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Anthony Hed – Many Faces [VIDEOCLIP]
In esclusiva su Rockambula, vi presentiamo il videoclip del nuovo singolo di Anthony Hed, che si intitola “Many faces” ed esce questo venerdì 24 novembre per Root Feelings Records, secondo estratto e title-track dell’EP di debutto del cantautore italo-francese.
Recensioni | novembre 2015
Max Richter – Sleep (Modern Classical, Post Minimalist, 2015) 7,5/10
Capolavoro totale per il compositore britannico (lo trovate qui) che confeziona un’opera titanica la quale, anche per la durata che supera le otto ore, vuole essere realizzazione perfetta da assimilarsi durante il sonno. Disco dell’anno, se siete capaci di andare oltre le barriere del Rock e della forma canzone.
Ought – Sun Coming Down (Art Punk, 2015) 7/10
Secondo album eccelso per la band degna erede dei grandi Television. Tra le migliori e più originali formazioni Post Punk di ultima generazione, qui raggiungono il loro apice creativo.
Kathryn Williams – Hypoxia (Folk Pop, 2015) 7/10
Arrivata all’undicesimo album, la cantautrice britannica compone un concept ispirato al romanzo La Campana di Vetro della tormentata poetessa Sylvia Plath. Atmosfere soavi, minimaliste, ma di una notevole intensità. Da ascoltare in solitaria. Consiglio l’esilio su un’isola deserta.
Dhole – Oltre i Confini della Nostra Essenza (Post Hardcore, 2015) 6,5/10
Pregevole incastro di strutture sonore Post Rock e cantato Scream per questo quartetto lodigiano agli esordi, matasse di distorsioni da cui lasciarsi avvolgere mentre le liriche colpiscono violente. Un debutto meritevole di spazio nel consolidato panorama nostrano del genere.
Open Zoe – Pareti Nude (Pop Rock, Post Punk, 2015) 6,5/10
Carico di echi delle esperienze Alt Rock italiane anni 90 il primo disco di questa band veneta, armata di tradizionali basso-batteria-chitarra, a cui si aggiungono pochi tocchi di elettronica e un timbro vocale femminile che conferiscono un gusto catchy e contemporaneo al risultato finale.
Il Mare Verticale – Uno (Alternative Pop, 2015 ) 6,5/10
Non è semplice fare un bel demo. Bisogna essere esaustivi nel saper dar sfoggio di sé e delle proprie abilità compositive, senza strafare e risultare pesanti. E su questo Il Mare Verticale, con Uno, ha saputo davvero fare bene. Il disco apre con “Tokyo”, un brano Alternative Pop delicato, a cavallo tra Afterhours e sonorità Indie nordeuropee, che chiarificano subito timbri e accorgimenti che la faranno da padrone: arrangiamenti mai scontati per quanto perfettamente in stile, liriche (in italiano) trattate più come pretesto fonico che come significanti, atmosfera galleggiante e onirica, che sfocia naturalmente in “Non Luoghi”, con i suoi echi alla Radiohead. “Spuma” è forse la più italiana di tutto il lavoro della band romana, con richiami alla produzione di Benvegnù e Gazzè su tutti. Il disco chiude con “Elaborando”, che, quasi in maniera volutamente descrittiva, si connota in fretta come il brano più complesso tra i cinque, con i suoi ritmi marcati e il sound più cinematografico.
Prehistoric Pigs – Everything Is Good (Instrumental, Stoner, Psych Rock, 2015) 6,5/10
Distorsioni e spazi immensi, sabbiosi e oscuri. Un viaggio interminabile (otto brani per quasi un’ora di musica) tra i più desolati deserti descritti da un trio non sempre impeccabile e fantasioso, ma che cerca perennemente il suo suono, incastrando la chitarra di Jimi Hendrix nel caldo torrido dell’Arizona. Peccato manchi la voce, avrebbe potuto dare maggior senso e maggiori vibrazioni a questo serpente sporco, vorace e velenosissimo.
La Casa al Mare – This Astro (Dream Pop, Shoegaze, 2015) 6,5/10
Viene da Roma il terzetto che compone La Casa al Mare, con sonorità che non posso che richiamare subito una certa produzione Pop anni 80: voci indietro sullo sfondo, chiamate a far le veci di un vero e proprio strumento aggiunto, chitarre quasi prepotenti, seppure senza giri virtuosistici, effetti trasognani e riff ariosi e cantabili. This Astro apre con “I Dont’ Want To” che per i primissimi venti secondi sembra richiamare quasi gli Smashing Pumpkins e poi cede il passo allo Shoegaze in “Sunflower” e “M, particolarmente interessante per le aperture armoniche e il trattamento della dinamica. La mia preferita del disco risulta però essere “At All”, che suona come un brano degli Indiessimi Yuck. La costruzione dell’impianto sonoro cambia leggermente in “Tonight or Never”, in cui ogni elemento emerge con una brillantezza che sembrava mancare nelle tracce precedenti. L’EP chiude con “CD girl”, una traccia à la Raveonettes o My Bloody Valentine. Nulla di nuovo dunque, ma neppure qualcosa da cui rifuggire come la peste.
A Copy for Collapse – Waiting For (Electronic Synth Gaze, 2015) 6/10
Interessante duo barese che si muove agevolmente sulla via dei vari Telefon Tel Aviv, Mouse on Mars e The Postal Service. Qualche richiamo alla Dance Music poteva essere evitato. Sound anni 80 per chi non è fanatico degli anni 80.
To Kill a King – To Kill a King
Secondo lavoro per la band che esordì due anni orsono per Lead Astray Music con l’album Cannibal With Cutlery e mezzo passo indietro rispetto a quel gradevolissimo misto di Orchestral e Psych Folk che era. L’album omonimo di Ralph Pelleymounter (voce e chitarra acustica), Josh Platman (basso), Jon Willoughby (batteria), Ian Dudfield (chitarra elettrica) e Ben Jackson (sintetizzatore e tastiere) riprende la strada battuta dagli illustri colleghi Mumford & Sons e Lumineers ma, rispetto al precedente lavoro, mette da parte una certa attitudine Post Punk Revival stile The National per calcare territori più Pop, lavorando maggiormente sulle melodie e quindi rinunciando alla complessità degli arrangiamenti per dedicarsi piuttosto ad una gradevolezza estetica immediata che se da un lato aiuta l’orecchio a farsi una prima buona impressione, dall’altro finisce per suonare tediosa dopo diversi ascolti. To Kill a King è comunque opera decisamente curata in ogni suo intimo particolare, ed in questo I londinesi dimostrano di essere se non maestri, certo allievi talentuosi ma l’evidenza della ricerca dell’unanime consenso finisce per ridurne l’appeal verso chi dalla musica cerca ben altro, oltre al semplice intrattenimento da siesta pomeridiana. Undici tracce tanto armonicamente gradevoli quando profondamente deludenti rispetto a quelle che erano le promesse lanciate in un non troppo lontano 2013 ne fanno un’opera da godersi giusto il tempo che si spenga la fiamma d’un fuoco troppo freddo.
Before Cars – How We Run
I Before Cars arrivano ad incidere How We Run, il loro terzo disco, sia chiaro, loro sono una band di livello internazionale, i Before Cars sono l’attuale band di Chad Channing. Avete letto bene, Chad Channing, uno dei migliori batteristi del giro di Seattle, l’ex batterista dei Nirvana. Quello che ha suonato la quasi totalità di Bleach, penso che adesso abbiamo capito tutti di quale razza di mostro stiamo parlando. Il disco esce in Europa per Deambula Records, etichetta che ancora una volta conferma grandi potenzialità e distinti gusti raffinati in fatto di produzioni. Ma veniamo all’album, entriamo in sintonia con questa grande lezione di Folk Pop poco convenzionale. How We Run inizia e si ha la sensazione di volteggiare nell’aria leggeri, quei violini sembrano carezze per l’anima, poi le chitarre esplodono (“Listen To Me”). L’ambiente è tutto in questo genere di musica, o meglio, bisogna immaginare una situazione surreale, da confine tra sogno e realtà. “Trip To Mars” è un vero e proprio Trip, non esiste cognizione mentale, lussuriosa e similmente pinkfloydiana, che è tanta tanta roba. Musicalmente questo dei Before Cars è ineccepibile, indiscussa la tecnica ed il valore dei musicisti, oltre al reverendo Chad Channing (voce, chitarre, batteria) fanno parte della band Andy Miller (basso, piano), Paul Burback (voce, chitarre) e Justine Jeanotte (violino). Trovo i suoni di chitarra davvero interessanti soprattutto nelle sottolineature acustiche, sembrano aprire un profondo solco che subito viene cauterizzato dal violino. E che violino, ne parlavo prima, da brividi. Le chitarre sembrano milioni di farfalle in volo, ho questa sensazione mentre sento armonizzare la voce di Channing in “Catch You When You Fall”. Una sorta di Indie Rock anni 90, ovviamente internazionale avvolto da una bandiera a stelle e strisce, e quello che si viene a materializzare quando il disco assume una venatura decisamente più Rock in “Everything I do”. Linee di basso dritte e meticolosamente martellanti, non è Italia ragazzi. Ancora qualcosa di diverso, qualcosa di molto cantautorale e più popular, molto anni 70, un altro momento storico sognante, questo accade quando la chitarra acustica accompagna una reminiscente “Last Times”. Poi tutto continua fino alla fine mantenendo sempre la stessa spiccata personalità, voglio menzionare “Gas Stop”, è quasi un obbligo morale farlo. How We Run è un lavoro che indubbiamente viene fuori da un’altra epoca, come suoni, come struttura, come tutto. Il problema non da poco è: come può mantenersi così attuale nonostante non lo sia? Semplicemente perchè è un grande disco e i Before Cars sono una grande band. La musica di spessore non teme epoche, cambiamenti, mode, i grandi dischi ti si attaccano al cuore. How We Run colpisce dritto come pochi, non è che per caso sono italiani? … no eh?
Neil Holyoak – Rags Across the Sun
Intriso di senso estetico. Questa è la prima considerazione che pare logico tirare fuori dopo un ascolto veloce di Rags Across the Sun, quinto album in studio dell’artista yankee-canadese Neil Holyoak, originario di Los Angeles ma di stanza a Montreal. Splendore che s’intravede già dalla cover in cui l’immagine un po’ banale di lui che guarda languido altrove, mentre serra le braccia come a chiudersi in se stesso, si staglia su un paesaggio fantastico ma ambiguamente plastico, tra colori vintage e profumi di una primavera giunta troppo in fretta. Sul retro le stesse sfumature regalano emozioni di tutt’altro volto; libertà e quella malinconia di luoghi che non si conoscono con il sapore della speranza e uccelli, gabbiani e il mare immenso che segna il confine invalicabile dalle orme degli uomini che non sanno sognare. Una piacevolezza leggiadra che finisce per imprimere la sua effige anche sugli undici brani dell’album numero cinque (segue All These Mountains Look the Same del 2006, l’omonimo del 2008, Better Lions del 2010 e Silver B_oys del 2013) dell’artista nordamericano. Undici canzoni che muovono dal cantautorato di Townes Van Zandt, dalla poesia simbolista francese e dal Blues acustico maliano per sfociare in ambientazioni Folk tipicamente statunitensi, in stile molto Okkerville River anche se meno Rock (il timbro vocale ha non pochi punti in comune con i colleghi di Austin).
Undici pezzi che, nonostante la complessità compositiva, mostrano una leggiadria, armonia ed eleganza intensa e semplice, fatta di note leggere e parole cantate con grazia sopraffina. Melodie orecchiabili quanto basta senza scadere mai in ritornelli superficiali. Arrangiamenti mai eccessivi che donano una nuova magia a testi carichi d’immagini e suggestioni. Un disco che non merita parole troppo spinose per essere descritto, che non si costruisce su obiettivi alti, contorti, che non ha l’arrogante pretesa di cambiare il corso degli eventi o fare da rivoluzionario pungolo per la nostra arte preferita. C’è una parola tanto carica quanto eccessivamente usata che solitamente non amo usare perché quasi svuotata oggi dei suoi significati puri. Una parola che ho deciso di tirare fuori ancora una volta solo per questo disco, bellissimo.