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Blunepal – Follow the Sherpa
I Blunepal sono in tre ma spaccano il culo come fossero cinquanta. Atteso disco d’esordio Follow the Sherpa, attesissimo perché le precedenti produzioni facevamo sperare (giustamente) in qualcosa di veramente interessante. E non è la solita pappa noiosa e confezionata ad arte per inneggiare al nulla, le mode qui non c’entrano un cazzo e la musica finalmente assume un valore primario. Loro non fanno parte dei consueti venti gruppi osannati ingiustamente dagli ascolti del bel Paese, i Blunepal sono vergini e genuini come poca roba in Italia. Questo è Post Jazz strumentale caratterizzato ad esaltare le atmosfere crude e violente, nessun accenno alla tenerezza, le coccole non sono contemplate mai in questo disco. Lavoro dai coglioni quadrati punto e basta. Parliamo di un genere anni settanta modernizzato alla perfezione, per intenderci meglio viaggiano sulla stessa strada dei più noti Calibro 35, realizzando palpitanti colonne sonore di inseguimenti polizieschi all’ultimo respiro.
Follow The Sherpa non lascia mai pace all’ascoltatore, il ritmo è sempre super tirato e il volume non dovrebbe mai scendere sotto la distruzione dei timpani, “And There Were Three” rilassa il corpo per poi sperderlo lungo traversate Post Rock. “Rabbit” di cui esiste un video ufficiale devasta subito la mente con improvvise sterzate e colpi d’effetto. Energia da vendere fino alla particolare “Youzi”, adesso riesco a distendere i muscoli sotto il massaggio di riff pacatamente Jazz. La pace dei sensi non era ancora di mia conoscenza fino a questo momento. Ambient corrotto e minimalista nella concentrica “Fake”, il basso dirige lentamente tutti i miei movimenti portandomi esattamente dove vorrei essere in quel preciso momento. E quando prima parlavamo d’inseguimenti cinematografici non era per caso, prendete una serie d’azione degli anni ottanta e buttateci dentro “Into The Cinema”, è tutto quello che si potrebbe richiedere da una perfetta colonna sonora. E se pensate che tutto questo sia surreale non avete ancora centrato le potenzialità dei Blunepal. Non poteva mancare l’omaggio al re delle colonne sonore per eccellenza, un brano intitolato “Morricone” non ha bisogno di ulteriori spiegazioni e commenti, la dolcezza e la volgarità di una corposa colonna sonora. La chiusura del disco è affidata a “Tomorrow Never Knows” dei Beatles, ri-arrangiata ed eseguita per dare l’idea netta di un omaggio e non di una banale cover. Forse ho trovato qualcosa di veramente valido nella musica del trio genovese Blunepal, la stanchezza della solita musica sembra ormai un lontano ricordo, loro sanno accaparrarsi l’attenzione con brani quasi interamente strumentali, sembrano reggere alla grande il confronto con i mostri sacri del genere. Follow The Sherpa entra timido nel mio lettore ed esce raggiante come non mai, questa è musica forte, i Blunepal suonano cose d’avanguardia senza essere secondi a nessuno. Cercateli dal vivo dove sicuramente saranno fenomenali e comprate questo disco, il migliore del duemilaquattordici fino a questo momento. In queste poche situazioni sono fiero di essere italiano.
Rich Bennett – DiBenedetto
Ve lo dico senza mezzi termini e senza girarci troppo intorno. L’Ep DiBenedetto, che marchia il ritorno sulle scene dell’artista statunitense Rich Bennett, è quanto di più insoddisfacente mi sarei atteso di ascoltare, viste anche le intriganti premesse che narrano del suo viaggio in Sicilia alla scoperta delle sue origini (Di Benedetto sarebbe proprio il suo cognome primigenio) e quindi della posa in musica di tutto quanto questo trip introspettivo e corporeo nello stesso tempo ha provocato nella sua anima tormentata ma vitale, attraverso l’uso del primo amore, la chitarra. Rich Bennett è artista poliedrico e mai apatico, come dimostrano le sue tante esperienze e le sue diverse collaborazioni (si prenda ad esempio la presenza come tastierista nella band Dream Pop di Brooklyn dei Monocle) eppure, in quest’opera, poco sembra trasparire della natura caleidoscopica che l’ha visto cimentarsi con una varietà stilistica e di generi non indifferente.
Pur se suggestionato, per sua stessa ammissione, da geni del calibro di Bob Frisell, Robin Guthrie e David Sylvian, nell’Ep che potremmo definire omonimo in un certo senso, manca compiutamente la parte più sperimentale, audace, temeraria che esalta i lavori soprattutto degli ultimi due sopra citati e tutto si risolve in quattro brani, interamente strumentali, che provano a musicare un’ideale pellicola nostalgica, nello stile Easy Listening di Burt Bacharach e con un vano sforzo di attualizzare il tutto, attraverso un’elettronica a metà tra Stereolab e Delia Derbyshire. Quattro brani più uno, l’opening “Il Grande Silenzio”, arrangiamento del pezzo del maestro Ennio Morricone, non troppo celato e cardinale punto di riferimento di Rich Bennett, almeno per quest’occasione. Da non trascurare la presenza del musicista newyorkese Jesse Krakow, nel brano “Narcissus”.
Come potrete afferrare, ogni cosa lascerebbe supporre un grande Ep ma le attese sono quanto di più lontano dalla realtà possiate immaginare. Nessuno dei cinque brani, esclusa la cover, riesce a evocare la magia delle terre del mezzogiorno, neanche uno è capace di creare mondi lontani, dimenticati e neppure di eccitare semplicemente. Tutti i brani scivolano stancamente nella noia e in un oblio che si fa pressante, nell’impotenza di un sound spoglio, senza voler essere nudo. La semplicità è pregio e qualità essenziale per chi voglia raggiungere presto il cuore di chi ascolta ma quando diventa banalità, quello che resta davvero è solo il silenzio dopo l’ultima nota.
Rivoluzioni musicali in mostra alle OGR di Torino
Quando si parla di musica, ognuno ha senza dubbio i propri riferimenti, i propri miti, le stelle polari che lo guideranno lungo il corso della propria esistenza ,in lungo e in largo, a destra e manca, forever and ever, “finché morte non vi separi”. Alcuni di questi miti, però, non fanno solo parte del nostro universo musicale, ma sono delle vere e proprie pietre miliari della storia della musica, simbolo di un’ epoca, esempio per le generazioni future ed esponenti di rivoluzioni che hanno deviato il corso della storia stesso. Ed è proprio a questi Dei dell’Olimpo musicale che fa riferimento Alberto Campo, curatore della mostra fotografica Transformers – Ritratti di Musicisti Rivoluzionari, allestita presso i Cantieri OGR di Torino e visitabile dal 28 settembre al 3 novembre 2013. Il filo conduttore che la caratterizza è quello della “Trasformazione”, tema tanto caro alle ex Officine Grandi Riparazioni Ferroviarie (una delle ultime testimonianze della storia industriale della città), oggetto di un recente restauro che le ha restituite alla popolazione torinese sottoforma di “Cantieri Culturali”, sede di eventi musicali, teatrali, mostre, fiere ecc.
Ed eccoli allora sfilare uno per uno i Grandi della musica, in una serie di scatti che li ritrae durante la loro vita di artisti (con una predilezione per quelli realizzati durante gli eventi live) e di comuni mortali; un richiamo all’idea della “Trasformazione” come trapasso dalla dimensione pubblica a quella privata. Le fotografie sono attinte dal vasto bacino messo a disposizione da Getty Images, ed abbracciano sessant’anni di musica (dall’avvento del Pop negli anni ’50 all’era del web e delle tecnologie digitali odierne); il sottofondo musicale è una lunga colonna sonora composta da canzoni-simbolo degli artisti considerati. Campo fa cominciare tutto con Elvis (e come dargli torto!), opportunamente inserito nella sezione “Origini della Specie” e fotografato durante una delle sue celebri mosse di bacino. La seconda tappa porta il titolo de “l’Invasione Britannica” ed i protagonisti non potevano che essere Beatles e Rolling Stones, considerati perennemente in antitesi. Gli anni ‘60 si tingono anche di Folk e dei ritratti di un giovanissimo Bob Dylan, che con la sua “Blowin’ in the Wind”, cantata come inno di chiusura dei comizi di Martin Luther King, diviene il rappresentante della “Canzoni di protesta”, mentre Miles Davis e James Brown lo sono del Jazz e del Soul-Funky nella sezione “Black Power”. Si conclude un decennio e ne comincia uno nuovo, segnato dall’ “Utopia Hippie” che vede i suoi massimi esponenti nei Doors e in Jimi Hendrix (immortalato mentre dà fuoco alla chitarra elettrica durante il festival di Monterey), mentre il Transformer per eccellenza, David Bowie (nelle vesti di Ziggy Stardust) trova posto nella sezione “Rock a Teatro” insieme alla primissima formazione dei Velvet Underground (fotografati con l’immancabile Andy Warhol ), quella di cui faceva parte anche la splendida Femme Fatale Nico, immortalata in un primo piano stupendo, mentre indossa una maglietta riportante la scritta Fragile. Nella sezione “gli Outsider” si piazzano Tom Waits e Frank Zappa, mentre l’unico artista italiano preso in considerazione, Ennio Morricone, non poteva che collocarsi nella sezione “la Musica Come in un Film”. Passano gli anni, cambia il modo di far musica, che diventa “definitivamente prodotto dal vivo su larga scala”: Led Zeppelin e Pink Floyd sono esempio dell’ avvento dei grandi concerti che riempiono gli stadi. Dall’altro capo del mondo, sempre in quegli anni, “One Love”, Bob Marley si faceva portavoce di un nuovo genere musicale: il Reggae. Altra rivoluzione musicale degna di nota in quegli anni è il Punk, rappresentato nella sua forma più grezza dai Sex Pistols (lo scatto che ritrae Johnny Rotten nel tentativo di armeggiare un paio di forbici enorme parla da sé) e nella sua forma più colta da Patti Smith, la sacerdotessa del Rock che sembra non aver alterato con gli anni l’espressione che ha in volto mentre canta. Gli anni ‘80 sono quelli dell’ Hip Hop dei Beastie Boys, del re e della regina del Pop: Michael Jackson e Madonna. Gli anni ’90 segnano una frattura col decennio precedente grazie all’avvento del Grunge e dei Nirvana: il primo piano di Kurt Kobain troneggia in sala (forse è una delle immagini più belle della mostra), mentre ha in mano la chitarra che riporta la scritta “Vandalism: beautiful as a rock in a cop’s face”. La mostra arriva fino ai giorni nostri, e si conclude con l’ “Evoluzione della Rockstar” verso una musica sperimentale e ricercata, i cui esponenti sono rappresentati da Björk e Radiohead (riconoscere una foto scattata durante il loro ultimo tour del 2012 ti fa sentire fiero di esserci stato) per chiudersi definitivamente con l’avvento della musica elettronica dei Kraftwerk e dei Daft Punk nella sezione “Technologia”.
I grandi assenti? Tanti, ognuno sicuramente troverà qualche suo “mito” mancante all’appello. In ogni caso, non è un buon motivo per privarsi di questa mostra, che non è una semplice esposizione fotografica, ma un viaggio visivo e sonoro indietro nel tempo, verso tappe della storia e rivoluzioni musicali compiute dai musicisti che tanto amiamo. Allacciate le cinture, si parte.
Fonti: http://www.ogr-crt.it/events/transformers-ritratti-musicisti-rivoluzionari/
Cabeki – Una Macchina Celibe
Cabeki è compositore d’altri tempi, uno di quelli che riesce a concepire la musica anche senza il bisogno di un testo letterario che supporti il significato. I brani di questo lavoro, Una Macchina Celibe, sono tutti quadri di pura musica strumentale, che si susseguono senza soluzione di continuità in un unicum guidato solo dal programma, per usare un termine più vicino alla musica colta che a quella Pop, esplicitato nei titoli. Frasi ispirate al dadaista Alfred Jarry, con frequenti riferimenti alla tecnologia, che, a dire il vero, forniscono più suggestioni che spiegazioni. Come del resto è giusto che sia.
L’intro orchestrale e arioso di “Se Quest’Uomo Diventasse un Meccanismo”, aleatorio nella scansione temporale e impalpabile, con un rimando immediato ai Sigur Ros, lascia spazio a chitarre acustiche rese caldissime dalla percezione dello scorrimento delle dita sul manico dello strumento. “Il Necessario Ritorno” è prepotentemente cinematografico, un omaggio a Nino Rota, con uno sguardo oltralpe alle composizioni di Yann Tiersen. La terza traccia, “Verso il Ronzio Remoto”, è una delicata e didascalica composizione in cui la chitarra, ancora una volta, spadroneggia con echi della sua tradizione classica. “Di un Ingranaggio Che si Perde” arriva da lontano e sa di Medioriente, a tratti Rock, mentre sembra il Sud l’ispirazione di “Fra Elettrodi di Seta Blu” e l’estremo oriente invece pare guidare idealmente “Negazioni che si negano”, seppure i cori ariosi che seguono immediatamente l’introduzione, suggeriscano ispirazioni carioca. Cabeki ci accompagna in un viaggio che è geograficamente orientato e che lascia trapelare tutta la gamma emozionale che il cammino porta con sé, come nel caso del tono riflessivo di “Alla Banalità di un Valore” o dello smarrimento psichedelico -e molto didascalico considerato il titolo- di “La Bellezza Pura e Sterile Della Semplice Ruota”. “La Diapositiva si Ricorda” richiama i Beirut e i Mogwai, mentre “L’Ultimo Degli Uomini” allontana nuovamente la percezione ritmica per concentrarsi tutta sulla melodia, strizzando l’occhio con veemenza a Ennio Morricone. Un disco per tutti, elegante, raffinato e mai scontato, veramente da sentire.