Francesca Borrelli Tag Archive

Pixies – Ep-1

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Questa è una recensione disillusa e triste. Se vi aspettate belle e rassicuranti parole sui Pixies di Ep-1 non le troverete qui, oltretutto oggi piove e questo non aiuta. Ma tant’è.

Questa è una recensione sui Pixies che però di Pixies hanno ben poco. Nata nel 1986, la band di Boston inizia da subito a farsi notare grazie al suo nuovo modo di fare musica che creerà un inedito e alternativo linguaggio sonoro di cui faranno tesoro numerose band dagli anni Novanta in poi. Il loro sfaccettato e personalissimo Garage Rock misto all’Hardcore nato dalla lezione dei Pere Ubu, The Stooges, Velvet Underground e Clash è un composto eccezionalmente frenetico, acido e distorto ma nello stesso tempo melodico. È il 1988, esce Surfer Rosa disco che resterà definitivamente tra i capolavori del Post-Punk e porterà i Pixies ad essere ricordati come una delle colonne portanti dell’Indie Rock degli anni Ottanta. Ma quel che è stato è stato, torniamo su Ep-1 loro ottavo album, autoprodotto e realizzato senza l’indispensabile presenza di Kim Deal, basso, voce e chitarra del gruppo che,dopo ventisette anni di permanenza, decide di lasciare Black Francis & Co.

L’Ep di quattro tracce, si apre dolorosamente con “Andro Queen” 3.24 minuti di noia portati a spasso da pallide chitarre e da una nebulosa batteria; pezzo che va avanti per inerzia, un ibrido ascolto inadatto sia all’amante del Rock più energico che al pacato ascoltatore Pop. Le cose non migliorano affatto con “Another Toe”, brano annacquato, dal retrogusto americano che si trascina a fatica per tutta la durata. I nostri provano a rialzare le sorti con “Indie Cindy”, (che di Indie non ha proprio nulla) ballata flemmatica inutilmente rockeggiante. L’unica nota positiva di questo lavoro è l’ultima traccia, “What Goes Boom” dove finalmente torna a farsi sentire qualche schitarrata come si deve e Black Francis pare gridare: “Sì ragazzi, ce la possiamo ancora fare!”. Ma, in sostanza, dell’originario ritmo sincopato e delirante nessuna traccia, niente resta di quei riff vigorosi e abrasivi, nessun Punk dal ritmo sfrenato e selvaggio, solo piattume. Ascoltarlo più volte non aiuta, anzi testimonia il lavoro di una creatura ormai arrugginita il cui estro creativo sembra essersi dissolto.Primo di una serie di release che attendiamo con ansia (sperando siano migliori), Ep-1 è un lavoro sfibrato, palesemente forzato edi una staticità snervante. Un disco che mentre lo si ascolta si è già dimenticato.

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Inert Project – Heartburn

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Non c’è storia, Heartburn di Inert Project è un lungo e appassionato amplesso con il cinema poliziesco degli anni 70.

È questo che ho pensato subito dopo aver ascoltato l’intero album. Poi, leggendo la nota biografica, è arrivata la conferma; dietro al progetto INERT si nascondono Raffaele Cileo (electronics) e Alessio Lottero (guitars) uniti dalla passione sfrenata per le colonne sonore di film noir e polizieschi; a dividerli, invece, sono i settemila chilometri che corrono tra New York, metropoli in cui vive e lavora Alessio e Pontassieve, la città toscana di Raffaele. Ma Heartburn, loro primo lavoro, dimostra che la distanza non rappresenta un ostacolo, le vie del web sono infinite. Ecco che un album di forte stampo cinematografico prende forma grazie alle fitte corrispondenze virtuali fra i due collaboratori. Fondamentale per lo sviluppo del disco è l’incontro con Beppe Massara, anima della Tarock Record che decide di produrre l’album affidando però le originarie sezioni ritmiche elettroniche a quattro musicisti pugliesi: Paolo Ormas, Marco Nicolini, Costantino Massaro e Francesco “Frums” Dettole.

In questo lavoro non c’è soluzione di continuità, niente è scontato e prevedibile, niente è netto o definitivo; tutto è in divenire. Questi due artisti sembrano aver incamerato nel corso del tempo diversi generi musicali per poi risputarli fuori sotto forma di Heartburn, disco che trae nutrimento da un immaginario musicale frastagliato tenuto comunque in equilibrio da una netta linea Funk Rock tendente al Jazz. Ma non basta. Questi alchimisti del suono c’infilano anche Lounge, Fusion, Industrial, Blues e sonorità afro. La sovrapposizione di suoni è evidente in tutti i loro pezzi che sembrano patchwork stilistici non sempre riusciti. “Police Radio” potente brano d’apertura richiama la base Funk tipica di The Pop Group e col suo suono pieno e pulsante sembra una folle rincorsa verso non so che. “Smokey” parte come la più Jazz del disco ma poi un’offuscata chitarra s’introduce per cambiare le carte in tavola trascinando tutto su un versante più Rock. “Land of Liars, Thieves And Bitches” è la traccia più oscura dell’album che, fredda e minimale crea un’inquietante e cupa atmosfera enfatizzata da metallici suoni Industrial. “Call The Coronal”, un Dub-Funk alla 23 Skidoo è un pezzo energico e veloce che ha urgenza di esprimersi a tutti i costi. L’intro Prog dell’ultima traccia “White Coffin Blues Pt2” fa pensare ai più pacati Tool ma poi tutto si dissolve quando ci si avvia verso il pallido leggerissimo finale. Un disco, Heartburn, non proprio dei più accessibili per la sua complessa struttura di fondo, un lavoro che per discontinuità di suoni rischia di confondere e disorientare l’ascoltatore. Personalmente avrei preferito una chitarra di stampo meno accademico, più libera da tendenze classico-didattiche sì, perché lei arriva come una maestra bacchettona a riportare ordine dove si cercava di sperimentare (“The Henchman”, “Bad String”). La chitarra che avrei voluto è quella sporca e ruvida che arriva al minuto 1.36 di “White Coffin Blues Pt2”, ma questo è qualcosa di personale.

E intanto, mentre ascolto, non posso far a meno di immaginare impostori, ladri e puttane inseguiti dalla polizia. Ma la polizia non ce la fa.

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