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Old Man’s Cellar – Damaged Pearls

Written by Recensioni

A tre anni dalla pubblicazione dell’EP autoprodotto Wine & Swines (2010), gli emiliani Old Man’s Cellar sbarcano su Rockambula con il debut album Damaged Pearls (inciso nel 2011 presso il celebre Studio 73 di Ravenna e mixato con il prezioso contributo del produttore nostrano Riccardo Pasini). La compagine modenese, capitanata dal singer Riccardo Dalla Costa (Lost Breed), e composta dal talentuoso chitarrista Federico Verratti (Blackage, Fango, Neronova), Angelo Scollo (basso), Massimiliano Boni (tastiere) ed Andrea Fedrezzoni (batteria), propone un Melodic Hard Rock/Aor incisivo e frizzante, sulla scia di leggendarie band 80/90 come Toto, Extreme, Tnt, Danger Danger, Van Halen e Bon Jovi. Fin dal primissimo ascolto, l’album risulta strutturato in due distinti tronconi: il primo dal tiro energico e tagliente (vedi la title track “Damaged Pearls”, “The Years We Challenge” e “Undress Me Fast”), il secondo, invece, maggiormente improntato alla delicatezza di nostalgiche ballad come “Is This the Highest Wave?”, “Knees on the Straw”, “Still at Heart” e “Summer of the White Tiger”. Una tracklist più omogenea ed organica avrebbe senza dubbio giovato alla piena riuscita del progetto, evitando in tal modo i continui ed improvvisi dislivelli dinamici avvertibili tra brani di imprescindibile natura eterogenea, ma, almeno fin qui, si tratta di bazzecole. Innegabilmente apprezzabile, d’altro canto, la raffinata attitudine compositiva e tecnico/esecutiva del nostro quintetto: una sezione ritmica apparentemente semplice (ma compatta, essenziale e precisa), funge da sostegno al pregevole impianto chitarristico di Federico Verratti, perfettamente a suo agio nell’esecuzione magistrale di alternate picking, sweep picking e bending dal caratteristico sapore “bettencourtiano”.

Una linea vocale sfruttata in maniera piuttosto soddisfacente, senza strafare, evitando i fastidiosi arzigogoli tipici del genere, ed una tastiera relegata (negli angoli più remoti del mix) a partiture di puro ed esclusivo riempimento. Peccato. Una produzione nitida e cristallina, un full length guidato da (sincera) passione dove ogni singolo elemento trova la sua ideale collocazione nel multiforme tessuto armonico/melodico; tuttavia la cifra stilistica, eccessivamente legata ai vetusti archetipi del genere, si mantiene pressoché analoga e costante per oltre cinquantadue minuti, al punto da risultare anacronistica, monotona, fastidiosa, saccente (deboli e sparuti i tentativi di “presunta” modernizzazione sonora, quasi al limite del ridicolo, come l’utilizzo di agghiaccianti ed elementari drum machines nel brano “Don’t Care What’s Next”). Insomma, seguendo quale logica o astrusa farneticazione dovrei acquistare Damaged Pearls e non un vecchio album dei Toto, degli Extreme, o dei Danger Danger? Nel sovraffollato modello economico/commerciale della Long Tail, l’originalità é tutto ragazzi. Non esiste altra via, per quanto vi sforziate nel cercarla. Datemi una sola ragione, e diventerò il vostro primo fan, parola di boy scout. Ai posteri l’ardua sentenza.

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