Experimental Rock Tag Archive
Aurelio Valle – Acme Power Transmission
Leggendo la biografia di Aurelio Valle, scopro che non c’è nulla di quello che vi sareste aspettati. Innanzitutto non ha una folta barba da intellettualoide. Non è un giovane cantautore romano in vena di ironia sulla nostra società. E non possiede l’esuberanza del titolo curioso che è ha dato al suo disco solista. Aurelio pare avere origini messicane ed altri non è che il cantante/chitarrista dei Calla, Indie band statunitense che è partita nel 1997 dal Texas per approdare (già qualche anno fa) a New York City. Ma nonostante lo stupore iniziale nel sentire questo Post Rock molto d’atmosfera (invece di allegre schitarrate acustiche) questo disco non morde le mie orecchie. Acme Power Transmission è il frutto di anni di studio e di lavoro. E si sente. Un disco di ricerca, dove i suoni trovano il loro spazio, il loro posto nel mondo. Ma alla fine di ogni pezzo rimango sempre con un “ma”. Spesso la produzione (eccessiva?) prende il sopravvento sulla bellezza di brani che nudi e crudi sarebbero più sinceri e diretti, meno cervellotici. Più elaborato, meno semplice e anche meno Rock delle produzioni dei Calla che già fanno della sperimentazione sonora uno dei loro cavalli di battaglia. Le differenze si palpano subito con le distanti e scarne rullate di “Bruised and Diffused”. Il suono invade lo spazio, uno spazio buio, notturno. Conquista tutta la stanza e le pennate sulla chitarra sembrano arrivare dagli anni d’oro della New Wave. In “Deadbeat” l’Elettronica si intreccia ad un Rock dal sapore Novanta che purtroppo non sfocia in un ritornello degno della produzione certosina.
Il disco di Aurelio è più un’esperienza visiva che sonora e all’aumentare degli ascolti si catturano sempre più sfumature. Le praterie notturne di “Cowboy” vengono illuminate da synth che sembrano fuochi distanti, mentre l’incalzare del rullante (circondato da un ordinato noise) ricorda un vecchio film western: cavalcate polverose in lande desolate. La musica compone ancora le sue immagini in “Electraglide”, uptempo che cresce con costanza e pare sonorizzare una notte tormentata e sudata. Il pezzo sembra durare un’eternità ma questo episodio non stanca, e soprattutto risolve la carenza di Pop grazie alle soavi note incastonate nella voce di Nina Persson dei The Cardigans. Il disco chiude i battenti con la sussurrata “Lost Again”. Il suono avvolge, osserva, descrive, si modella lentamente ma non mangia, non attacca. Si fa ammirare, da vicino, come un gigantesco affresco che rimarrà nel tempo e non ha alcuna intenzione di sbiadire.
Gustoforte – La Prima Volta (Ristampa 1985)
Nei primi anni Ottanta, nella capitale poteva capitare di incappare, in qualche negozio di vinili o chissà dove, in uno strampalato lp con copertina di lamiera piegata in due parti, agganciata grazie a un bullone e con una scritta di vernice nera: GustoForte. Niente di più era risaputo di quello che significasse o racchiudesse ma la curiosità doveva essere tanta in chi incrociava quell’epigrafe. In verità non molti perché quel vinile fu pubblicato da un editore francese di musica anticonvenzionale (RatRace Records) in sole duecento esemplari. A metà degli anni Ottanta, girovagando per Roma, nei suoi parchi, nei suoi spazi sociali, seduti a una panchina o entrando in una vecchia cabina telefonica poteva accadere di trovarsi tra le mani piccole opere d’arte che a prima vista non lo sembravano affatto e che parevano essere state abbandonate da persone sbadate o bramose di disfarsi dell’arma del delitto con la voglia di essere beccate.
Alcuni musicisti dai nomi anonimi per i più (Roberto Giannotti: vocals, drum machine, simmons drums, emulator, tapes; Francesco Verdinelli: electric guitar, casiotone, obx a, tapes; Stefano Galderisi: bass, farfisa, tapes) e provenienti da realtà molto distanti (chi dalle prime esperienze di field recordings, chi dal Punk e chi dalle soundtrack) decidono di capovolgere ogni schema precostituito e iniziano a registrare opere magmatiche, complesse e amorfe, nel più estremo stile Noise e Lo-Fi e lasciano queste incisioni, spesso insieme a opere figurative di diverso tipo, nei luoghi più svariati, aspettando di vedere “l’effetto che fa”. In realtà la cosa non fa alcun effetto apparente, Roma continua per la sua strada e quello che si trasforma è celato solo nelle piccole vite di quei pochi, miseri uomini che hanno avuto la fortuna di dissotterrare una di queste gemme (tra cui il loro secondo lavoro, Souvenir of Italy / La Merda che Fuma ri-stampato, proprio un paio di anni fa) o di partecipare a una delle uniche due performance live tenute in quegli anni dai GustoForte.
A distanza di tanti anni e con uno schieramento rinnovato, la band (autodefinita italian antipop group) si ritrova senza un movente inequivocabile se non quello di “rompere i cojoni” e per suggellare questa riacquistata verve creativa, l’Editore in Modo Moderno (Plastica Marella) recupera le tracce di quel full length denominato sobriamente La Prima Volta e crea una riedizione che non ha più il fascino della lamiera e della vernice nera, ma mantiene intatto il sex appeal di una musica che suonava sperimentale trent’anni fa, tanto quanto suona avanguardistica oggi. Il vinile trasparente 180 grammi che gira ora nel mio impianto si compone di sette tracce (ben definite a differenza del successivo Souvenir of Italy / La Merda che Fuma in cui i brani suonano deformi e liquefatti, adatti maggiormente a essere riprodotti in luoghi inusuali come teatri o gallerie d’arte che non a vibrare nelle casse di casa), quattro pezzi nel primo lato detto maschio, “S. Antony Chain”, “Steel Walk”, “Assembly Line” e “Evry Courcouronnes” e tre nel lato femmina “Factory Ab Absurdo”, “Ask Me a Dream” e “In Memory of Maurizio Bianchi”. Ospiti per l’occasione La Donna (vocals, tapes), Marie Journò (Apple 2E programming in “S. Antony Chain”) e “Alì Mahhmud El Quaharr” (vocals).
L’opera, registrata trent’anni fa presso gli studi di Roma Pink Music Studio e rimasterizzata da Filippo Bussi negli studi Tweedle Music, è un tripudio di sperimentazione oscura che vi sorprenderà per la sua capacità di anticipare la Dub Techno berlinese di Basic Channel, la Dark Ambient di Demdike Stare e l’Electronic Noise dei Black Dice; il Post Rock attraverso l’analisi della New Wave, dell’Industrial figlia dei Throbbing Gristle, tutto condito con reminiscenze del Krautrock di Faust e Neu! oltre che con inflessioni elettroniche di kraftwerkiana memoria, psichedelia cosmica e tutta una serie di “provocazioni” rumoristiche che, all’epoca dovevano stupire per sfrontatezza ma che oggi hanno la capacità di suonare avanguardistiche e vintage al tempo stesso, senza dare alcuna minima idea di vecchio. Ascoltare sul finire del 2013 l’opera prima dei GustoForte lascia un sapore impossibile da trovare in opere attuali e conserva nelle orecchie lo stesso stupore che potreste immaginarvi balenare nella mente alla vista della più grande opera d’arte di un qualsiasi grande artista del passato, scoperta tra le cianfrusaglie della vostra cantina. E per questa sensazione c’è da dire grazie a Plastica Marella, una delle non tantissime etichette coraggiose che resistono in questa penisola dalla memoria corta.
KK Null, Israel Martinez, Lumen Lab – Incognita
Vi avverto che non vi sarà sufficiente rintracciare qualche stralcio sul web, scaricarne versioni a risoluzioni indegne o leggere questa recensione per afferrare fino in fondo di cosa si tratti. Vedete di recuperare il Cd perché l’unico modo di goderne esaurientemente è ficcarlo nel vostro stereo, spegnere le luci, mettere su le cuffie e alzare a volumi tollerabili, una tacca prima che comincino a sanguinare le orecchie.
Kazuyuki Kishino e i fratelli Martinez sono gli artefici di tale gioiello Ambient Noise e che ci fosse lo zampino di qualche “fottuto giapponese” mi era parso se non inconfutabile quantomeno plausibile già dal primo ascolto. Il Giappone che incrocia il Messico (forse è ora che cominciate a prendere sul serio i messicani in quanto a Elettronica, se Murcof non vi era bastato) di stanza in Germania sembra garanzia di un prodotto eccezionale in chiave Avant Electro Noise e, con sommo dispiacere per gli amanti dei colpi di scena, le cose stanno esattamente cosi. Dalla capitale nipponica, KK Tull incontra Israel Martinez e insieme iniziano a condividere e adoperarsi su insoliti suoni elettronici e registrazioni, scrutando nuove strade di sperimentazione che li indurranno a miscelare sessioni improvvisate, incisioni ambientali e processi elettroacustici computerizzati.
A questo punto il messicano sceglie di chiedere l’apporto di suo fratello Diego, meglio conosciuto come Lumen Lab (a dire il vero anche Israel era parte del progetto fino al 2002). Il lavoro procederà per mesi a sei mani fino a Incognita, il disco in sei tracce che si scoprirà non solo come un miracolo di Ambient Noise, Experimental Rock, Avantgarde e quant’altro; non solo come il palesarsi delle possibilità umane quando il genio, le qualità, le capacità di diversi soggetti s’incontrano e non solo come un crocevia geosonico che lega Giappone, Germania e Messico, mescolandone le peculiarità sonore moderne.
Il Giappone ha una tradizione Noise ed Experimental che un paese come l’Italia non raggiungerà neanche nei prossimi cento anni di vita. Partendo da Yoko Ono, si finisce con disinvoltura a nomi eccelsi, come Boredoms, Kazumoto Endo, Keiji Haino e tanti altri. Il Messico, come abbiamo capito, è la nuova frontiera della musica Elettronica e il ruolo della Germania non ha bisogno di spiegazioni.
L’album è strepitoso per motivi molto elementari. Per prima cosa, l’ascolto di queste quattro tracce senza nome (i titoli sono semplicemente numeri progressivi da “1” a “4”) si è un’esperienza sensoriale sovrumana. Udendo in cuffia, vedrete una molteplicità di suoni levarsi, slanciarsi da un emisfero all’altro del cervello, disgregarsi, ricomporsi, ingrossarsi eppure, nonostante si tratti per gran parte di sonorità antitetiche a quelle del classico Pop e Rock e allo stesso modo lontane dall’elettronica più ballabile, mai i vostri neuroni accoglieranno le vibrazioni come cacofonico rumore (solo il brano “2”, e la seconda parte di “3” metteranno seriamente alla prova i meno abituati a certe note “altre”), ma tutto batterà come un fluire naturale, inquietante ma allo stesso modo distensivo, che talvolta evoca angoscianti paesaggi claustrofobici e spaziali al tempo stesso (come in “3” e “4” ma non solo), grande contraddizione dei viaggi interstellari, ma anche industriali (in “3” sembra di ascoltare una motosega ma non è l’unico momento di questo tipo) mentre in altri si rende al mondo naturale. Nel finire del brano “1”, un minaccioso drone in crescendo è stravolto da sciabordii acquatici d’indefinibile provenienza, che, grazie a un lavoro di mastering pazzesco, creano una sorta di vuoto nell’ascoltatore, quasi da far mancare il respiro, fino al manifestarsi di cinguettii iperrealisti in contrapposizione con suoni che evocano echi da spelonca. Altra grande peculiarità di Incognita è che, nonostante il ruolo centrale sia affidato ai droni e nonostante i brani siano di lunghezza superiore alla media, il suo ascolto scivola via con naturalezza, senza suonare mai ripetitivo, noioso, ridondante, eccessivo, tanto da richiederne una fruizione ripetuta, quasi come in una sorta di assuefazione.
Incognita (disponibile anche Terra Incognita, un’edizione limitata in vinile) è un album riflessivo ma non tedioso, oscuro ma non demoniaco, un album che non solo racchiude diverse esperienze musicali ma che racconta una storia d’amore a quattro tra le nature umana, terrestre, celestiale e un’intelligenza artificiale.
Deadburger Factory – La Fisica delle Nuvole
Non c’è modo di parafrasare esaurientemente tutto il mondo che c’è dietro al progetto Deadburger.
Continue ReadingPsychodeus – An Ode to The Numinious EP
Premettendo che a me ciò che spesso suona strano e sperimentale piace, devo dire però che io dei Psychodeus non c’ho capito nulla. Non ho compreso una parola di ciò che viene cantato (nonostante sia un cantato recitato, quasi da comizio) e che il mix di suoni elettronici/acustici è a mio parere una pasta che ancora si deve amalgamare. Troppo caotico il tutto insomma, e troppi sono i generi che la band mischia senza riuscire ad ottenere un suono che li differenzi e li renda riconoscibili. Nonostante l’accozzaglia di suoni, le batterie Hardcore e le calme pause che preannunciano un malefico e cattivo futuro, bisogna riconoscere l’originalità di questi giovani napoletani nello scegliere i nomi delle tracce e riuscire così in questo modo a dare un senso a quello che si ascolta. Infatti l’Ep An Ode to the Numinious si compone di due tracce (che in realtà sono cinque e vi spiego tra poco il perchè). La prima, “Maelstrom”, inizia con un fischio acuto e disturbante che ti entra nel cervello creando fastidio e sgomento ed il titolo della traccia dunque descrive perfettamente le sensazioni che il brano suscita, ma è con il secondo brano, “Ceremonies of Passage”, che il collegamento tra titoli e musica prende definitivamente forma. La traccia di ben 15 minuti, viene suddivisa infatti in quattro parti, i quattro passaggi da celebrare per coronare i momenti essenziali che ogni persona deve affrontare durante la propria esistenza. Quindi abbiamo la pre-nascita, la post-nascita, l’età adulta, e per finire la post-morte. Si nasce, si cresce e si muore, dunque si vive. E questo è il loro modo di “celebrare il passaggio”.
Per chi volesse, An Ode to the Numinious è scaricabile gratuitamente da qui.
Powerdove – Do You Burn?
Veramente un disco complicatissimo questo Do You Burn? dei Powerdove, in altre parole Annie Lewandowski (voce e chitarra), Jason Hoopes (basso) e Alex Vittum (percussioni). Nati come depersonificazione artistica della vocalist, la formazione germogliata in California diventa un trio solo in seguito alle prove soliste del talento del Minnesota e, a pochi mesi dalla trasformazione (nel 2009), pubblica il primo full lenght intitolato Be Mine. A quattro anni di distanza la potenza creativa di Annie Lewandowski evolve fino al sound di Do You Burn? che si rafforza della presenza di Thomas Bonvalet (armonica, banjo, feet and hand clappin, concertina, ecc…) e di John Dieterich, attuale chitarrista della storica band Indie/Pop Noise di San Francisco Deerhoof e qui in veste anche di bassista. Oltre a queste partecipazioni eccellenti, l’album è pieno di altri ospiti che rafforzano il peso artistico di Do You Burn?. Si va dalla presenza in fase di registrazione di Ben Piekut, saggista, musicologo e insegnante per la Columbia University, fino alla palese influenza di Shelley Hirsch, tra le più importanti esecutrici vocali della moderna Big Apple, citata oltretutto, per non tenere la sua influenza troppo nascosta, all’interno del libretto, con la frase “ho voluto essere dentro la musica…dove sono i ragazzi.”
Un lavoro complesso dunque, eppure non eccessivamente ostico se non per i meri fruitori del mainstream. La classica forma canzone non è proposta in maniera lineare tuttavia, specie nella parte vocale; si possono percorrere parabole melodiche precise, eleganti, raffinate e ben tracciate. Le parti più sperimentali sono limitate a rumoristiche intromissioni soniche di strumentazione inusuale (“Fellow”, “Under Awnings”, “California”, “Wondering Jew”) o a intermezzi psichedelici e spiazzanti (“Aldeer Tree I“). Non mancano brani più classici, nei quali la voce si manifesta in tutta la sua bellezza e, sia la sezione ritmica sia le chitarre, creano atmosfere delicatamente gioiose e vibranti di vita (“Love Walked In”) anche nel loro essere pseudo cacofoniche alla maniera di Daniel Johnston o felici come la malinconia di un ricordo (“California”, Flapping Wings”, “Out Of The Water”). Non pochi i brani gravosi, nel senso emotivo del termine, quando la voce Annie Lewandowski, diventa la triste protagonista sul background di note minimali, scomposte come schegge impazzite e piangenti (“Red Can Of Paint”, “All Along The Eaves”, “Out Of The Rain”, “Wondering Jew”). Tutto il disco, inoltre, tiene sospesa un’aura magnetica che riporta la mente a una grande protagonista dell’avanguardia rock degli anni d’oro di New York City. Ascoltando la title track “Do You Burn?” non si può non rievocare la voce e l’impostazione cupa, dark, magicamente inquietante di Nico, leggendaria componente dei Velvet Underground, che qui appare nella nostra memoria più per i suoi lavori solisti come Desertshore.
Un’opera che dunque lega in maniera netta melodie e timbriche aggraziate, con atmosfere fosche e deliri Lo-fi/Glitch riuscendo a proporsi come qualcosa di multiforme senza creare alcun muro con ogni tipo di ascoltatore che voglia cimentarsi con Do You Burn?. La stessa durata dei pezzi (considerate che le tredici tracce sono divise in trentuno minuti) è evidentemente un elemento teso a non distogliere l’attenzione dell’ascoltatore e a non generare timore o sconforto. Do You Burn? è un disco che sa emozionare ma ha bisogno di uno spirito aperto che sappia accogliere il suo splendore per non restare solo un disco tra i tanti.