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Mom Blaster – We Can do it!
Sembrava di trovarsi di fronte all’ennesima copia dei Cramps dalle prime note del disco ed invece, appena trenta secondi e le note portano verso Bob Marley e Peter Tosh, anche se con una sensuale voce femminile, per poi tramutarsi negli emuli degli Skunk Anansie e viene da pensare che sia incredibile. L’ascoltatore viene quindi spiazzato tre volte nel giro di due minuti (troppa carne al fuoco forse) e lo è ancora di più quando inizia la seconda canzone “From The Beginning” che inizia con riff simili agli Heroes Del Silencio per poi tornare al Reggae.
“Saturdaycomes” ci prova a rimettere le cose in chiaro fallendo miseramente a causa di un’armonica che è l’esatto contrario di come sta il cacio sui maccheroni. Se l’idea è quindi quella di creare una sorta di Crossover all’italiana c’è qualcosa che non va in quanto i generi e le idee proposti sono davvero troppi (a momenti manca solo un assolo Jazz e un orchestra classica). Forse tre anni sono pochi per comporre un disco così complesso (il gruppo si è formato nel 2010 a Lanciano, in provincia di Chieti) che propone un mix tra Reggae, Rock e Pop, utilizzando nuove sonorità in una miscela esplosiva che spazia dal Punk anni ’70, passando dal Pop anni ’80, arrivando fino ad un Rock più contemporaneo. In “Everyone is an African” si perde pure la minima atmosfera creata in precedenza dalla voce femminile essendo cantata per lo più da uomini e si smarrisce anche la via che portava per lo più in Giamaica (il messaggio si rafforza poi ulteriormente con “A four letter words” e “I’m just a ghost”).
Chiudono il tutto “Vicious boy” e “Really gone” e per fortuna tutto è veramente andato verso la fine. Chiariamoci: presi singolarmente sono tutti degli ottimi musicisti, ma vi immaginate cosa uscirebbe formando un gruppo con Malika Ayane, Stewart Copeland, Flea e Steve Vai? (sono i primi nomi di ottimi musicisti che mi sono venuti in mente). Probabilmente ne uscirebbe fuori solo un calderone sonoro, ma forse basta cambiare la formula per migliorare il tutto. A volte è meglio confrontarsi solo con un genere (in questo caso il reggae) senza varcarne i confini.
Atoms for Peace – Amok
Su questo disco è già stato detto di tutto. Lanciato come se fosse l’araba fenice dei Radiohead o la fatica di un matrimonio artistico tra grandi nomi della storia della musica più recente che manco i Them Crooked Voltures, Amok è stato osannato o crudamente bocciato, tanto da tutta la stampa quanto dai fans di Yorke. O piace o non piace, insomma. L’unica certezza è che fa discutere, mettendo in campo tutta una serie di riflessioni che non sono assolutamente sterili e neppure troppo sottintese. Anzitutto viene da chiedersi quanto possa essere originale un progetto parallelo con un leader tanto carismatico e dall’immediata riconoscibilità stilistica come quella di Yorke. Tra lui e Flea, ad esempio, è indubbiamente il primo a farla da padrone indiscusso, se si considera che l’autorialità di Flea emerge con chiarezza solo nell’intro e in alcuni incisi melodici di “Stuck Together in Pieces” e in “Reverse Running”, passando praticamente inosservata nelle altre tracce di Amok. Non è solo questione esecutiva, per cui la voce di Yorke toglie ogni dubbio e rimanda per direttissima ai Radiohead, come nella title-track “Amok” e in “Default” (solo per citare i casi estremi perché questa caratteristica permea in realtà tutti i brani del disco), ma è proprio una faccenda interpretativa ed esecutiva: il cantato a bocca appena aperta, la strutturazione della forma canzone e gli arrangiamenti ricalcano moltissimo gli ultimi Radiohead – che, personalmente, mi sono sempre sembrati più gratuitamente sperimentali e asettici che geniali – e solo una virata elettronica massiccia separa gli Atoms For Peace dal passato progetto di Yorke. E qui entrano in gioco un altro paio di questioni. Anzitutto, l’unico leitmotiv del disco sembra essere un tappeto ritmico elettro-dance scandito con una chiarezza volumetrica che spesso è al pari di quella della linea melodica vocale (come in “Before Your Eyes” e nella già citata “Reverse Running”), in una sorta di ideale richiamo costante al trip-hop ma con le sonorità cupe della new wave (“Ingenue”) e accenni afro-beat inconsciamente pulsionali (“Unless”); in secondo luogo, poi, è difficilissimo distinguere dove finisca l’uomo e inizi la macchina e viceversa. E per quanto lo strumento elettronico e l’artificio possano essere usati con maestria e competenza, sì da fare emergere il lato umano del compositore, è quasi impossibile in Amok, capire cosa sia naturalmente prodotto e cosa no, sacrificando, involontariamente, ancora una volta gli strumentisti per esaltare la figura di Yorke come primigenio artista-uomo che convoglia il significato poetico-musicale della canzone.
Lungi da me porre una soluzione univoca a questi quesiti, il gusto personale credo che in questi casi abbatta qualsiasi questione etico-stilistica-estetica. Per me è il primo, buon lavoro di un progetto parallelo che spende a piene mani l’eredità del suo antecedente, nulla più.