La turbolenza del Mojave e la dannazione del Palm Desert prendono sostanza in questa aggressione distorta titolata “Elevator to the Grateful Sky ” dei siciliani Elevator to the Grateful Sky, quartetto fumante di prerogative desertiche in cui la componente metallica assume a tratti toni apocalittici, di quell’epicità distorta, dolorosa e sanguinante che ha consegnato alla storia recente band come Spiritual Beggars, Goatsnake e Kyuss su tutti, ma che non disdegna anche approcci a distanza con certe lancinanti ferite di stampo AINC; la band sa quello che vuole, nonostante un genere deglutito a tonnellate, sa rimettere in ascolto un calibro sonico di tutto rispetto, delirante di quella polvere sciamanica intrisa da psichedelica ottenebrante che tra giochi di melodia armata e brutalità amplificate porta l’ascolto a livelli decisamente impennati.
Sei tracce per amanti del genere e che ci fanno subito capire cosa ci sta aspettando, tracce dove l’ipnosi ed il riaggancio massimo del suono distorto recuperato, mutuato – sin dagli originali – dalla tradizione seventies, si portano addosso ancora quegli “odori divinatori” di valvolare, batterie Ludwig e compressioni per riesumare il suono più sporco che si possa ingegnare, tutte cose riproposte e che si muovono in questo album, e sinceramente non sono molti gli artisti underground che si agitano a questi livelli di eccellenza; passi pesanti, diatonici, il portamento strascicato di un varano elettrificato pare muoversi dalle bave Soundgardeniane di “White smoke”, bello il tribute della band verso gli Electric Wizard “ Electric mountain”, feroce nel suo passo stone e nero di fuliggine doom, maledetta l’identità sludge che ciondola e bastona la quadratura fagocitante di “Ganesha”, un sacco di energia sconvolgente ed accecante che colpisce senza mezze misure, una diabolica e sfrenata convulsione totale che è poi il punto di forza degli ETTGS, del loro cambio umore costante e del loro essere attori di una rappresentazione estremamente worm, da sottolineare certamente.
A fine ascolto molta sabbia te la ritrovi negli occhi e nella bocca impastata dall’ascolto, come quelle tinte claustrofobiche e vividamente irreali che ti si sono impresse nello spirito come stimmate sconsacrate.