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OffSetFest @ Magazzino sul Po, Torino, 14-15 Ottobre 2016
Il Magazzino sul Po di Torino ha tenuto a battesimo venerdì e sabato scorsi l’OffSetFest, primo di una, speriamo lunga, serie di eventi che dovrebbero tenersi in vari club europei organizzati da Off Set, casa discografica ed agenzia di booking (che non disdegna produzioni di ambito visivo) con sede a Bologna attiva soprattutto nel campo della psichedelia, dell’Avant Rock e del Folk più libero. La proposta per questa prima edizione è di buonissimo livello, troviamo infatti sul palco dello storico locale dei Murazzi 5 nomi capaci di ingolosire il pubblico più esigente: Krano, Miles Cooper Seaton, Fuzz Orchestra, Il Sogno Del Marinaio ed Acid Mothers Temple.
La serata di venerdì viene aperta da Miles Cooper Seaton, artista statunitense probabilmente ai più conosciuto per la sua militanza negli Akron/Family, che presenta il suo lavoro solista Phases in Exile, disco registrato in Italia (paese al quale il musicista risulta legatissimo, tanto da aver deciso di venirci a vivere) grazie alla co-produzione di Trovarobato e Vaggimal, nel quale troviamo il supporto del combo veneto dei C+C=Maxigross. Il set del Nostro si muove con estrema classe nei territori Minimal Free-Folk del sopracitato lavoro unendo alle eteree atmosfere chitarristiche una voce non meno spirituale e profonda (che mi ricorda spesso per umore e intensità quella del Piers Faccini migliore), aggiungendo inoltre un tocco di eclettismo ai brani nelle loro parti esclusivamente strumentali capaci di prendere per mano il pubblico accompagnandolo tra lande estese e velate grazie ad una chitarra ora in odor del Fennesz più etereo ora più puramente Drone. Un live meditabondo, intenso, avvolgente e curatissimo, un’ottima apertura per questa prima serata del neonato festival.
Dopo la breve pausa per il cambio palco è la volta di Krano, nuovo progetto di Marco Spigariol (Movie Star Junkies, La Piramide di Sangue, Vermillion Sands) che presenta il suo primo disco, Requiescat in Plavem, uscito lo scorso Aprile per Maple Death Records. Marco e la sua band propongono atmosfere tipicamente anni Sessanta: Folk, Blues e Country qua e là sporcati e storti da attitudine ed esigenze personali, come quella di cantare in dialetto veneto; un dialetto ben lontano dal suonarmi familiare ma così ben incastrato nel sound proposto da farmi pensare che la scelta di usarlo sia quasi stata inevitabile oltre che assolutamente azzeccata. Live godibilissimo (ben più di quanto inizialmente immaginassi) che apre la strada agli headliner di questa prima serata: Il Sogno del Marinaio.
L’attesa per questo trio delle meraviglie composto da Mike Watt al basso e da due dei più grandi talenti dell’underground nostrano, Stefano Pilia alla chitarra ed Andrea Belfi alla batteria, è piuttosto palpabile. Mike Watt è stato tra i più importanti protagonisti della musica indipendente mondiale con i Minutemen (senza dimenticare le importanti esperienze con band come i Dos ed i fIREHOSE) e per quanto riguarda Il Sogno del Marinaio credo basti ascoltare i 2 lavori sin qui pubblicati da questo progetto (La Busta Gialla del 2013 e Canto Secondo dell’anno successivo) voluto da Stefano Pilia per capire che ci sarà da divertirsi. Ed i tre sul palco effettivamente se la godono alla grande, forse proprio Mike, col suo entusiasmo da ragazzino, più di tutti, ed insieme a loro se la gode tutto il pubblico accorso al Magazzino sul Po che pezzo dopo pezzo diventa sempre più caldo ed entusiasta per uno di quei live che si vorrebbe non finissero mai. Definire il suono di questo trio è praticamente impossibile, durante il set i generi toccati sono i più vari. Si va dalla morbida spigolosità tra Post e Math Rock della dissonante “Skinny Cat”, all’ondeggiare tra passaggi minimali, psichedelia dal sapore orientale e puro Blues-Rock di “Nanos’ Waltz”, dalla trascinante meraviglia “Us in Their Land” che si muove tra Noise, Math Rock e Prog, alla marcia tra Psych e Alt.Rock di “Animal Farm Tango” col suo coinvolgente finale, ed ancora il Jazz-Rock (Avant) dall’umore Punk dell’intricata “Partisan Song” e così via per un’ora, senza concessioni di tregua, andando a concludere con “Zoom”, una sorta di improvvisazione corale (anch’essa splendida) dove il trio ospita sul palco Miles Cooper Seaton. Così tra riff della madonna, stop&go altamente goderecci e pregevoli cambi di ritmo (come avrete intuito difficilmente i brani si concludono col mood iniziale), il grande eclettismo e la cosciente follia del trio, sorretto dal titanico basso di Mike, regalano un live set di altissimo livello, personalmente tra le più belle cose viste negli ultimi mesi. Un’esecuzione più che convincente ed assolutamente superiore ai già interessanti livelli delle pubblicazioni. La ricerca naturale e divertita del trio unita all’evidente piacere di suonare insieme ed alla bella risposta del pubblico liberano nell’aria quella sorta di benessere collettivo che si prova dopo aver vissuto un gran concerto. Un live tirato, asciutto ed esaltante, tre musicisti di un altro pianeta (che tra l’altro si alternano alle parti vocali) che concludono così questa entusiasmante prima serata firmata Off Set.
La serata successiva del festival è aperta alle 22 dal live Heavy Rock delle soundtracks firmate Fuzz Orchestra con un’esibizione centrata soprattutto sull’ultimo Uccideteli Tutti! Dio Riconoscerà i Suoi. Cosa dire? Si tratta di un gruppo che ho visto suonare dal vivo ormai tantissime volte, sono tosti, passionali, energici ma allo stesso tempo meditativi. C’è Fabio “Fiè” Ferrario che con precisione maniacale, tramite giradischi e mangiacassette, lancia i famosi monologhi e discorsi rubati al grande cinema italiano degli anni 60 e 70 (gettando i dischi sul palco una volta andato il loro tempo), che svolge un gran lavoro al pianonoise e che ringrazia il pubblico a mani giunte e con tanto di inchino dopo ogni pezzo; c’è un altro gigante della batteria, Paolo Mongardi, preciso, istintivo, potente, uno dei musicisti che più mi piace veder suonare oltre che ascoltare, motivo per il quale la prima fila, che sempre si tenta di guadagnare, con i Fuzz Orchestra con gli Zeus! e via dicendo diventa una specie di obbligo personale, fin qui sempre ben ricompensato, e c’è Luca Ciffo con la sua chitarra indemoniata che marchia il suono della band estendendo, comprimendo e irrobustendo ulteriormente il tutto. Una delle migliori live band nate negli ultimi anni in Italia, un trio che non si risparmia. Genuini, sudati, intensi e bravissimi, come sempre.
Dopo di loro tocca al nome di punta del festival, i giapponesi Acid Mothers Temple, nella loro veste più celebre (Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso U.F.O.). La band guidata dal chitarrista Kawabata Makoto propone lunghe suite (mi pare di contarne sei, mi pare non durino mai meno di venti minuti) che abbracciano psichedelia, Noise e Kosmische Musik senza disdegnare passaggi più Jazz, Blues e Rock (ovviamente sempre suonati in modo alieno). Dopo la prima di queste suite Higashi Hiroshi, col volto semicoperto dalla lunga chioma grigia, avendo dei problemi col suono dei synth colloquia col tecnico del suono per risolverli, ma una band folle come quella in questione non può certo smettere di dare spettacolo nemmeno per un minuto e dunque ecco che il chitarrista Tabata Mitsuru, improbabilmente travestito da donna, offre uno spettacolino osé che diverte il pubblico come Makoto, il leader della band non può trattenersi dal fotografare il collega sorridendo di gusto. Tornati alla normalità (si fa per dire) parte l’unico dei loro pezzi (la loro discografia è infinita) che riconoscerò durante l’esibizione, pezzo che immagino riconosceremo in molti: “La Novia”, uno dei loro maggiori successi. Brano meraviglioso che parte da canti gregoriani a cappella per poi evolversi in soluzioni psichedeliche dal sapore indiano che a loro volta si trasformano in una psichedelia nettamente più anni 60/70 (un qualcosa tra Pink Floyd e Velvet Underground) ma molto più rumoristica. Arriva poi una suite che partendo da una versione estremamente Psych di “The Wizard” dei Black Sabbath va a legarsi a qualcuno dei loro innumerevoli brani e durante il suo tragitto si trasforma in un acidissimo Blues prima di andare a spegnersi in un muro Psych Noise (un applauso alla sezione ritmica, e non solo in questa occasione) che i volumi, stasera più alti del solito del Magazzino (mai visto così pieno) esalteranno ancor più facendo quasi tremare le mura del tempio. Stessa sorte di “The Wizard” toccherà ad un brano dei Gong che qui i Nostri, sempre legandolo a qualcosa di loro, renderanno ben più cosmico, spostandosi poi verso un suono massimalista e tornando infine a qualcosa di più cosmico e psichedelico nella parte finale. Insomma, questo concerto è una giostra freak, assolutamente godibile anche se per i miei gusti in alcuni momenti fin troppo eccessiva, per quanto ciò non tolga che questo gruppo di pazzi ci abbia regalato l’ennesimo gran bel concerto di questo piccolo grande festival alla sua prima edizione, e con loro fanno 5 su 5.
Se chi ben comincia è a metà dell’opera chi comincia più che bene (sicuramente questo il caso dell’OffSetFest) a che punto dell’opera si trova? Non è nient’altro che il primo passo ma dopo due simili serate non si può che augurare a questo festival lunga vita e grandi viaggi in tutto il continente, sperando che crescendo chi lo organizza non si dimentichi di questa prima edizione e regali nuovi passaggi lì dove tutto ebbe inizio (Torino, Magazzino sul Po).
Connect-icut – Crows & Kittiwakes & Come Again
L’uomo che si annida dietro lo pseudonimo Connect-icut altri non è che un produttore di musica elettronica di Vancouver, non nuovo ai cultori del genere più attenti alle uscite del sottobosco underground e poco devoti alle facilonerie del mainstream. L’artista canadese è una new entry in casa Rev Laboratories ma non è in ogni caso un esordiente, avendo già pubblicato, per vie diverse, Moss del 2005, poi LA (An Apology), They Showed Me the Secret Beaches e Fourier’s Algorithm, quest’ultimo tre anni fa. Se, come abbozzato, non è certo il pubblico ad aver sancito il successo di Connect-icut, non sono mancate lodi da parte del mondo Alternative, su tutte quelle di Thurston Moore dei Sonic Youth.
Cosa c’entra un produttore/compositore di musica elettronica con le guide spirituali del Noise Rock è presto detto. Se il punto di partenza e lo scheletro che poi sostengono tutto l’impianto sonico di Crows & Kittiwakes & Come Again è il Glitch, a metà tra Fennesz, Murcof e soprattutto Oval (“Imperial Alabaster”, “Port Shale”), queste deformità tecniche del suono sono talvolta esasperate in chiave rumoristica, quasi Noise appunto, ma con una naturalezza irreale, del tipo che, nel corso degli anni, abbiamo apprezzato ad esempio nello Shoegaze, specie strumentale, dei My Bloody Valentine (“Fading Twice”). Una mistura di brividi elettrici, rumore, vibrazioni, martellamenti, esplosioni soffuse che invece di plasmare suggestioni industriali e apocalittiche concepiscono un flusso naturale, suonando con la stessa genuinità dell’esistenza. Rumore ed elettricità che divengono sinonimo di paradisiache atmosfere eteree.
Certamente non scarseggiano passaggi di Minimal Synth e Ambient (“Carrion Pecking”) densi di tenebre, foschi, inquietanti, che tuttavia non fanno altro che dare ancor più vitalità all’opera, come fossero il fianco oscuro dell’esistenza, orribile ma inevitabile, e, allo stesso modo, Connect-icut utilizza gli strumenti della Drone Music (“Pratice Rot”) per squarciare l’impianto emozionale tirato su dall’ascolto della prima parte del disco. Tutti gli ingredienti sottolineati non devono tuttavia essere intesi come spaccature nette tra i brani, in quanto ogni materia che da forma alle canzoni è presente in ognuna di esse anche se in modo diverso, con difforme intensità. Ciascuno dei sei brani, compreso il conclusivo minimale “Again Now (For Matt)”, esalta l’impianto Glitch, le atmosfere Ambient e le pulsioni Noise, evocando apparati scenici irreali ed estatici su orizzonti neri e da incubo. Non c’è mai, in nessun momento di Crows & Kittiwakes & Come Again una precisa linea di demarcazione tra quello che è il bene, evocato dalle note più solerti, e quello che è il male ma tutto si confonde, si miscela, ora smascherandosi ora celandosi in una sonora ed estatica trasposizione occidentale dello yin e yang.
Un album inappuntabile per chi volesse immergersi totalmente nel fluire della propria coscienza, per chi cerca strumenti leciti e sani per valicare le barriere dei sensi. Un album ineguagliabile per chi volesse cimentarsi a dovere con un’elettronica da ascolto di spessore, ma non è mai riuscito ad andare in fondo ad un lavoro del precettore Oval o si annoia dopo cinque minuti di droni ronzanti nella testa. Un disco perfetto per iniziare ad ascoltare musica elettronica di qualità senza il timore di dover abbandonare per manifesta incapacità di ascolto.