padiglione 1

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Twomonkeys – Psychobabe

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Due scimmie impazzite si nascondono dietro questo progetto elettronico spiazzante, irrazionale, folle che risponde al nome Twomonkeys. I fratelli Bornati di Brescia “cresciuti tra Berlino e Amsterdam” scelgono la strada dell’Elettronica “nuova” ma con la memoria ben salda agli anni d’oro del Post Punk e della No-Wave, il tutto sotto la guida attenta e la produzione di Asso Stefana (Guano Padano, Vinicio Capossela, Mike Patton). Preferiscono l’elettronica per raccontare un mondo allucinato attraverso le sue pulsioni, ma si discostano da quella più classica e danzereccia, scegliendone gli aspetti deliranti e caotici. Sperimentazione che in realtà non osa troppo, andando invece a compiere un lavoro certosino di ricerca dentro gli stili del genere, scegliendo le ritmiche e i suoni più adatti a rendere esattamente quello che il duo voleva e cioè un sound potente, ritmato, ossessivo e cupo senza le melodie e la strumentazione di Indie e Folktronica e neanche le ammiccanti e intelligenti note dell’IDM. La struttura portante è invece il Post Punk e il suo carattere decadente e quindi il Punk stesso mentre tutt’intorno ruota una serie di suoni che avvicina il duo ora alle strade della psichedelia, ora alle ritmiche geometrie del Math Rock, pur senza ricalcarne la smaniosa perfezione e l’uso smodato di tempi dispari.

La cosa che più sorprende di quest’album d’esordio è la varietà di stili che viene presentata senza tuttavia suonare mai confusionario e privo di una visione precisa. Tanta mercanzia che insieme restituisce precisamente l’idea di un’entità unica. Tutti i brani sono infarciti di un misto di giocosità infantile, surreale, onirica e macabra (“Melodrama”) che, talvolta, suona fortemente Jazz Club (“Moon”, “Psycho”). Sempre presente inoltre una maniacalità matematica in stile Battles, parallelismi rafforzati dall’uso della voce carica di effetti (“Psycho”), cosi come suonano evidenti alcuni rimandi al mondo Industrial teutonico e britannico anni 70, essenziale, cadenzato e ripetitivo (“Marshmellow”) o al Punk Rock frenetico di natura “Blitzgrieg Bop”, sapientemente miscelato alle ritmiche Drum’n Bass (“Fuckfolk”);  oppure ancora alla No Wave e il Post Punk più oscuro (“Crazy Drive”). Pochissime sono le tracce che richiamino in qualche modo alle moderne ovvietà dell’Indie Rock classico o del Folk Rock e Garage Revival (“More Space”) mentre più evidenti sono le attinenze con l’Electro Post Rock e la Glitch Music dei Matmos (“Crazy Drive”, “Cry”), maestri indiscussi della manipolazione sonora, e certamente non può essere tralasciato il paragone con la band sperimentale di Baltimora che risponde al nome di Animal Collective (“Refrain”, “She Knows”, “Sacrifice”) formazione in continua evoluzione tra le cui fila milita un certo Panda Bear e che ha fatto della varietà della sua proposta, sempre diversa ma sempre riconoscibilissima da un album all’altro, la sua caratteristica primaria.

Proprio gli Animal Collective possono essere visti come il miglior metro di paragone per i Twomonkeys che sono riusciti a rubare (con successo) quella capacità di suonare sperimentali senza doversi troppo allontanare dalle origini, di esprimere messaggi unici senza essere originali, di lasciar scorrere infiniti sfondi e scenari lasciando intatta l’immagine della propria musica. L’album si chiude con una sorta di omaggio al French Touch e ai Daft Punk (come se non bastasse) e la cosa sia vibra come l’esternazione di un certo modo di fare Elettronica (pur essendo due stili molto diversi) che guarda al passato, non inventa nulla eppure riesce a crearsi una sua identità ed è capace di stare tra la gente, sia nelle piste da ballo sia tra l’intimità delle cuffie. Un certo sistema di fare Elettronica che contraddistingue i francesi e farà la fortuna anche di questi Twomonkeys che rappresentano l’altro lato della medaglia, il suo volto animale.

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Dr. Irdi – 2

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Chi è (o cos’è) questo fantomatico Dr. Irdi? Un pazzo, un visionario (o un collettivo di pazzi, o visionari)? Cosa significherà mai quella copertina kitsch giallo vomitino (o almeno credo sia gialla, sono leggermente daltonico)? È lui, è sua, quella faccia posterizzata? Ma soprattutto, Dr. Irdi ci è o ci fa?

Ironico fin dal titolo, 2 è il primo, breve prodotto di questa realtà DIY, che si sussurra stia nel frattempo già producendo un full-lenght. La partenza (“Intro”), Elettronica Minimale e casereccia con qualche drone di fondo e campioni di Spoken Word, pare introdurre un certo tipo di lavoro, ma poi arriva “Hollywood”, seconda traccia, a spiazzarci completamente: un’apertura di chitarra decisamente Lo-Fi e un sapore più Rock, voci strascicate accompagnate da un’elettronica elementare ma parecchio orecchiabile. Segue “Tu”, e prosegue il mood sussurrato e confuso del disco: voci sempre più impastate, melodie accennate da synth lontani, basso e ritmiche semplici ma efficaci. Dr. Irdi è sempre più ineffabile: “Armageddon” parte come un canto monastico e poi scivola in una canzone allo stesso tempo ariosa e malinconica – inspiegabilmente – con un lento ritmo in levare e un testo che si indovina in italiano (la voce è sempre bella distante, parte della scena più che protagonista). La chiusura dell’EP viene affidata ad “Iceberg” e al suo piano dolcemente inquietante, dal riff killer, una sorta di “Mad World” (quella rifatta da Gary Jules, intendiamoci) ma con più eroina, per non parlare di quella chitarra sottile e vibrante che si appoggia e si indovina qua e là nella pasta sonora che riempie il brano (e là dentro, ad un certo punto, entra un basso: emozionante).

Dopo aver sbirciato il mondo onirico, nebbioso, folle del Dr. Irdi, le domande che mi ponevo all’inizio non hanno avuto risposta, ma, anzi, si sono presto moltiplicate: che cazzo fa il Dr. Irdi? È Elettronica? È Ambient? È un Desert Rock molto poco suonato del XXI secolo fatto in un parcheggio di un centro commerciale brianzolo invece che nel Palm Desert?
Direi che la chiave per decifrare la proposta enigmatica di 2 sia proprio questa: idee interessanti, mood, in alcuni casi, ineccepibile (“Iceberg”); manca però l’identità, manca il fine, lo scopo, manca il taglio, il punto. Lungi da noi desiderare ad ogni costo un’etichetta sulle cose (anzi): si tratta solo di affilare la lama e di sapere (o volere?) colpire nel punto giusto. Aspettiamo il disco nuovo del Dr. Irdi e speriamo che non si chiami 1.

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The Knife – Shaking the Habitual

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Un gioco di percussioni e vocalismi in “A Tooth for an Eye” apre Shaking the Habitual, il quarto disco dei The Knife. Ritmi alla Talking Heads che appaiono forse un po’ datati, ma al contempo proiettati negli anni 2000, in un perfetto caos e disordine sonoro che però non è disprezzabile e che ritroveremo più avanti soprattutto in “Without You my Life Would be Boring”. Annunciato già nel 2011 sul sito della band e nel 2012 con un breve teaser su Youtube, l’album venne dato alle stampe nei primi mesi del 2013 tra curiosità e soddisfazione / insoddisfazione dello zoccolo duro dei fans.

Certamente la performance vocale appare ancora una delle più intriganti della scandinavia (potrebbe contendere lo scettro alla celebre Bjork), ma dal precedente Silent Shout sono passati ben sette anni e quindi forse ci si attendeva un po’ di più da un gruppo dall’indubbio talento e spessore come il duo svedese. Elettronica allo stato puro (sempre e comunque) che soffre tuttavia di una durata esageratamente lunga (oltre settanta minuti sono davvero troppi da digerire persino per le orecchie più forti) e una scrematura dei brani avrebbe forse giovato ad apprezzare di più questo lavoro che appare a tratti intrigante, a tratti noioso.

Il coltello scandinavo è tornato quindi a colpire, ma lo fa con timidezza, senza osare mai troppo, senza spingersi oltre quei confini che da sempre lo contraddistingueva, mentre passava da una musica House a un Synth Pop post moderno senza eguali. Durante “A Cherry on Top” sembra infatti di stare ascoltando un disco solista di Thurston Moore o di Lee Ranaldo dei Sonic Youth (ma i loro sono sempre lavori geniali) e se non fosse per l’incantevole voce (che arriva però dopo cinque minuti!) verrebbe voglia quasi di passare alla traccia successiva.

Meno male che a rialzare la media ci pensano capolavori sonori quali “Raging Lung” o “Fracking Fluid Injection” in cui il duo osa davvero tanto ed ammalia l’ascoltatore e nella finale “Ready to Lose”. Insomma un disco che non passerà di certo alla storia e che quasi sicuramente dividerà i fans del gruppo.

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Goldfrapp – Tales of Us

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Incredibile. Sono tornati i Goldfrapp. Chi l’avrebbe mai detto. Proprio quando non ci si sperava più e neanche ci si pensava più, il duo pubblica Tales of Us e già dal titolo si potrebbe capire di che disco si tratta. Sicuramente un concept album, non tanto nel senso Prog del termine, quando nella profondissima omogeneità di mood, contenuti, tono e filo conduttore narrativo. Il disco si apre con “Jo”, molto cadenzata, ripetitiva, ossessiva, con un delay vocale che crea un incredibile effetto pioggia battente, perfetto per l’autunno in cui Tales of Us fa la sua apparizione. “Annabel”, nonostante l’andamento flemmatico e arpeggiato non è mai scontata: molto cinematografica, con cadenze armoniche e melodiche del tessuto strumentale che spesso e volentieri ingannano sulla loro risoluzione. La malinconia e l’inquietudine proseguono in “Drew”, apparentemente leggera con quel suo inizio da scherzo pianistico che viene subito appesantito dalle sferzate tonali minori. “Ulla” è delicata e sensuale, mentre “Alvar” è un brano onirico e senza tempo, a cavallo tra la ballata medievale e le sonorità Folk nord-europee. Forse l’unico brano del disco a tradire sinceramente una nota positiva. Non mancano neppure gli anni 90, che in “Thea” acquistano quasi un gusto vintage. Purtroppo arrivati a questo punto ci si è un po’ stufati. Il cantato è complessivamente monocorde. L’omogeneità di cui parlavo prima e che, per certi aspetti, potrebbe essere un dato incredibilmente positivo sul piano compositivo e stilistico, finisce per annoiare l’ascoltatore almeno: finisce per annoiare me e ci si rende conto che Tales of Us potrebbe essere perfetto a piccole dosi, a sezioni interrotte e usate come soundtrack per qualche film, ma non certo per un ascolto da cima a fondo di un full-length. Perfetta a scopo cinematografico sarebbe proprio la “Simone” che passa quasi inosservata, così come la fumosa “Stranger”, che pare arrivare direttamente dagli anni 50, perfettamente identica per toni a tutti i brani precedenti ma forse con quel tanto appeal che basta a renderla più catchy. “Laurel” vive della luce riflessa della precedente, mentre con “Clay” si ritorna a sonorità vagamente più Folk: la chiusura è fresca, positiva, inaspettata. Forse un messaggio di speranza? Forse la fine della stagione fredda che porterà alla rinascita della primavera? Chissà. Nel frattempo i Goldfrapp ci danno un disco che non è assolutamente un capolavoro, né sembra avere alcuna velleità di esserlo. É una narrazione di ciò che è (autunno, malinconia, precarietà), con un piccolo barlume finale di quella speranza che è sempre l’ultima a morire.

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Hey Saturday Sun – Hey Saturday Sun

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Lento è il viaggio verso le stelle, lento è un movimento nello spazio. Questa è musica che richiede pazienza, calma ma forse parliamo addirittura di meditazione e di sogno. Richiede una serata tranquilla per far viaggiare i propri pensieri, spararli nel cielo stellato lontano e pacifico, senza aver paura di farsi trasportare chiudendo gli occhi. L’esordio discografico del musicista umbro Giulio Ronconi in arte Hey Saturday Sun (ispirazione palesemente tratta dal brano del duo elettronico Board of Canada) non è nulla di ciò che vorrei ascoltare la mattina appena sveglio, in qualsiasi tipo di viaggio (terreno) o mentre redimo la mia coscienza facendo la mia corsetta amatoriale. Però è sicuramente un prodotto raro per intensità e per il suo sound, mai banale e mai relegato ai comodi schemi dei generi musicali.

La lunga intro affidata a “Pulsewidth Noise” ci rimanda subito ad un’altra dimensione, meno carnale ma non per questo fittizia, mentre “Silent Kid” fa l’occhiolino all’elettronica viva di Moby e ci detta un passo molto soffice e lento, sappiamo però che piano piano di strada ne faremo molta. Gli echi e i vocalizzi di Marta Paccara conferiscono l’atmosfera giusta e il pianoforte rarefatto pare avere i tasti congelati e dipinge in aria immense praterie mischiate a enormi palloncini fluttuanti. La cavalcata New Age “The Other City” è una precisa descrizione di paesaggi stellati, mentre “Lullaby” finalmente azzarda anche la batteria e richiama i tanto attesi anni 80. Sorpresa! Ecco le chitarre di “1.9.8.9”, il pezzo più forte e scellerato del disco. Senza esagerare questo è il momento più Pop e ciò non ci dispiace affatto. Rullate decise e voci si scontrano, si amalgamano come nuvole in rivolta. Tutto però rimane quassù e il contatto con il suolo è un lontano ricordo. Le due metà di “Museum of Revolution” sono un vortice, un fiume in piena, una cascata di sensazioni a fior di pelle. Una carrellata di suoni che non si limita ad essere un semplice esercizio. La carica e la botta da me tanto adorate sembrano rinchiuse in una teca di vetro da cui escono solo leggeri sussurri, suoni non per questo però privi di forza: viscerali anche se visionari, ma soprattutto positivi.

Un bel sogno possiamo dire, mai troppo finto da sembrare pura immaginazione. Hey Saturday Sun è il sole calmo di una domenica di inverno, quello che non ti aspetti, che ti scalda appena appena sbucando dalla finestra, entra nelle tue coperte e si unisce alla tua dormita godereccia. Una sensazione di respiro di aria buona a pieni polmoni, lontano dalla merda quotidiana che ci tocca ingurgitare.

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Fuck Buttons – Slow Focus

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Terzo disco per i Fuck Buttons, duo elettronico di gran moda proveniente da Bristol. Bando alle ciance e prepariamoci ad immergere la testa in questi sette brani strumentali che promettono fuoco, fiamme, elettronica e rumore.  Partiamo con “Brainfreeze”: è una cavalcata onirica, sorretta da un’artiglieria di percussioni infuocate e inarrestabili che affondano in un crescendo Noise apocalittico. È ciò che balleranno sulle ossa dei morti di domani i nostri discendenti, quando la Terra sarà un sasso abbrustolito rotolante in uno Spazio sempre più vuoto, o quando le macchine avranno vinto la loro guerra contro noi organismi al carbonio. Una roba così.

Segue “Year of The Dog”, arpeggiatori e fantasmi, cose che strisciano, case infestate, fuochi fatui nella nebbia, enormità percepibili nella distanza. Rimane, dal primo pezzo, il senso di qualcosa che incombe, sviluppato in crescendo e improvvisi vuoti. Con “The Red Wing” si torna ad una realtà più contigua. L’inizio potrebbe sembrare la base di un pezzo rap, con quel suono campionato, come di campanelli, acuto e perforante, che ci fa muovere la testa su e giù… se non fosse per i lievi spostamenti, per così dire, laterali, che fanno capolino qua e là tra la ritmica secca e ossessiva e i synth, scuri e gonfi al principio, poi taglienti e aperti, panoramici, che ci avvolgono mentre la canzone prosegue, passo dopo passo, come un Godzilla afroamericano che avanza a ritmo.

La ritmica è il lato migliore dei Fuck Buttons. Se non lo avessimo ancora capito, arriva “Sentients” ad insegnarcelo, con un intro martellante di suoni percussivi elettro-tribali e strida meccaniche. Un pezzo sul quale ballerebbe breakdance una crew di robot. Almeno finché non arrivano i synth, in un’entrata come la farebbero i quattro Cavalieri dell’Apocalisse, o le Sette Trombe del Giorno del Giudizio. L’incombenza di un Destino, di una Fine non troppo rosea pare essere un marchio di fabbrica dei Fuck Buttons, insieme all’andamento “in salita” che quasi tutti i pezzi, fino ad ora, hanno mostrato. E invece, con “Prince’s Prize”, i due di Bristol ci spiazzano e paiono, almeno all’inizio, giocherelloni e light-hearted. Quest’atmosfera playful resiste? Non troppo: prima del minuto e mezzo giungono le percussioni e l’andamento diventa più serrato, più pressante. È il brano più breve, e forse il più scorrevole: degna preparazione della combo finale, due pezzi da più di 10 minuti l’uno.

Il primo, “Stalker”, è una scalinata di pietra verso un cielo plumbeo. Synth sporchi e pesanti come piedi di golem pestano su una batteria asimmetrica e zoppicante, mentre i soliti arpeggiatori brillano nella distanza, vibrando per punzecchiarci le orecchie. Poi, eccoli: raggi di luce tagliente tra le nubi, come le dita di Dio, che avvolgono tutto in un’apertura da manuale ancora prima della metà del brano. Sono oceani di synth spalancati sul caos come archi, come onde. E la salita continua, e cresce: la scalinata diventa un serpente-drago che si morde la coda salendo, a spirale, nel confine sottile tra il buio e la luce. Concedetemi l’immagine: “Stalker” è un viaggio onirico, non c’è altro modo per descriverlo compiutamente – saremmo costretti a limitarci (ammesso che sia possibile farlo) alla fredda descrizione di ciò che percepiamo, e non basterebbe a spiegarvi davvero il potenziale di un brano di questo tipo. Quando “Stalker” si spegne, non riesco a credere che siano già passati dieci minuti. E mi tengo forte, aspettando l’ultimo pezzo.  Iniziamo, come sempre, in sordina: un battere distante, graffi acuti ad altezza occhi, e poi un ringhio di synth riempie il centro della scena. Quando la ritmica arriva, la sto aspettando: Slow Focus avanza coerentemente, qualcuno potrebbe dire noiosamente, ma la forza dei Fuck Buttons sta anche in questo: se il pezzo ti prende, non te ne frega un cazzo di cosa si ripete e cosa no. Segui il flusso, la marea, la corrente, e ti ritrovi chissà dove.

E infatti, abbandonandomi a “Hidden XS”, mi trovo ad un certo punto in un vortice acido, sopra un treno argenteo che sembra un proiettile, e ad un certo punto il vortice si ferma, i binari scompaiono e il treno sembra sospeso nell’aria, immobile, a levitare al rallentatore. Aspettiamo la caduta stringendo i braccioli del sedile: ma il volo prosegue, leggero, in una sequela di accordi che sembrano suggerire un’epifania, una rivelazione; e si sale, sempre più su, sempre più veloci, sempre più in alto, quasi ferocemente, disperatamente – fino a scomparire nella luce immensa di un Sole accecante. Slow Focus è un abisso, una labirinto nel quale sprofondare, lasciandosi illuminare, a poco a poco, dalle apparizioni del subconscio. Non è esente da difetti: i pezzi seguono spesso, come dicevo, lo stesso tracciato, e l’atmosfera complessiva non è quasi per nulla variegata (il senso di progressione in crescendo, le ritmiche ansiogene e primitive, l’apertura verso la metà, la rivelazione, la chiusura rarefatta finale). Tolto questo, i Fuck Buttons ci hanno regalato la possibilità di gettarci a capofitto nelle stanze del sogno, quello vero: brutale, primevo. E noi accettiamo l’offerta, e ci prepariamo alla partenza: orecchie, cuore, cervello.

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Matta-Clast – De Morbo

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I Matta-Clast producono, nel loro studio e con la loro Matta Sound, un EP per nervi tesi: diretto, duro, spigoloso. Il loro Rock meticcio si tinge di sonorità Heavy quando spinge, tra batteria Hardcore Punk e voci gutturali e confuse, mescolandosi poi con inserti d’Elettronica grezza e minimale. De Morbo predilige la brevità e l’incisività al discorso composito: brani corti e sottili come graffi, che ruotano attorno a riff inquieti e testi da filastrocca.

Il prodotto, nell’insieme, non è male, ma manca ancora quel tocco originale che potrebbe invogliarci a riascoltare il disco una volta finito. Note di demerito per voce e testi, la prima che stona con l’impianto generale del loro sound, troppo teatrale e pericolosamente vicina al rischio auto-parodia, e i secondi che non brillano d’inventiva e falliscono nel tentativo di incuriosirci e andare ad approfondirli. Interessanti, comunque, “Sono Migliore di Te” e l’introduzione di “Febbre”, dove i Matta-Clast riescono ad inquietarci e a tenerci stretti con spezzoni ritmici aggressivi e dissonanze ossessive. Nel resto del disco tendono a essere più apertamente lineari (“Non Sono in Me”) e questo gli riesce peggio. Un buon tentativo, insomma, ma con ampi margini di miglioramento.

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Years Without Days feat. Athonal – DJ Set #1

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Dj Set#1 nasce dall’incontro di due emergenti della musica elettronica: Years Without Days e Athonal, rispettivamente Luigi Calfa e Simone Giudice. Insieme per la prima volta sul palco del Color Fest (8 Agosto 2013) a Lamezia Terme, nel cuore della Calabria che per ventiquattr’ore di fila ha ballato sulla musica de I Ministri, Nobraino, Giorgio Canali & Rossofuoco ecc. Una festa di colori e musica soprattutto per riscattare una terra troppe volte martoriata e sottovalutata.

Un primo featuring che lascia intendere almeno l’idea di un secondo incontro per costruire ancora quegli universi paralleli ma similari, fatti di infiniti loop e pensieri metafisici creati su idee e passaggi semplici che rendono l’elettronica minimale ma soprattutto chiarissima all’ascolto di ogni singolo piccolissimo passaggio che apre inesorabilmente un mondo fatto di sensazioni tattili in paesaggi futuristici e lontani dall’immaginario odierno. Ma anche un’elettronica che guarda ai suoni più contemporanei e atonali presenti all’inizio del Dj Set, utili a definire mondi popolati da creature misteriose e silenziose che riportano l’uomo verso il suo passato ancestrale, verde e vuoto e su una terra incontaminata che fa pensare a 2001 Odissea Nello Spazio e all’inconfondibile monolito di una nuova e inarrivabile generazione. Un lavoro semplice ed elegante che ad alto volume sprigiona una potenza che non nasconde niente. Una potenza fatta di tempi enormi, scanditi da infiniti giri di vinile. Ma soprattutto più di un’ora riempita da una tracklist invidiabile, partendo da Alva Noto, la cui musica è arrivata nei centri d’arte contemporanea più importanti del mondo, dal Guggenheim di New York alla Biennale di Venezia, passando per Ramadanman, Marcel Fengler, i Radiohead con“Good Evening Mrs Magpie” e Apparat con la Noise version di “44”.

Un Dj Set che loro stessi definiscono “fine e mirato. Samples tenuti in vita mentre breakbeats variano a suon di 2 Step e Garage con innesti di Techno. Beat-maker di professione. Il sequencer è un’utopia. Il crepuscolare si unisce al minimale, il risultato al primo EP sa un po’ di malinconico e un po’ di misterioso”. Insomma un Ep non invasivo e utile anche per immergersi in questo mondo per la prima volta.

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King Suffy Generator – The Fifth State

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Dopo il Quarto Stato arriva il Quinto. I King Suffy Generator, ispirati dalle opere del pittore e scultore Giorgio Da Valeggia, ne fanno un concept-album, strumentale, sul processo che ha portato l’uomo ad essere vittima della stessa società che aveva in passato cercato di cambiare. Da forza motrice a ingranaggio muto.

Il disco si apre con “Derailed Dreams”, tra chitarre e basso pulsanti, melodie imprevedibili, ritmiche ossessive, fino all’apertura del finale. Si prosegue con “Short Term Vision”, dalle parti dei God Is An Astronaut più intensi, o come una versione meno graffiante dei Kubark: arpeggi circolari, pulsazioni zoppicanti e atmosfere ariose, con in coda un finale perfetto, che s’inchioda nella mente con sorprendente facilità. “Rough Souls”, basata su appoggi di synth su sfondo noise, è nient’altro che una decompressione intermedia che ci porta a “Relieve The Burden”, acida e pungente, dove le chitarre predominano, alte e frizzanti, a scalare su e giù per la tastiera in riff inquieti, infestanti, e inserti ruvidi – la lezione della Psichedelia sixties viene assimilata e rielaborata attraverso il prisma del Post-Rock anni 90. Col piede si tiene il ritmo, con la testa si viaggia lontano. Il finale viene lasciato ad una coda di pianoforte e voci distanti: una nota malinconica prima dell’uno-due finale.

“We Used to Talk About Emancipation” parte con un solido impianto ritmico, furioso e asimmetrico, e finisce riprendendo l’atmosfera, incattivendola, della chiusura di “Short Term Vision”, in un corto-circuito che provoca un interessante deja vù;mentre “Tomorrow We Shall See” mantiene alta la carica energetica degli ultimi due brani e la porta in situazioni ritmiche prima ondeggianti poi martellanti, con le distorsioni delle chitarre che premono contro basso e batteria, aprendosi qua e là in scoppi o distensioni improvvise che spezzano la continuità del brano, facendolo diventare una piacevole corsa ad ostacoli che non perde però in naturalezza. Verso la fine si rallenta e si prende un bel respiro: la sensazione è quella della camminata gonfia d’ossigeno dopo lo scatto feroce per arrivare al traguardo. The Fifth State è un ottimo album di musica strumentale: Post-Rock energico, abbastanza orecchiabile, psichedelico, atmosferico. Ai King Suffy Generator manca solo qualcosa che possa rendere più personale la loro opera. Detto questo, il disco ha senza dubbio tutte le carte in regola per poterlo consigliare, senza scrupolo alcuno, a tutti gli amanti del genere.

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Palkoscenico – Rockmatik

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Napoli colpisce ancora: è un mix esplosivo di Reggae, Dub, Rock ed Elettronica quello che ci donano i Palkoscenico, nella scia dei conterranei 99 Posse e Almamegretta. Dodici tracce in levare, con ritmiche trascinanti e un impianto World che però riesce, almeno per quanto riguarda le liriche, a sfuggire alla noia del già detto, probabilmente grazie ad uno sguardo laterale che sfugge i cliché e le frasi fatte.

C’è però tutto ciò che ci aspetteremmo da un disco del genere, senza inventare granché ma collezionando ciò che serve per colpire a fondo tutto un certo target: materiale a chili per ballare, muovere la testa su e giù, canticchiare sottovoce per strada con Rockmatik nelle cuffie. È un disco solare ma critico, divertente ma con una coscienza, e sicuramente pronto a far scatenare folle festanti dal vivo.

Se non vi piace quel mondo, quel mood, è inutile andare a scavare: ma, altrimenti, Rockmatik è un disco di tutto rispetto, simpatico, confezionato sapientemente e scritto con tutti i crismi del caso. Un compagno gioviale e sincero per un’estate danzereccia.

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Machweo – Leaving Home

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Machweo significa tramonto, o almeno così ci dicono: e l’impianto di questo primo full lenght, Leaving Home, ha effettivamente un sapore crepuscolare. Machweo è un ragazzo di vent’anni, italiano, che gioca con suoni, ritmi, campioni e atmosfere, componendo un pastiche rilassato e rilassante, un vortice di riverberi ed echi che riesce a rapire il nostro ascolto con levità. Strumentale ma non appesantito da eccessivi barocchismi, il disco si snoda tra un’Elettronica Ambient Minimale che si potrebbe facilmente confondere con il Post-Rock più soffuso à la Tortoise (“The Sadness of Fire”), o con qualche episodio dei Godspeed You! Black Emperor, senza tralasciare qualche strascico Pop (andate a sentirvi la tranquillità Chillout dell’opener, “Looonely”), e qualche richiamo all’Elettronica più hip del momento (“I Love You But You Left The Cigarettes at Home” e “My Backseat”, dalle parti di un Flying Lotus, con le dovute proporzioni).

Machweo ci porta per mano qua e là nel suo mondo di atmosfere pacate e rarefatte(a volte affrontandolo come un vero e proprio percorso, come nell’uno-due di “U Stronger” e “The Bottom Of The Ocean”, dove i suoni acquei collegano e immergono ritmi di suoni percussivi alieni e semplici riff in un maelstrom di piacevole confusione), non senza lirismo (“U Sad”) o gusto per un’ossessività psichedelica in senso lato (“Bad Trip on Marijuana”).

Il suono è molto curato, ma allo stesso tempo semplice, abbordabile, in questo senso Pop (“Chase The Sun”). Ciononostante, Leaving Home rimane un disco non certo alla portata di tutti. Ma se non vi spaventa la sostanza aleatoria della musica elettronica, e non vi fate intimidire da undici brani strumentali che tentano di creare un marasma cosmico nelle vostre orecchie, Machweo vi porterà in posti curiosi e in sentieri non troppo segnati. Un viaggio da tentare.

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