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“Diamanti Vintage” Alice Cooper – Hey Stoopid
Non si sapeva quasi più che fine avesse fatto il suo circus en travesti e i suoi incubi in cellophane eppure l’album Trash di appena due anni prima aveva riscosso un tremendo successo e lo aveva rimesso, ricollocato, sulle vette alte dell’Olimpo dei Grandguignol d’eccellenza, infatti, oramai a speranze zero, manco a dirlo Alice Cooper ricompare tronfio e con un bel disco, “Hey Stoopid” ennesimo capolavoro della sua arte “mostruosa” e trash che molto a dato nel rock d’ogni tempo.
Il suo è un mondo elettrico di paura, sangue, sesso e rock incandescente, hard-rock, metal e street-glam che si innestano e s’incrociano, chitarrismi impazziti e ballate da accendino acceso da sempre fanno parte della scena dell’artista di Detroit e che hanno scatenato nel tempo a venire la fantasia di tanti altri che ne hanno assimilato, se non copiato, mosse ed intenti (tra tutti Marylin Manson). Nel disco – molto più ammorbidito dei grandi successi passati – è un compendio di immediatezze, hook e giochi sonori, un venire incontro alle nuove esigenze che il pubblico rock vuole sentire, non più sussegui, stupri e violenze declamate, ma un Cooper più riflessivo, un artista che vive una seconda giovinezza e che gode di una produzione altolocata. Con lui in questa avventura un parterre paradisiaco di chitarre, Slash, Stef Burns, Vinnie Moore, Steve Vai, Joe Satriani e alle voci Rob Halford, Dave Mustaine e Sebastian Bach, uno spettacolo nello spettacolo e che innalza il disco a livelli stratosferici se consideriamo che al basso troviamo anche un mitico Nikki Sixx dei Motley Crue.
Ballate, melodie amplificate, rock’n’roll schizzante e rinascita artistica per il mitico Vincent Damon Furnier, l’Alice Cooper mondiale, questo Hey Stoopid – che negli States è stato un flop clamoroso – nel resto del globo ha venduto milioni di copie, ma ogni profeta non è mai riconosciuto in terra propria cita un vecchio detto, e Cooper guarda dritto a trasmettere la sua goliardica energia, il suo show truculento e memorabile; tra i brani i più graffianti il fuoco incrociato di “Feed my Frankestein”, la dolce power ballad “Love’s a loaded gun”, la tripletta scottante “Little by little”, “Snakebit” e “Dirty dream” e tutto un insieme di sensazioni notturne che se non ti fanno tremare, perlomeno ti fanno guardare costantemente alle spalle.
Spalancate i vostri orecchi a questo album e a questo “mostro” leggenda vivente.
http://www.youtube.com/watch?v=6vBx-1r4xYY&feature=youtu.be
“Diamonds Vintage” Carole King – Tapestry
Questa ex prodige girls, poi ex moglie di Gerry Goffin con il quale scrisse pagine memorabili di songwriter pop che sbancarono, per ugole d’altri, hit e charts lungo l’ossatura sghemba degli anni 70, decide un giorno di riprendersele quelle canzoni e di fissarle in un disco immortale e miliare al quale si attingerà sfacciatamente da parte di tante eroine a venire. Carole King, ragazza/donna di New York, hippies acqua e sapone e tenera pianista, con il suo Tapestry del 1971 diventa – nel frangente – la bandiera vivente della protesta soffice e di emancipazione della donna libera, del corpo e dell’amore autodeterminato – e per la storia, la più alta espressione cantautorale female americana. Nonostante i successi scritti per gli altri, la King è una “novizia” come figura fisica, non identificata nell’immagine al grande pubblico, anche per una sua terribile timidezza, ma ben presto la familiarietà del suo temperamento umano e sonoro, la sua fragilità di donna e la forte genuinità espressiva, la renderanno icona dell’intimità di pensiero e causale di riscatto da una società grossolana e dal fiato corto. E il disco centra al millimetro la gloria discografica – sei anni in classifica ovunque – e la risposta a tutte quelle aspettative utopiche e modello di base da seguire. La critica si spella le mani per questa cantautrice uscita definitivamente allo scoperto e le canzoni contenute in questo Tapestry, già esaltate dalle doti vocali di Aretha Franklin (You make me feel (A natural woman), James Taylor You’ve got a friend o It’s too late – splendida ballata sulla quale si accapiglieranno in futuro per reinterpretarla Quincy Jones, Celine Dion e altri noti personaggi, si riprendono l’ulteriore splendore originario della serenità di quel piccolo loft con vista sull’Hudson dove tra un tè cinese e la compagnia di un gatto affettuoso furono state scritte. Raffinatezza e semplicità con soffici maculazioni jazzy accompagnano le tranquille confidenzialità di Tapestry, So far away, il leggero tremore di I feel the earth move o il soul caldo di Way over yonder; pietra filosofale per tante cantautrici “della confidenza” Fiona Apple, Tori Amos, Sheryl Crow, Natalie Merchant e Suzanne Vega, Tapestry rimane la punta acuminata e solitaria della carriera “in solo” di Carole King, tutto poi si affievolerà intorno a questo fenomeno tutto al femminile, anche se le sue canzoni oramai fanno parte dell’arredo insostituibile di questa, di quella e dell’altra “parte del cielo”.