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L’Orage – L’Età Dell’Oro

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Da assiduo ascoltatore dei Modena City Ramblers (dei tempi d’oro) e da estimatore profondo e convinto di Francesco De Gregori, questo disco non poteva risultarmi indifferente. La band valdostana L’Orage, cui solamente le biografie dei membri raggiungono la lunghezza di un piccolo pamphlet o di un lungo racconto minimalista, me li riporta alla mente per motivi più che ovvi: come i primi, i sette musicanti della Valle si cimentano nella canzone d’autore in forma popolare, recuperandone stili, timbri e strumenti (ghironde, cornamuse, organetti, mandolini); il secondo, invece, pare apprezzarli parecchio, tanto da condividere con loro un intero concerto, tenutosi ad inizio 2013 a Saint-Vincent, andato sold out in pochi giorni.

Mi butto quindi alla ricerca del disco dei L’Orage, e scopro che i sette hanno da poco firmato con la Sony per pubblicare il loro primo disco “ufficiale” (i loro primi due dischi, Come Una Festa e La Bella Estate, autoprodotti e senza nessuna distribuzione, sono arrivati a vendere, negli anni, svariate migliaia di copie). Il nuovo disco, che contiene i brani migliori delle due produzioni precedenti oltre a tre inediti, titola L’Età Dell’Oro, e riesce anche, grazie a tre brani registrati dal vivo, a darci un senso delle loro esibizioni live.
Il disco è, senza dubbio, un gran disco. È suonato bene (anzi, benissimo), e davvero ci si ri-lancia nel paragone con i Modena City Ramblers, che, almeno secondo il sottoscritto, sono il gruppo Folk tecnicamente più riuscito che il Bel Paese abbia partorito da parecchio tempo a questa parte. Inoltre, L’Età Dell’Oro rischia anche di avere una vena cantautorale più approfondita, più studiata: la testa che Alberto Visconti presta alle liriche del gruppo è una gran bella testa, a quanto pare (la sua voce, invece, pare quella di un Max Gazzè meno folle, più cantastorie – non che sia un male).

Le canzoni dei L’Orage sono un misto di Folk, musica popolare europea e cantautorato uptempo, e risentono del meticciato etno-geografico della band. Ci si diverte e si sogna, con L’Età Dell’Oro, tra riferimenti a Rimbaud (“Queste Ferite Sono Verdi”, testo dello scrittore Dario Voltolini)e omaggi ad Apollinaire (“A Loreley”), una cover de “Il Panorama di Betlemme” (sempre di De Gregori), inni al “mondo della nuova musica acustica europea” (“La Canzone Dell’Orecchino”); o, ancora, si danza un lento levare con “Come Una Festa”, si viaggia con ballate di violini verso “La Bella Estate”, si cantano tradizionali francesi, come “La Voltigeur”, e si rimane stupiti nello scoprire una delle perle del disco, la bella “La Teoria Del Veggente” in versione live con in prestito la voce (sempre più ricca col passare degli anni, bisogna ammetterlo) di Francesco De Gregori.
Come sempre per i dischi che s’accostano al cantautorato, il consiglio è di approcciarlo senza cinismo, e farsi trascinare dalle storie e dalle suggestioni di questo stupendo melting pot di musicisti sospesi tra le Alpi e Torino. Il resto, credo, verrà da sé.

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Low – The Invisible Way

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Per i Signori Sparhawk, detentori da dieci dischi del logos Low, con queste ambientazioni fatte girare tra le pareti sonore del nuovo The Invisible Way molto probabilmente –  ma lo è di sicuro – è arrivato l’attimo, il tempo giusto per abbandonarsi a setacciare tutti i risvolti dell’anima fino alle più fitte intercapedini che vi ci si possano annidare; un pò di stacco vitale per ripulirsi dentro fa sempre bene, rischiarare il buio con la luce della tranquillità è l’input di un canzoniere, di un manifesto sonoro che si affina e addolcisce come un avvicinamento alla forma canzone in punta di piedi e nervi riposati.

Acustiche, liricamenti Folk, ispirazioni field e poesia nuda si fanno spazio tra ballate e Slowcore che attraversano la tracklist come aria dopo un violento temporale, una sensibilità introspettiva che diventa materia e aliante vitalità per un ascolto cameristico da dieci e lode, e quando poi la positività si riprende i tempi andati dei loro chiaroscuri, i Low cominciano a brillare talmente forte che diventano immediatamente fruibili per sognare dal profondo; il trio di Duluth (Minnesota) rinasce – se la vogliamo dire tutta  – in un cambiamento lineare che disegna trame e scansioni melodiche eccezionali, undici tracce che hanno il taglio appunto del profumo Folk, quella dose di malinconia tra ricordi e presenti che non diminuisce mai, una costante che tocca i momenti più cool – e ce ne sono tanti – dell’intera list. Vogliamo magari parlare di un disco elegiaco? Ebbene si, i Low sono raffinati a tal punto che crescono con l’intonsa espansione di un’alba d’autunno, si allargano tra acide ispirazioni e ieratiche atmosfere che è inutile provare a  trovarci un neo che sia un neo, sarebbe come cercare pelo in un covone.

Il pianoforte liquido che trema “Amethyst”, la spennata indolente sulle orme di Young “Holy Ghost “, “Clarence White”, l’epos peculiare che abita “Just Make it Stop” o la forte ispirazione che sta dietro le reiterazioni di “To Our Knees” saranno certamente le rivelazioni d’ascolto che più vi prenderanno, niente di pre-condizionato intendiamoci, col tocco dell’intensità toccante.

 

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GTO – Little Italy

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Gli umbri GTO – una delle autorità in campo Folk’Roll della scena espansa italiana – fanno cinquina col nuovissimo Little Italy, undici tracce da ascoltare e sudare insieme, suoni da ballare al ritmo caracollante della loro aria agrodolce che fa rientrare in forma col pensiero senza mai rinunciare a divertire. Maturi istrioni delle storie senza confini e delle parole senza ipocrisie, i GTO rimangono comunque sempre moderni “cantastorie” che si indignano e si divertono con una immutabile e incontenibile verve energetica, tanto da non esitare a rimettersi insieme – dopo una parentesi personale – e ricominciare il gioco delle argomentazioni messe in musica.

Undici brani per una Italietta che zoppica, i suoi difetti, scossoni, amoreggiamenti e disfunzioni, qualche soddisfazione e moltissime illusioni che disegnano nella critica un rapporto “Nazionale” poco affabile, buche e falle che fanno acqua nella patria del vino e il gioco accomodante di ritmi, languori sofisticati, visioni carretteire che conducono l’immaginazione oltre gli steccati della vista e che i GTO da sempre favoriscono agli ascolti con la loro gentile iniziazione al viaggio dei viaggi, di tutte quelle sensazioni scintillanti e meticcie che fanno grandi le circonferenze della musica: si,  i loro dischi sono viaggi sconfinati senza biglietto e che non mostrano nessuna ruga di stanca, non hanno peccati di vanità solo una forza magnetica che non ti fa staccare dalle loro poesie in movimento eterno, in movimento tra testa e cuore e qualcosa di più.

Metti il disco sotto l’occhio vigile del lettore e buon viaggio, tutta la forza gravitazionale del loro carattere girovago inizia a diffondere il marchio inconfondibile della formazione  umbra, vita, e personalità di prim’ordine che tange di solitudine la ballata pensierosa “Il Rude”,  di latin la titletrack, un pizzico conturbante di ondulamenti gipsy “Lumea Mea Este”, il decolté sinuoso della bella lussuria Mex “Granelli Di Sabbia” o gli echi che profumano di campagna, aia e danze nella genuina agitazione che “Festa Popolare” diffonde ed allarga come un amore arrivato alla sua dolce funzione. La vogliamo dire tutta? Un bella botta de vita che gira e rigira come una trottola, una piena torrentizia di professionalità, scioltezza e tutta la sana riconferma di una band che non ha più bisogno di presentazioni.

Una realtà “mobile” in forma smagliante. Bentornati!

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El Bastardo – Wood & Steel

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C’è crisi (non solo economica, pare). E nei momenti di crisi siamo tentati di ritrovare l’equilibrio attraverso un riassestamento: riscopriamo le nostre radici, le nostre storie, ci rifugiamo nella sicurezza del passato, nei suoi modi, nei suoi miti, nei suoi codici. Riallineiamo il nostro orizzonte piantando al centro del nostro campo visivo un axis mundi fatto di storie già sentite, e per questo leggendarie, naturali, sempiterne. C’è crisi, ed ecco quindi tornare in auge il revival della musica popolare americana, quella vera, Blues, Folk, Country, fatta di chitarre resofoniche, banjo, kazoo, armoniche a bocca, registrata come ai bei tempi, in presa diretta, naturalmente, in valli e campagne: una musica semplice, come una volta, per farci sentire a casa.
Fa parte di questo revival anche l’ultimo disco di El Bastardo, one man band torinese che (da tempi non sospetti, è importante sottolineare) bazzica questo ambiente roots, e che decide di regalarci, in Wood & Steel(questo il titolo, che ha già un certo sapore nostalgico) nove tracce di Blues, Folk, Country dimesso e sincero, onesto e lineare, “registrato col cuore e l’attrezzatura minima indispensabile in mezzo ai cinghiali e boschi della Valsusa”.

Le canzoni sono classiche, ben radicate nel terreno dalle quali provengono. Ci sono quelle malinconiche (“Waiting For”, banjo e voce contrita, o l’arpeggiata “Growing Alone And Fighting”), ci sono quelle più ritmiche e scanzonate (“Boogie Woogie Dance”, sporca e zoppicante, “Friendship is a Fuckin’ Business”, che sembra mostrarsi più ironica), ci sono un paio di cover ( “Out on The Western Plain”, portata al successo da Rory Gallagher – l’originale è di Lead Belly –, “Hit The Road Jack” di Percy Mayfield – conosciuta ai più nella versione di Ray Charles –, e il classicone d’inizio secolo scorso “The Entertainer” di Scott Joplin).
Non è un brutto disco, Wood & Steel, ma a El Bastardo probabilmente mancano la personalità e la bravura tecnica necessarie per sostenere (su disco, perlomeno) tutto questo peso sulle sue sole spalle. Non si viene rapiti da nessun virtuosismo, né si rimane incantati dalla sua voce o dal suo tocco, che forse non sono particolari quanto servirebbe. Non che El Bastardo non sia capace o non conosca ciò di cui si sta occupando, anzi: ma in queste nove canzoni non riesce a far affiorare la sua specificità, il suo valore aggiunto.

Come spesso mi accade quando ascolto dischi di questo tipo, mi risulta sempre molto piacevole la sensazione di genuinità, onestà e sincerità di chi si lancia in operazioni del genere. Spesso, però, purtroppo, ci si ferma lì. Ed è un peccato.

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Neve su di Lei – Cerco la Bellezza

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Cosa c’è di più incantevole di un adulto che rimane bambino? Si nutre di fiori, di accordi soffici, di coloratissimi orizzonti, di storie da raccontare e di melodie appena sussurrate, con la voce di chi non vuole disturbare troppo. Per rendere ancora più surreale la situazione, il contorno è condito da abiti e stile da hippie. No non siamo a Woodstock nel ‘69 ma a Genova nel 2013.
Cerco la Bellezza è il primo disco di Neve su di Lei, progetto naturale quanto ambizioso di Marcella Garuzzo, ragazza che nasconde dietro la semplicità delle dodici tracce arrangiamenti e intrecci musicali visivi e tattili (grazie anche alla preziosissima collaborazione e produzione di Ruben). E il suo Cantautorato prende spunto dalla purezza degli antichi cantastorie e viene plasmato grazie alla genuina ingenuità della fanciulla.

Le farfalle iniziano a diffondersi già ne “La Mattina Nel Quartiere Dei Fiori”, tutti i colori vengono a galla e la sensazione è quella di una storia raccontata una domenica mattina da una solare bambina ai suoi genitori ancora nel lettone.“Cosa Sono io?” è vera a costo di risultare banale. Ce ne fossero di canzoni che ci ricordano in questo modo quanto è meravigliosa la banalità: “i secoli non hanno cambiato le donne e gli uomini, tutto questo che facciamo è per essere amati”. Le venature di malinconia non mancano nel grande cuore della ragazza, potentissima antenna per tutte le emozioni che virano in aria, catturate e soffiate nell’etere dalla soave e tenera voce. “Cerco la Bellezza” sfuma in una lacrima quando Marcella ci dice: “ogni tanto sono triste come un bambino che ha un eroe che sa di non poter raggiungere”. La bellezza noi l’abbiamo trovata e il cielo si riempie di altri colori ancora.

La sensazione è di continuo e lento movimento, ben sottolineato in un intenso e allo stesso tempo spensierato brano: “Un Viaggio, Stanotte”. Tutto si muove ma torna sempre a casa. Questo non è un semplice percorso ma un viaggio. Una strada dove annusare la natura, da percorrere a piedi nudi, con il fitto manto erboso sotto di noi che ci accompagna verso una accogliente e sicura dimora.

Il finale del disco è ancora più scarno e incentrato su parole ben pesate. Favole che Neve su di Lei fa sue e trasmette con la naturalezza delle sue corde vocali ormai quasi confuse con quelle della sua chitarra acustica. Fiabe vicine e lontane: la triste storia del Vajont in “Torneranno Alla Terra”, storie di paesaggi incantati, di misteriosi e curiosi personaggi (“Il Segreto dell’Oleandro”), racconti tra sacro e profano (“Rural Indie Camp”).
In Cerco La Bellezza sicuramente mancano i graffi, la malizia e le grida tipiche della musica giovane e ribelle che inonda la nostra webzine. Ma questo disco con la sua totale pacatezza e con la sua pace interiore rilassa mente e corpo. Insomma se i risultati sono questi speriamo che Marcella non cresca mai, di adulti disillusi e brontoloni siamo già strapieni.

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Bicchiere Mezzo Pieno – Il Contrario di LOL

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Inizio col dirvi che il voto che ho appioppato a questi stramboidi del Bicchiere Mezzo Pieno per il loro esordio Il contrario di LOL è un voto gonfiato. Nel senso: prendendo le sei canzoni di questo variopinto Ep autoprodotto una per una e valutandole singolarmente, probabilmente non arriverei a tanto; e, similmente, senza aver letto la loro presentazione al disco (disponibile sul loro Soundcloud), difficilmente sarei stato così bendisposto.

Intendiamoci, non sarei sceso di molto: Il contrario di LOL è divertente, scritto e suonato bene, colorato e simpatico, pieno zeppo di cose diverse. C’è il Rock, generico e ampiamente declinato in tutte le salse; c’è il Folk, da chitarra acustica e da lunghe code parlate, quasi teatrali; c’è un’infarinatura Punk nell’anarchia totale delle variazioni sul tema. Il Bicchiere Mezzo Pieno è un frullato di spunti, di idee, di visioni allucinate (o forse anche troppo lucide).

I punti in più il Bicchiere Mezzo Pieno se li piglia per tutto l’impianto architettonico che sottende a Il Contrario di LOL: l’idea dell’arrangiamento misurato al contenuto del pezzo, o le citazioni, infilate per analogia o contrappasso, così come i sotterranei riferimenti “meta” al senso dell’Arte, e quindi della Musica e della Canzone (“Non Chiedermi ti Prego”, “Cabaret”) – un tocco sensibile che, forse, dev’essere ancora sviluppato al massimo, per centrare il punto con più efficienza, più sicurezza, più chiarezza (verso l’ascoltatore – non diciamo, per l’amor di Dio, “medio”… però ecco, se magari non fosse assolutamente necessario leggere un papiro di spiegazioni varie per capire tutto questo, non sarebbe male… no?).

Ecco quindi confessati i miei peccati: un voto leggermente gonfiato, causa intelligenza suggerita, ammiccante, semi-nascosta. Attendiamo nuovi sviluppi per poter elargire voti più sinceri, ma con gli stessi applausi.

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Stefano Bartalesi – Mezzovòtomezzopieno

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Parto prevenuto su questo disco, perché Stefano Bartalesi, che firma tutte le musiche di Mezzovòtomezzopieno, è un chitarrista: scopro dai credits che suona “chitarra acustica, dobro, mandolino, lapsteel elettrica”, e che è circondato da una band, batteria basso chitarra voce. Già mi immagino un disco fintamente colto, roba simil-Jazz o quasi-Classica. “E dai, spariamocelo”. Lo infilo in auto mentre sto andando a grigliare allegramente per il Primo Maggio, sfrecciando perduto in una campagna assolata. E Mezzovòtomezzopieno mi sorprende.

Già dal primo pezzo, “Solo Amore”, stranissimo brano uptempo sulle orme di Battisti, con un testo che non brilla ma di cui posso tranquillamente ignorare le parole per concentrarmi sulla linea vocale retrò e sulle ritmiche ballerine. Proseguo con la title track, e inizio a notare il doppio binario che caratterizza il disco: brani cantati, più “popolari”, affiancati da brani strumentali (lunghi brani strumentali), in cui Bartalesi sviluppa le sue doti chitarristiche e il suo talento compositivo. A questi ultimi appartiene “Mezzovòtomezzopieno” (la traccia), ossessivo e ritmico danzare di dobro, basso e chitarra elettrica. Più avanti, “Urlo” continua la sequenza strumentale, per poi farci approdare a “Se Chiedi”, cantata, dove si arretra un po’ rispetto alla sorpresa iniziale (è un pezzo effettivamente più classico, dove la voce di Andrea Bacchi, invece di stupire, si ritira su posizioni più impostate e decisamente meno interessanti). A seguire “Dobro Jutro” e “Aria”, cavalcate  strumentali, “I Giorni”, cantata (più intimista, col solo accompagnamento di Bartalesi alle chitarre acustiche, dobro e mandolino), e di nuovo le lunghe strumentali “Lo Scoglio” (molto orecchiabile) e “Picture In A Picture” (in cui le acustiche, il dobro e la lapsteel si inseguono tra riff catchy e suoni pizzicati ruvidi e molto naturali).

Dopo aver grigliato, bevuto e digerito, torno in auto per ri-godermelo nel ritorno campestre. E metto sicuramente più a fuoco ciò che di questo disco non funziona. Lo sintetizzerei così: c’è talento, ma non c’è sforzo. Se c’è, doveva essercene di più. In che senso? Nel senso che Mezzovòtomezzopieno sembra un patchwork, un mostro di Frankenstein. E, anche se per alcuni versi questo è un bene (l’equilibrio – sebbene precario – tra musica strumentale e “virtuosa” ed episodi più popolari e di facile ascolto pare reggere anche al secondo passaggio), il resto fa sembrare questo disco un’accozzaglia di brani (anche piacevoli) messi assieme un po’ per caso e buttati lì come esercizio compositivo/virtuosistico. Non c’è qualcosa che leghi i brani tra loro (e se c’è non si nota), e in più si respira un’aria di approssimazione (qualche errore ritmico di batteria impossibile da non notare, il booklet in cui manca un titolo, i testi non eccelsi – anzi…).

Concludendo: il disco è ottimo per scampagnate ad alto volume, o anche per tuffarsi senza troppi pensieri in mari di corde, istintive e grezze, ma anche immediate e, stranamente, non noiose. Per cercare qualcosa di più, o aspettate il prossimo lavoro del Bartalesi, sperando che sia più ragionato e meno “di pancia”, oppure navigate verso altri lidi (che non mancano).

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Persian Pelican – How to Prevent a Cold

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How to Prevent a Cold è il secondo album di Andrea Pulcini (in arte Persian Pelican), ed esce a quattro anni di distanza dal disco d’esordio These Cats Wear Skirts to Expiate Original Sin. Le nuove canzoni nascono tra Roma e Barcellona e fermentano durante un anno di attività live proprio nella capitale catalana. Persian Pelican è un progetto di musica Folk manipolata geneticamente in cui cantautorato, Folk e quotidianità si mescolano per creare una magica atmosfera musicale in bilico tra il freddo della morte ed il calore dell’amore.

Apre il disco “Everyone With His Own Past” di cui è facile comprendere l’argomento, per poi proseguire con il singolo “There is no Forever For us”. Un brano dal video ironico che mostra il giovane artista in abiti da sposa intento a scavare una fossa tra gli alberi di un bosco, una lei total black con tanto di maschera anti gas, ed un morto (l’artista stesso) che alla fine viene seppellito. Beh un po’ come in “Back to Black” di Amy Winehouse non trovate? Il senso è il medesimo, e anche se qui non è il cuore a essere interrato ma l’intero corpo, la questione non cambia. A parte questo è difficile collocare Andrea Pulcini all’interno di un genere preciso, le parole più appropriate che mi vengono in mente ora per descrivere il suo stile sono: fanciullezza e profondità. Si, perché la sua voce è imponente, calda e importante mentre i suoni che lo circondano ricordano la spensieratezza della fanciullezza, di un carillon e di un’arpeggiante chitarra acustica. La quarta traccia “How to Prevent a Cold” oltre ad essere colei che intitola l’album è anche un’ottima, forse la più interessante traccia dell’intero disco. Un brano che ricorda l’immagine di un raccontastorie che t’incanta con le sue parole ed il suo sorriso smagliante mentre giace al centro di una distesa verde infinita, magari una prateria irlandese. Stupendo inoltre è il mix tra pacate dolci voci e chitarre acustiche, in contrasto con una batteria incalzante e travolgente. Tutto il disco continua verso questa linea, tenendo sempre la voce in primo piano e suoni dolci e spensierati come contorno. Molto bella è l’acustica, delicata e sensibile traccia “Dorothy”, che vede la partecipazione di archi malinconici e di cui è stato girato un fantastico videoclip, dove una pallida donna sempre in nero (come a simboleggiare la morte dell’amore) è intenta a ballare, giacere, guardarsi su di un tavolo al centro di un prato.

Un disco che osserva la dualità e l’ironia che l’amore rappresenta nel profondo di ognuno di noi, tra freddezze e fiamme ardenti, tra casualità e normalità. Un disco che si sofferma a  pensare e analizzare quelle sottili contraddizioni che spesso vengono ignorate.

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Barranco – Ruvidi, Vivi e Macellati

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Sanno come presentarsi i Barranco, band folk sui generis dalla bassa padovana. Artwork ricercata, ma soprattutto prodotta in 300 copie numerate in legno fatte a mano (!). Vi dico solo che me n’è arrivata una omaggio per la recensione ed è effettivamente fatta bene, intrigante quello che basta, e chissenefrega se risulta un po’ scomoda per trasportare il disco di qua e di là: se i Barranco volevano incuriosirmi, ce l’hanno fatta.

Ruvidi, Vivi e Macellati è un disco molto strano. Si parla di Folk, ma non la rivisitazione indie da Mumford & Sons a cui siamo abituati ultimamente: proprio Folk, atavico, ancestrale, fatto di chitarre, ukulele (?), concertine, mandolini, più Branduardi che Modena City Ramblers. Quasi medievale, direi: l’uso della voce, particolarissimo, così come le armonie vocali, e l’andamento generale delle canzoni, tutto porta indietro nel tempo, in un immaginario pittoresco e affrescato da liriche spesso cupe, quasi mai banali (che però non ho trovato da nessuna parte. Un peccato: avrei volentieri approfondito la questione).

Tornando ai Barranco: il disco procede dritto, senza troppi scossoni. La maggior parte delle canzoni sono ballate sospese, tra ritmi mordenti di chitarra, percussioni pungenti e un impianto vocale da cantastorie d’altri tempi, con qualche episodio che si discosta un po’ dal sentiero (“Astenia”, “Milite”). Un po’ più di varietà non avrebbe guastato, però come full lenght di debutto non mi sentirei di chiedergli altro. Piuttosto, la produzione: si sarebbe potuto fare meglio. Ruvidi, Vivi e Macellati gira, non si può dire altrimenti, però a volte suona troppo frizzante, troppo alto, e poco definito. Niente di male: bisogna sempre lasciarsi qualcosa alle spalle, come scusa per tornare. E noi aspettiamo molto volentieri il futuro ritorno dei Barranco, guitti sanguinari.

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ILA & The Happy Trees – Believe it

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Roba da donne. E se questo significa bel timbro, bella musicalità e bell’intonazione, sia in italiano che in inglese, allora sì, è roba da donne. Sono l’ultima che si metterebbe a fare un discorso da femminista, anche se le femministe sono molto punk, ma per come è andato il mondo, soprattutto passato, nel quale le donne musiciste (sorelle, mogli e madri dei grandi geni) sono state messe nell’angolo per il troppo grande ego dei loro uomini, e degli uomini in generale, allora sì, penso che il mondo si sia perso, se non qualcosa di necessariamente grande, almeno qualcosa di bello. E Believe It, il nuovo album di ILA & The Happy Trees, lo è.

Ila è una cantautrice genovese, inizia a suonare a 17 anni, nel 2004 esce il suo primo singolo Penso Troppo, nel 2007 il suo album completo Malditesta, nel 2011 Little World, dopo due ep, e finalmente nel 2012 esce Believe It. L’album si muove tra l’italiano e l’inglese (e come lei stessa dice “se sapessi dieci lingue penso che le userei tutte”) senza perdere significato, precisione e atmosfere che vanno dal cantautorato italiano più melodico, a quello d’oltre oceano per certi versi più country, con qualche soffio dark e ambient. Il mondo d’appartenenza è quello acustico, in cui la voce e la chitarra (l’ukulele e la kalimba) di Ila vengono accompagnati dalla batteria e percussioni di Teo Marchese, dalla chitarra acustica, il banjo e l’ukulele di Lorenzo Fugazza edal basso e dai cori di Paolo Legramandi. Inoltre ospiti speciali del disco sono il cantautore italo-brasiliano Franco Cava e la violoncellista svedese Katy Aberg.

Tante persone, tanti colori e tante esperienze che si incontrano per un album per certi versi solare, dove protagonisti siamo tutti noi, con i nostri sentimenti, le nostre paure, ma con una grande voglia di credere in qualcosa, di fare tanto e di lavorare per cambiare ciò che ci sta stretto. Come si legge sul sito della cantautrice “Questo è un disco che potrebbe infastidire i più cinici”, semplicemente per le atmosfere belle e soprattutto propositive che quest’album emana. Con le sue dodici canzoni che senza dirlo esortano ogni giorno a trovare tre cose belle che sono accadute. Un esercizio che faccio costantemente e che mi aiuta, e aiuterebbe tutti, ad allontanare il grigiume che opprime questa vita frenetica. “Believe it è così: all’inizio non riesci a capire cos’è quella sensazione che le dodici canzoni ti lasciano addosso”, ma ci vuole davvero poco per innamorarsi di Ila e della sua musica, che dopo un paio di ascolti diventa familiare, come il prendersi un caffè al bar con vecchie amiche, ricordando le risate dei tempi passati, o come la musica lasciata andare sotto a fotografie  che imprimono i momenti più belli di una vita.                                                  
Insomma, una musica che lascia addosso belle sensazioni e belle emozioni, che non va tanto spiegata ma soprattutto ascoltata e vissuta, ogni giorno.

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Edaq – Dalla parte del cervo

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Scartare un album è come scartare un regalo di natale, soprattutto se il suddetto non si conosce. Dalla prima occhiata alla copertina si entra in un mondo tutto nuovo, fatto di cervi, di praterie, di atmosfere e sapori lontani, di gonnellini scozzesi e di quella natura selvaggia tanto preziosa, quanto dimenticata. Tutto questo gli Edaq (acronimo del nome originale Ensemble D’Autunno Quartet) lo raccontano nel loro lavoro d’esordio Dalla Parte del Cervo, album di dodici brani, strumentali, suonati e goduti per circa sessantasette minuti.

Ogni strumento è chiaro e centrato in un genere che va dal popolare al folkloristico più marcato, in quelle danze abbracciate in gruppo, che si evolvono in melodie malinconiche che mi ricordano un’America vuota e abbandonata, al contrario di altre che sanno di piccoli paesini francesi, allegri e festaioli. Non mancano le melodie più contemporanee, con una puntina di sperimentazione, che subito ritornano all’idea primordiale, di tradizione (quasi classica, che ricorda la musica antica) e di danza, come il valse, la polca e la bourrèe, in ritmo ternario, veloce e friccicante per la voglia di battere le mani. Bella la rilettura dei classici “bal-folk” europei, il tutto fatto con la massima libertà espressiva senza tradire lo spirito dei brani originali. E come loro stessi dicono “Cerchiamo di fare in modo che questa musica diventi una sorta di arte popolare, per essere più precisi di artigianato popolare, in cui si vanno a mescolare diversi linguaggi multimediali”. Come diverse sono le esperienze, le collaborazioni e le estrazioni culturali dei componenti dell’ensemble, formata da Francesco Busso alla ghironda, Gabriele Ferrero al violino, Flavio Giacchero alla cornamusa e clarinetto basso, Enrico Negro  alle chitarre, Stefano Risso  al contrabbasso e Adriano De Micco alle percussioni.

Un bell’esordio, con un album che non è fatto per tutti, ma che tutti dovrebbero ascoltare per riscoprire da dove veniamo e dove dovremmo andare. Una musica che va ascoltata attentamente per carpirne i cambi di tempo, le dinamiche, il diverso colore degli strumenti, come la cornamusa e la ghironda (un cordofono di origine medievale) e tutti quegli elementi nascosti nei molteplici minuti di questi dodici brani, molto lontani dalla noia, che a volte attanaglia l’esistenza di alcuni album, fatti solo di suoni assordanti.       
Insomma, in poche parole, un ottimo esordio e un’ottima conoscenza.

                                                                                                                                                               

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Balagan – Nonostantetutto

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Da Vicenza passando idealmente per gli States, i Balagan ci regalano questo disco, autoprodotto, di blues scuro, folk strascicato, con qualche incursione jazz e samba: un album notturno, da bar gonfio di fumo, col biliardo in un angolo e un barista scontroso oltre il bancone.
I Balagan sono chiari fin dal principio: figli di Tom Waits, basano la loro musica crepuscolare e ruvida sul binomio “voce di carta vetrata” + “atmosfere retrò”. E il connubio è vincente: tra cantautorato da strada e un tono colto, come da concerto a teatro. Strumenti folk, perlopiù, dove comandano i pianoforti e le chitarre, i primi leggeri e sognanti, le seconde ondivaghe e tremolanti.
È bellissimo farsi trasportare in questo mondo di buio con poche, incerte luci a segnare la strada. Davide Ghiotto ci culla sussurrando rauco nelle nostre orecchie, mentre il resto della banda lo accompagna, tra arrangiamenti sapienti e un gusto che si percepisce studiato e di classe.
Il fantasma di Tom Waits è sempre presente, così come il suo emulo italico Capossela (Gatti = Contrada Chiavicone?), insieme a qualche eco da cantautore nostalgico (leggi: Francesco De Gregori in Meste’), fino ad arrivare al recital di USS Constitution, brano che chiude il disco.Sono proprio gli “inciampi” (se così vogliamo chiamarli) a rendere questo disco un piccolo scrigno di perle (penso a Venere, così cantautorale, o a Samba blue, così… samba).
I testi, sebbene alla prima lettura possano sembrare nudi, scarni e poco ispirati, vengono totalmente stravolti dalla voce di Ghiotto, che riesce a far passare, attraverso versi che spesso sembrano filastrocche in rima baciata, una passione e un sentimento che non avremmo creduto potesse abitarli.
Un disco onesto, sincero, suonato e arrangiato bene, forse troppo appoggiato su questa voce così particolare, e che allo stesso tempo ci ricorda (molto? Troppo?) spesso qualcos’altro. Un disco da ascoltare in auto viaggiando nel buio, o seduti in poltrona bevendo da un bicchiere senza fondo, ad occhi chiusi.

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