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Don Boskov

Written by Interviste

Ci sono gruppi in Italia che si distinguono facilmente dalla massa per qualità e concetti; I Don Boskov sono sicuramente fra questi, portando avanti la loro musica e le loro idee con l’obiettivo raggiunto di ricamarsi una schiera di fedelissimi fans.

Come nacque il progetto Don Boskov?
La storia dei Don Boskov è molto banale: sei persone iniziano a suonare insieme senza sapere bene cosa fare e verso quali “generi” indirizzarsi. Probabilmente questa mancanza di idee chiare ci ha permesso di portare avanti un progetto musicale il più possibile privo da incasellamenti.

Da chi siete stati influenzati?
Nei nostri ascolti c’è una linea sottile che parte dalle atmosfere dilatate del Post-Rock e arriva al Postcore americano (quello di band come Norma Jean e The Chariot). Noi cerchiamo di colmare la distanza tra questi due “generi”.

Di cosa trattano i vostri testi?
Abbiamo quasi tutti 30 anni, abbiamo ormai perso la spensieratezza dei 20 e viviamo una fase piena di dubbi e instabilità come tutti i nostri coetanei. Osserviamo come le paranoie proprie della nostra generazione si esprimano in tanti modi e c’è un gran casino anche per quanto riguarda i rapporti, che sono il tema centrale dei nostri testi. In alcuni casi si tratta di storie autobiografiche, in altri il riferirsi ad una terza persona, spesso una “lei”, serve come pretesto per parlare dei dubbi e delle delusioni dei nostri tempi.

Come nasce in genere un vostro pezzo?
Cerchiamo di lavorare in maniera corale, partendo da un semplice spunto, di solito un giro di chitarra. Lavoriamo parecchio sulle parti di ciascun strumento, ci confrontiamo e ci incazziamo se serve, ma cerchiamo di produrre qualcosa che piaccia a tutti, mettendoci singolarmente sempre in discussione. Spendiamo un po’ di tempo in più in questo senso, ma scriviamo sempre pezzi di cui siamo parecchio soddisfatti. Grandi pacche sulle spalle a fine prove.

Possibile fare Emocore con il piano? (come vi è venuto in mente?)
Il realtà dagli At the Drive in ai Blood Brothers, diverse band Postcore e Screamo hanno usato occasionalmente sintetizzatori e piano. Noi ne facciamo semplicemente un uso più massiccio, con la convinzione che il piano fornisca una gamma amplissima di possibilità compositive e armoniche.

Esiste una scena italiana per questo genere secondo voi?
Ci sono moltissimi gruppi bravissimi che fanno Postcore in Italia. Per citarne alcuni: Fine Before You Came, Death of Anna Karina, Lantern, Ruggine e altri.

Avete mai l’impressione che nell’Hardcore sia già stato tutto detto?
E’ probabile, per quello noi pensiamo che può essere usato come uno degli elementi compositivi e non come genere inteso in senso classico. L’Hardcore non è il nostro genere, cerchiamo di non cadere nella trappola dell’incasellamento forzato che alla domanda: “che genere fate?” rispondi senza difficoltà: “Hardcore!”. Detto questo, pensiamo che l’Hardcore sia solo un mezzo per poter comunicare l’universo intero senza troppi fronzoli, in modo diretto e disperato. Quando abbiamo questa esigenza, nei pezzi, allora è lì che la vena “Hardcore” viene fuori.

Avete condiviso il palco con band quali Gazebo Penguins, OvO, Majakovich e Kill Your Boyfriend…Com’è stato aprire per loro?
Oltre che musicale, per noi è stata un’esperienza umana. Abbiamo avuto la possibilità di conoscere persone interessanti con il quale ci siamo confrontati. Un discorso a parte va fatto per i Majakovich, con i quali abbiamo suonato più di una volta e con i quali c’è stima ed amicizia, tale che hanno deciso di supportarci con la loro etichetta, la Metrodora Records.

Internet: rovina della musica oppure mezzo di comunicazione che vi può avvicinare a masse di fans?
La possibilità di poter ascoltare qualsiasi artista gratis, ha cambiato la musica in meglio. Sono tristi le persone che snobbano il presente e i gruppi giovani, convinti che il periodo d’oro della musica sia quello della loro infanzia. Non hanno la curiosità di sapere come si evolve nel tempo l’arte. In realtà ogni decennio ha portato con se i propri geni (se esiste un periodo d’oro del Rock comunque è quello che va dal 1965 al 1975, ma che ormai ha rotto veramente il cazzo). In questi ultimi 20 anni sicuramente sono nati una quantità enorme di artisti meravigliosi anche grazie a internet. Il mercato musicale invece si è indebolito, ma è inutile lamentarsene.

Siete orientati politicamente?
Proveniamo da una città storicamente comunista e in noi permane una coscienza di sinistra che, ci fa pensare, per esempio, che gli stranieri non siano un pericolo, e che il sistema economico in cui viviamo sia decisamente migliorabile. Ognuno di noi ha il proprio punto di vista nei confronti della società e ognuno di noi vive la cosa in maniera del tutto personale cercando di slegarsi il più possibile dalle ideologie e analizzando in maniera lucida il mondo in cui viviamo. Però non ce la sentiamo di essere portabandiera di chissà quale innovativa o scardinatrice propaganda politica e cerchiamo di fare ciò che ci viene meglio.

Progetti futuri?
Vogliamo suonare il più possibile dal vivo. Stiamo scrivendo pezzi nuovi perché vogliamo che l’Ep diventi un disco di almeno 8 – 10 tracce e intanto stiamo anche scrivendo le sceneggiature dei prossimi due video, uno dei quali accompagnerà un pezzo che è una chicca per gli amanti del pop anni 90. Un saluto per tutti i lettori di Rockambula.

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Do Nascimiento – Giorgio

Written by Recensioni

Ho buona memoria. Sarà che il nome Do Nascimiento, per la sua inusualità, resta impresso. Li ascoltai l’ultima volta nell’esperimento Splittone Paura che divisero con i Verme e i Gazebo Penguins e che vedeva compatte ben quattro etichette: To Lose La Track, Que Suerte!, TwoTwoCats e NeatIs Murder. Tra i quattro litiganti, il quinto gode. Il quinto è la Flying Kids Records, anche se sotto sotto c’è lo zampino del prezzemolino To Lose La Track. Ormai quest’ultima label è diventata indiscutibilmente sinonimo di ottime produzioni. Giorgio confermerà l’andamento?

Partiamo dal fatto che è un disco di sole sei canzoni che fanno il verso agli ex compagni di ventura Verme e Gazebo Penguins. Quindi atmosfere rarefatte strapiene di Postcore traboccante emotività. “Vecchio” è un monito dedicato a chi maledice i propri compleanni, tema sviluppato in poco più di un minuto.  Impossibile estromettere dalle influenze i Fine Before You Came: “Chitarra” ha esattamente le loro sembianze, anche se i Do Nascimiento sono meno levigati per partito preso. Quello che sembrava solo un sospetto si tramuta in una certezza: il timbro del singer somiglia spaventosamente a quello di Dani, famoso per aver militato nelle Pornoriviste e di essere attualmente il leader degli Yokoano (“Baracchetta” ne è la prova inconfutabile).  Il calderone bollente della scena Emo italiana non si fa schiacciare e le sue sfaccettature sono tutte raggruppate nell’episodio finale, il più lungo con i suoi due minuti e trentotto secondi: “Fiato” è quasi esclusivamente composta dal binomio voce-chitarra arpeggiante, qualche rullata ben assestata genera la struttura del pezzo, fino a spegnersi nel bel mezzo del ritornello, cantato sguaiatamente. I quattro ragazzi liguri non si sprecano in nulla: titoli composti da una singola parola, brani con tempistiche che lasciano a desiderare. Ma nonostante questo non mi vengono in mente metodi diversi per spendere bene dodici minuti della mia esistenza.

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Montauk – S/t

Written by Recensioni

Altro disco che riscuote interesse già dal packaging, in cartone grezzo, tenuto chiuso da un comunissimo elastico di gomma e che contiene una serie di immagini, disegni, illustrazioni. Questa è la faccia dei Montauk, che dicono di loro, in terza persona: “[Montauk] non è i Fugazi né gli Husker Du e nemmeno i Fine Before You Came, non siamo Il Teatro Degli Orrori, Montauk è un teatro di strada, acceso sotto le insegne al neon, in una città che sembra in festa e che invece vuole solo guardarsi allo specchio”, che è come dire tutto e niente.
Andiamo quindi oltre la faccia e le parole, dentro il groviglio sporco di questo disco omonimo dai suoni taglienti e impastati, dove abbondano distorsioni e voci arretrate, che parlano, gridano e osservano le cose con uno sguardo urgente, a volte rassegnato, spesso adolescenziale (“prova tu a pensare guardando il mondo come un ragazzo”, “Il Mondo”), quasi sempre appassionato (“la rabbia è una religione”, “Song No Tomorrow”).

Il disco fila, tutto sommato: i pezzi si lasciano ricordare e ri-ascoltare volentieri, tra ritornelli da Rock italiano (“Io”) e la modernissima morbidezza violenta o violenza morbida che va così di moda ultimamente (la parlata de “Il Bruco”,“Il Mondo”, ma in realtà tutto il disco). Alcune idee sono musicalmente godibili ma, forse, fanno poco per elevare i Montauk al di sopra della media nazionale dei gruppi Indie-Rock-Pop (tipo Fast Animals & Slow Kids, per intenderci). La voce esce poco, quando esce non brilla di personalità, ma è un genere, questo, che accetta di buon grado la semplicità vocale, per cui potrebbe accadere che una voce simile, alla fine, sia la voce perfetta per i Montauk.
Insomma, un esordio sicuramente senza infamia, ma anche senza troppa lode. La speranza è che i ragazzi proseguano a testa alta il loro personale percorso e che nelle prossime produzioni facciano uscire di più le loro voci (in tutti i sensi), cosicché non si debba più dire “i Montauk non sono questo, non sono quest’altro”, ma solo che i Montauk, alla fine, sono i Montauk. E basta.

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