Un bellissimo titolo, Fondamenta, Strutture, Argini. Azzeccatissimo. I brani di questo bel disco de Gli Altri, quintetto savonese, sono sudati, graffianti, impulsivi, come a combattere una geometria, un’aridità del paesaggio che li (ci) circonda.
Fondamenta, Strutture, Argini è una sorta di concept su “la mutazione degli spazi, del territorio, dei modi di pensare e di vivere, l’individualismo”, con testi diretti, senza fronzoli, che si salvano dal rischio di apparire banali soprattutto quando raccontano, immediati, una necessità personale, un’ansia particolare, la voglia di urlare nel vuoto, con la propria voce, e non con quella di un insieme, di una generazione, di una classe sociale.
Musicalmente mi ricordano i Linea77 più hardcore, soprattutto per la parte vocale, cadenzata, urlata, dove la melodia non esiste. C’è la rabbia di certi NiCE, c’è il caos, il rumore, il furore, insieme ad aperture e dissonanze noise/shoegaze in zona One Dimensional Man/Teatro Degli Orrori, e lontane eco di cantilene alla Peggio Punx: in effetti, a tratti, gli anni ’80 del punk italiano affiorano nei testi de Gli Altri, soprattutto quando si parla di inadeguatezza, di solitudine, di insofferenza. Alcuni brani (penso soprattutto ai due strumentali, “06:33” e “Istanbul”, ma anche alla lunga “Cera”) aprono pozzi di rumore e architetture sonore in cui è obbligatorio sprofondare, immersi tra il piacere di perdersi e l’inquietudine per il dover subire ondate su ondate di distorsioni vibranti e ritmiche incessanti.
Ma ciò che rende veramente Fondamenta, Strutture, Argini un prodotto interessante è l’intuizione che sta dietro la visione d’insieme: l’inadeguatezza del singolo, la propria impotenza, che viene specchiata nell’ambiente, artificiale e non, circostante. “Fra le fessure / lungo i margini / nei solchi rifiutati / negli interstizi abbandonati / il mio solo spazio possibile”, oppure “Noi due soli sulla spiaggia, ombre viola sulla sabbia / e all’orizzonte ciminiere, cave e isole nascoste / un cimitero a cielo aperto, schiavo degli investitori / ecomostri di partito, piattaforme e tricolori”, e ancora “Costretto dagli spazi imposti da geometrica complicità / imposti nel silenzio, in scatole compresse / legittimati da un modello che si pone come un solo paradigma / un unico sistema”: l’interno e l’esterno si confondono, in un discorso in cui si fatica a distinguere la precisa linea di demarcazione tra emozione umana, così cangiante e viva, e freddezza del metallo, del cemento, della pietra.
Da ascoltare pensando alle baracche, ai muri scrostati, ai lavori in corso infiniti, alle buche per strada, ai palazzi vuoti e anneriti dallo smog… insomma, alle nostre città, simboli perfetti del caos esistenziale che ci portiamo dentro.