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Uli – Black and Green
Uli gioca all’ombra della schiena di Nina Simone a rincorrere i fantasmi di Bill Hicks, ma in realtà è una italianissima cantautrice e ha le idee piuttosto chiare per essere una che è appena al suo album di esordio. Al secolo Alice Protto, la Uli di Black and Green riparte dai tre brani dell’EP dello scorso anno e sceglie i colori con cui tingere la devozione nostalgica al sound atemporale del Folk e del Blues americani che già allora aveva confessato.
Eloquente nel chiarire il processo compositivo è ciò che accade all R’n’B delle liriche di “Nina Simone’s Back”, riarrangiata ora in chiave Psych su un fondale di elettronica discreta dai toni scuri, con la voce effettata che rimbalza nelle cavità profonde delle percussioni. Il nero intramontabile è quello di una Nancy Sinatra nell’intro di “Hicks Y Z” che occhieggia alle tonalità di “Bang Bang” e si destreggia sapientemente tra pieni e vuoti. Il verde lisergico è il Folk scanzonato di una KT Tunstall nell’incalzante “Martial Hearts”.
A confermare la bontà dell’intuizione c’è il fatto che i momenti migliori sono quelli in cui le cromie si mescolano a dovere: nell’incedere della marcia di “Dry River” col cantato di Uli che avvolto nel sax rimane sospeso nel tempo, negli accenni sintetici di una ballad ritmata come “Emerald Dance”.
La formula di Black and Green è semplice ma è declinata in maniera suggestiva, narrata da un timbro Neo Soul immediato come quello di Gabriella Cilmi ma immersa in un liquido amniotico à la Daughter che le dona il magnetismo giusto per distinguersi dal mero Pop. C’è più di uno spunto valido da coltivare in futuro.
Top 3 Italia 2015 – le classifiche dei redattori
I tre migliori dischi italiani di quest’anno secondo ognuno dei collaboratori di Rockambula.
Continue ReadingArcane of Souls – Cenerè
Davanti a un disco per me nuovo ho la (cattiva?) abitudine di regalarmi un primo ascolto digiuna di ogni contorno. Così metto su Cenerè di Arcane of Souls conoscendone nient’altro che il nome, convinta che un moniker così non possa che celare un progetto dal substrato Metal. E invece schiaccio play e “L’Oro in Bocca” inaugura il disco col più classico dei Rock’n’Roll. L’ingannevole pseudonimo nient’altro è che l’anagramma di Alfonso Surace, cantautore che ha fatto della necessità di autoprodursi un marchio di fabbrica. Caso piuttosto comune nel mondo della musica indipendente nostrana (fervente sì, ma che praticamente mai consente ai propri abitanti di vivere della propria arte), Surace realizza anche questo secondo lavoro, dopo Vivo e Vegeto del 2012, nei ritagli di tempo che riesce a rubare alla sua esistenza diurna e con l’aiuto delle persone che ne fanno parte. Ne vengono fuori cose come il video del primo singolo estratto, “Gennaro”, che ironico e casereccio fa il verso al celebre domino del clip che accompagna “This Too Shall Pass” degli Ok Go. “Gennaro” presenta un album con cui condivide solo alcuni aspetti. La voce di Surace si diverte a suonare roca e gridata, da bluesman che si rispetti, e in molti frangenti giunge l’eco di personaggi singolari del cantautorato italico del passato: complice la somiglianza anche nel timbro vocale, alcuni tra i brani di Cenerè starebbero bene in bocca a Rino Gaetano, ed anche nelle corde scanzonate di Freak Antoni. Gli episodi più convincenti sono però quelli fatti di contaminazioni delicate, piuttosto che i brani schiettamente Blues Rock: “Maggio” coinvolge con un rincorrersi di violino e percussioni dal sapore etnico, “Respirare” spezza la monotonia delle linee vocali sostenute col suo sussurrato Psych Folk, “Settembre” ammicca al Math Rock, “Opera” è la ballad docile che si fa attendere fino alla fine del disco. Tanta varietà, pur essendo in linea con la spontaneità su cui tutto il progetto è costruito, penalizza un po’ il risultato finale, ricco di spunti interessanti negli arrangiamenti ma che vive di una immediatezza che quasi mai si cura di approfondire. L’impulsività giova invece alle liriche, che giungono schiette e piacevoli raccontando del quotidiano di un personaggio a cui ci si affeziona con facilità. Concedetegli più di un ascolto.
Psychopathic Romantics – s/t EP
Un lavoro valido e schietto che meriterebbe di mandare in panchina un sacco di posticcio indie rock italico.
Continue ReadingMarta Sui Tubi – Salva Gente
I Marta Sui Tubi hanno indubbiamente tratto vantaggio dalla partecipazione al Festival di Sanremo 2013, ma chi, come me, li ascolta e li conosce da sempre sa benissimo che il loro stile è rimasto sempre fedele ed immutato nel tempo. Probabilmente lo aveva già capito anche quel grande genio che era Lucio Dalla, scomparso nel 2012 poco dopo una sua esibizione a Montreaux, qui presente nell’atto conclusivo di questo cd, “Cromatica”. Salva Gente è una raccolta celebrativa della carriera di questo gruppo fatta da oltre un decennio di concerti in giro per tutta l’Italia, di cinque album (ed un ep) in studio e uno dal vivo. Non male come curriculum quindi. Tra le diciannove qui presenti ci sono anche due inediti, la title track (che vede alla voce anche un certo Franco Battiato) e “A Modo Mio”, entrambi descritti dal gruppo come potenti, freschi e vitali. Una definizione che si potrebbe prestare benissimo anche al gruppo stesso, se vogliamo, soprattutto quando sentirete “Di Vino” e “L’unica Cosa”. Anche se scritte anni prima tutte le canzoni conservano il loro fascino originario e resistono alle intemperie senza grandi problemi, segno di una grande capacità di esecuzione e di maestria negli arrangiamenti (gli unici rifacimenti qui presenti sono quelli di “Cristiana” e “L’Abbandono”). Da segnalare anche la presenza della Bandakadabra ne “Il Giorno del Mio Compleanno” e di Malika Ayane in “La Ladra”. Se proprio fosse necessario fare un appunto a questo lavoro, direi che magari un altro inedito ci sarebbe stato proprio bene, ma se ciò avrebbe significato l’estromissione dalla scaletta di qualche traccia allora è tutto perfetto anche così. Nulla da recriminare quindi ed ora non ci resta che aspettare il prossimo disco di questo gruppo che ha sempre dato lustro alla nostra musica. Lunga vita a Giovanni Gulino, a Carmelo Pipitone, a Ivan Paolini, a Paolo Pischedda e a Mattia Boschi! Lunga vita ai Marta sui Tubi!
Lucio Corsi – Vetulonia Dakar
Ultimamente ho una certa difficoltà nel capire i gusti musicali dei teenager di questo periodo storico, mi sono sempre più convinto che, ahimé, il modello inculcato dai vari talent show abbia generato un appiattimento creativo senza ritorno in cui tutto ciò che non è facilmente fruibile e rispettoso dei canoni ammiccanti musical-televisivi non possa in nessun modo trovare degli sbocchi. Fortunatamente mi sbaglio, e me ne sono accorto grazie al disco d’esordio di Lucio Corsi intitolato Vetulonia Dakar. Lucio è un ragazzo molto giovane, diciannove anni, che arriva dal grossetano, per la precisione da Val Campo di Vetulonia, e il suo EP è una piacevole scoperta. Sia chiaro fin da subito, non è un disco di rottura che da il LA a nuove sonorità nel panorama alternativo italiano, non rivoluziona il modo di concepire la musica, niente di tutto questo. Piuttosto utilizza gli strumenti classici della musica cantautorale ed esprime semplicemente se stesso e la sua stravagante personalità, aspetto non marginale per un ragazzo della sua età.
Gli arrangiamenti sono essenziali, si accompagna quasi esclusivamente con la chitarra acustica, e mantiene in tutto il disco un profilo lo-fi, quasi casalingo, che esalta i suoi testi e la sua interpretazione, ricorda decisamente il Bugo westernato dei primi tempi. La sua scrittura ha un approccio sensoriale, si affida alle sensazioni dirette, le osserva e le vive, e poi da queste prende ispirazione per le canzoni. Come già detto, arriva dalla Maremma, e il suo contesto natio è quello rurale e in tutti i brani è continuo il riferimento alla terra e agli animali, elementi che danno vita a metafore intriganti e giocose tipo Quando l’uomo di cocomero ebbe voglia di cocomero, lui si mangiò!. Ha uno stile maturo, non risolve mai un verso con rime scontate, e utilizza la metrica in maniera disinvolta da autore consumato, ciò è sicuramente l’aspetto più notevole e sorprendente del disco, supportato da una timbrica vocale che, anche se palesemente di ragazzino, è marcata e sicura.
Ne è la prova la canzone che chiude il disco, “Canzone per me”, che parla di un rapporto svanito e ormai lontano senza scendere mai a facili sentimentalismi. Anche se solo il 10% dei teenager italiani fosse come Lucio Corsi, mi sentirei molto più sereno.
The Great Northern X – Coven
Sono al secondo disco ufficiale i veneti The Great Northern X, hanno speso l’intero anno 2013 per dare vita a Coven. Si parla di Rock duro con complicanze sentimentali molto evidenti, la rottura metallica delle chitarre ammorbidita dalla voce calorosa, questo lavoro sembra arrivare da un’epoca ormai lontana. Forti sentori di vintage, adoravo gli Annie Hall. Perché dentro Coven appaiono forti le somiglianze con il primissimo Indie italiano, gli ambienti proposti portano esattamente a quel tipo di sensazioni, a quelle indimenticabili e toccanti situazioni. Poi bastano un paio di cuffie, chiudere gli occhi e abbandonare la mente per godere voracemente dell’ultimo disco dei The Great Northern X. Si parte con “Skunk”, e un sound vagamente Punk ci butta direttamente a tanti anni fa quando gli Atleticodefina erano considerati L’Indie. Molto dolce e orecchiabile il ritornello emozionale, strappa lucidità dagli occhi. Le chitarre urlano Folk nella ballata “Let’s Drown Our Sorrow”, sarebbe il caso di continuare a piangere ma di gioia. Bella, molto bella.
Tristezza come non ci fosse possibilità di reazione in “The River Song”, le canzoni tristi sono quelle che ci piacciono di più, poi quell’armonica materializza l’immagine di Jeffrey Lee Pierce, il ritornello segna il momento di maggiore carica emotiva di tutto il disco. Si tornano ad usare riff di Rock duro in “Dead Caravan”, tanti anni novanta dentro, parecchio Noise e zero voglia di sperimentare. Un brano distante dalle precedenti canzoni, sempre chitarre protagoniste e voce particolarmente riconoscibile. Ancora tanto Noise nella Post Ballata “Machine Gun Stars”, si ritorna nuovamente alla bellezza del passato, l’attuale mondo Indie italiano (se mai ce ne fosse ancora uno) non appartiene ai The Great Northern X. Loro hanno una visione nostalgica di suonare musica, hanno le loro idee da sviluppare senza l’aiuto di nessuna partecipazione, sono loro a suonare in assoluta autonomia (e presa diretta) l’intero Coven. Perché è importante dimostrare di essere capaci di fare un grande disco con le proprie forze e senza l’aiutino di qualche musicista di spessore. Tutta farina del loro sacco, liberi di piacere, liberi di accettare critiche. “Carol” è dura all’inizio, una pietra che viene man mano ad ammorbidirsi quando arriva il ritornello, il momento clou del pezzo. La forza indiscussa dei The Great Northern X è sicuramente il fatto che riescono ad esplodere tante sensazioni nei ritornelli, sono capaci di renderli unici e particolarmente attesi. Strappa lacrime oserei maldestramente dire. La chiusura di Coven passa per le note struggenti di “Fever”, è un peccato non lasciarsi accompagnare verso la fine di questo percorso tenendosi stretti per mano ai The Great Northern X, spegnere il cervello e buttarsi senza timore in questo viaggio. Un secondo disco dalle grandi aspettative, piacerà tantissimo e la band veneta avrà tutte le soddisfazioni possibili, in questo periodo musicale spento e ripetitivo loro sono giustamente qualcosa di bello e sensazionale. Chiudete gli occhi e iniziate a sognare, tutto il resto non conta nulla.
Bandit – Crash Test
In quel di Milano il settore artistico non conosce domeniche e propone di recente un nuovo interessante lavoro: Crash Test. Un disco scritto ed interpretato da Paolo “Bandit” Bandirali ed arrangiato da Luca “Bitti” Cirio, firmato Bandit. Il lavoro si sviluppa in una tracklist lunga nove click di Folk Rock, caratterizzato da testi impegnati (che a tratti rimanda al Rock n Roll di Bennato). Nella prima parte del disco, in particolare, si caratterizza per un alternarsi di musica ed intermezzi parlati (che richiama lo stile live degli Zen Circus), che fanno da introduzione alla traccia a seguire. Di certo una trovata molto originale (ed un’ottima opportunità per dar spazio ad un po’ di sano sarcasmo), che tuttavia spezza un po’ troppo l’armonia stessa del disco, portando l’ascoltatore allo skip degli intermezzi già a partire dal secondo ascolto del disco. Ciononostante, siamo innanzi ad un lavoro piuttosto maturo e che si fa ben ascoltare dall’inizio alla fine. L’album di debutto sembra avere seri intenti comunicativi. I temi, di elevato impatto con l’attualità, ruotano costantemente intorno al tema della vita, spaziando da intellettualismi del saper vivere, a romanticismi della necessità di amare (riprendendo al riguardo un amore a lunga conservazione già cantato dai Marta sui Tubi in “La Spesa” ben sei anni fa), a malinconiche, statiche prese di coscienza dell’io. Si esce fuori tema in traccia sette (“Quando C’Era Lui”), che, mio malgrado, suona un po’ come una nota stonata in un disco di così elevato contenuto morale. Non tanto per lo strumentale, il quale mantiene la sua vena accattivante, quanto per il testo, che la rende il vero neo del disco. Politica e musica sono due arti differenti: cantare la politica è un po’ come cantare un dipinto.
Il lavoro esordisce in prima battuta con “La Crisalide”, che senza dubbio merita qualche riga. Lo strumentale, impegnato in ritmiche Country e Folk che si fanno ben apprezzare, viene poetizzato attraverso un testo ricercato e di certo non banale. Il perno è il crivello del vivere la vita, del se è giusto o sbagliato viverla secondo lo standard collettivo. Ed all’interrogazione a scuola, nasce bene la risposta mi scusi prof ma io non ho tempo da perdere, meglio essere crisalide che ha tempo ventiquattr’ore per vivere al meglio. La scelta di aprire il disco con un pezzo così ben lavorato è (volutamente o meno) strategica e conduce inevitabilmente all’approfondimento dell’intero lavoro. La strategia si mantiene sofisticata, approdando alla terza traccia e realizzandosi stavolta attraverso uno stile cantato pressante che fa subito pensare al timbro martellante del Cristicchi (ancora una volta un forte riferimento). Il tema della vita accompagna una buona parte del disco, ritornando anche nella traccia numero cinque (che dà il titolo al disco). Stavolta si toccano le corde della malinconia, garantendo un inevitabile rifugio a chi l’ascolta. D’altra parte, la vena malinconica accomuna un po’ tutti ai giorni nostri. Ciò non toglie che siamo innanzi ad un buon lavoro, che merita molto più di un ascolto. Ottima sintesi del disco.
Il disco si chiude quindi con un mix fra il sound di Samuele Bersani e la versione Folk di Brunori Sas, addobbato ancora una volta con un testo che lascia ben poco spazio alla polemica. Il tema della vita che ha aperto il lavoro si ritrova così a ricamarne i titoli di coda con un richiamo lungo 4’02’’. Un gioco di parole lungo una canzone intera, lavorato al dettaglio fra assonanze e rime prepotenti che in modo instancabile chiamano all’appello la vita. Titolo: “La Vita”. Ed è così che il prologo si confonde con l’epilogo attraverso un piccolo dettaglio, che genera una ciclicità all’opera che si fa molto apprezzare. Dettaglio che, in questa sede, non trovo onesto svelare, ma che a parer mio, è una trovata prossima al geniale. Fossi al bar a parlar con amici, direi che è un ottimo disco, consigliandone l’acquisto (consiglio che, scoprendo gli altarini, dispenso anche a me stesso). Ma qui siamo alla correzione dei compiti di inizio anno e la severità non può essere opzionale. Il paroliere Paolo “Bandit” Bandirali meriterebbe senza dubbio un voto alla portata dei suoi ricercatissimi testi, ma il consiglio ha deciso di provocare la sua vena artistica, portandolo appena oltre la sufficienza. In rosso sul compito ho dovuto segnare le troppe ispirazioni mal celate. La musica è un tema, non un testo di reportistica.
Sun Kil Moon – Benji
Sesto lavoro di Mark Kozelek con il moniker Sun Kil Moon. Lo Slowcore dei suoi storici Red House Painters è lontano anni luce. Il prolifico Kozelek ama sperimentare – ben tre progetti nel 2013, nati da interessanti sodalizi e usciti per la sua etichetta, Caldo Verde Records – ma sembra sfoderare il moniker solo quando sceglie di tornare al Cantautorato incontaminato. Lasciate stare, non riuscirete a godere di Benji se lo scegliete come sottofondo ad una qualsiasi altra attività. Vi è concesso l’ascolto in macchina, ma senza meta. D’altronde trovo profondamente ingiusto non dedicare ad un cantatore il tempo necessario. Un’altra cosa ingiusta sarebbe tacere il fatto che in Benji muoiono tutti. Senza giri di parole. Che la morte fosse ricorrente motivo di riflessione per Kozelek era chiaro da tempo, ma non sono più i pugili adolescenti di Ghosts of the Great Highway a turbarlo. Molte delle scomparse premature di cui parla sono quelle di persone a lui vicine, e ce lo dice tutto d’un fiato. Mark è un cantastorie dei nostri tempi. Brani densi e lunghissimi, prosa schietta che si srotola urgente quasi senza alcuna attenzione a metrica e ritmo. Kozelek è sconvolgentemente diretto nel suo intimo rimuginare sull’assurdità della scomparsa di chi se ne va troppo presto. Le numerose collaborazioni (tra cui l’ex batterista dei Sonic Youth, Steve Shelley) passano forse un po’ inosservate.Il testo è tutto e non si affida ad alcuna metafora, le melodie ridotte all’acustico minimo sindacale, senza tregue strumentali.
Se ne esce spiazzati. Resto ancora un po’ in attesa di un tocco di Folk Rock – “Carry me, Ohio”, please – che però non arriva. Me ne faccio una ragione e vado avanti. Con “I Love my Dad”, fresca e Country e coi cori mutuati al Gospel, ho la sensazione che sia finalmente giunta una boccata d’aria dopo la tensione emotiva dei trenta minuti appena trascorsi. Salvo poi scoprire che il testo è uno dei più struggenti. Per dirne una, immaginate Mark bambino che torna a casa in lacrime per essere stato costretto a scuola a sedersi accanto a un compagno albino, e suo padre decide di spiegargli le meraviglie della diversità facendogli ascoltare un disco. Nella fattispecie They Only Come Out at Night, del rocker albino Edgar Winter. E se non fosse tutto così autobiografico come Kozelek vuole far crederci? Non importa, perché mi piace pensare che storie come questa accadano e inizio a considerarela possibilità che se tutti i padri si armassero di dischi per educare i propri bambini il mondo forse sarebbe un posto più carino.
È questo che farà sì che la cerchia di quelli che venerano Kozelek da sempre amerà Benji in modo particolare. Ogni storia è permeata di coinvolgenti dettagli del suo vissuto, e se la tradizione Folk americana da Woody Guthrie a Bob Dylan è vissuta di temi sociali e politici, Kozelek assume un’accezione decadente nella sua inclinazione autoreferenziale, in cui anche le tragedie collettive – in “Pray for Newtown”, quella Newtown del massacro alla Sandy Hook Elementary School del 2012 – sono osservate dal suo personalissimo punto di vista (le lettere che riceve da un fan che gli chiede di pregare per loro). Mi lascio trasportare da “I Watched The Film the Song Remains the Same”. Oh sì, sono di nuovo in Ohio. È la cronaca del percorso artistico di Mark, che inizia in un pomeriggio della sua infanzia passato a vedere il celebre film sui Led Zeppelin. Nel mentre, unico ma travolgente accompagnamento alla sua voce calda, una chitarra di ispirazione gitana. Sono grata per il fluire strumentale della mandola in chiusura che mi lascia il tempo di metabolizzare. È una concessione che pochi dei pezzi di quest’album fanno. “Micheline” corre in mio aiuto con un timido pianoforte e “Ben’s a Friend of Mine” (il suo amico di vecchia data è proprio quel Benjamin Gibbard dei Death Cab for Cuties) azzarda un sax, tornano le atmosfere a cui ci Kozelek ci ha abituati e scioglie in parte la tensione ma è un po’ tardi.
Forse è questo il limite di Benji. Non c’è spazio melodico per digerire. L’anima del songwriter ha prevalso su quella del compositore. Timore che sonorità più invadenti ci avrebbero distratto? Noi ti prendiamo sempre un sacco sul serio, caro Mark, anche quando concedi qualche incursione a suoni che ti appartengono forse meno. Perils from the Sea (dello scorso anno, con Jimmy LaValle) è stato un’intima poesia, e lo è stato anche perché sapientemente condito di elettronica minimale. Ok, l’ho detto. Ma che ti frega? Gira voce che quei tiratissimi di Pitchfork ti abbiano dato un 9.
Quanto a me…Pitchfork, nun te temo.