Perché un artista islandese dovrebbe narrare in note terre tanto lontane fisicamente e idealmente? La risposta è nella definizione che Stephan Stephenson (suo vero nome) si è cucito sulle spalle: lui è un carpentiere emozionale e in quanto tale non può che superare ogni sorta di limite per costruire addosso a ognuno di noi l’emotività voluta. Se a qualcuno il nome President Bongo non ha detto nulla, considerando anche che questo è un disco d’esordio, il succitato nome di battesimo dovrebbe ricordarvi una band fondamentale per l’Elettronica nordica che si è sviluppata dai Novanta. Il nostro President è stato, infatti, dalla formazione al 2015 uno dei membri dei GusGus, band di Reykjavik che ha brillantemente esplorato territori vasti dall’House alla Techno, dal Trip Hop all’Elettronica passando per il Pop più “sintetico”.
Se non lo avete capito dall’incipit, Serengeti (disco uscito nell’ottobre 2015 ma, in edizione italo-francese con bonus, nel 2016) narra dell’Africa e, più nello specifico, dell’annuale e mastodontica migrazione dei mammiferi nella regione orientale del continente, raccontando attraverso una miscela molto aderente al concetto dell’opera, la ciclicità eterna di tale spostamento, in apparenza sempre uguale a se stesso ma in realtà ogni volta difforme a causa di diverse condizioni climatiche e non, piccole variazioni che rendono ogni esperienza unica. Quasi a esprimere e ampliare uno dei concetti fondamentali di Eraclito, President Bongo vuole esprimerci tutta la forza del mutamento, del cambiamento e del divenire anche quando l’apparenza sembra suggerire un’illimitata reiterazione del momento.
Per esprimere tutto questo, l’artista islandese sceglie strumenti tutto sommati simili a quelli usati nel progetto GusGus ma il risultato è certamente differente, molto più teso verso un’Ambient e un’Elettronica old style, di chiara ispirazione Eno e con elementi etnici e Afro Jazz che tanto ricordano i Dead Can Dance, oltre ad elementi Folk, Blues e Neo Classic (“Levante”) ed è proprio questa varietà che finisce per fare da legante tra le terre gelate del nord e il Serengeti.
Nonostante i pezzi siano stati scritti tra paese d’origine, New York e Berlino, il riferimento al continente nero non è solo frutto del suo ingegno ma deriva anche dall’esperienza che l’autore ha fatto su queste terre cariche di vita e musica ancestrale; e la scelta di questa terra è anche un omaggio alla sua musica che in fondo è la genesi di tutto quello che abbiamo oggi.
In atto di ossequio all’Italia, gli otto brani che rappresentano un diverso momento di questa grande migrazione, a volte attimi, a volte intere giornate, hanno tutti il nome di venti italiani (l’autore è affascinato da come ogni nostro vento prenda nome diverso secondo la provenienza cardinale) e lo stesso nome non è stato scelto a caso ma con riferimento alle caratteristiche del vento stesso e a come queste si legano con il suono del brano.
Serengeti è un disco complesso nella sua genesi e non semplicissimo all’ascolto, variegato e multiforme, la cui descrizione è fondamentale per comprenderlo al meglio. Allo stesso tempo è opera di pregio assoluto, con alcuni spunti strepitosi, decisamente in grado di esprimere tutto quello che si era preposto in fase di scrittura. Non aggiungerà molto al panorama nel quale possiamo inserirlo ma il pregio e la cura con cui è realizzato e la resa all’ascolto ne fanno uno dei migliori dischi dell’anno passato che noi poveri italiani possiamo goderci nell’anno in corso.