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Adolfo De Cecco – Metromoralità
Se non fosse per l’anagrafe che lo lega fermamente alla terra abruzzese, sarebbe fin troppo facile scambiare Adolfo De Cecco per un cantautore uscito dai Folk Studios di Roma negli anni settanta.
Metromoralità è un disco che , prodotto artisticamente dal maestro Vince Tempera, noto ai più per essere stato l’autore o il coautore delle sigle di diversi cartoni animati degli anni settanta e ottanta (uno tra tutti Ufo Robot Goldrake) e da Guido Guglielminetti, da anni fido bassista di Francesco De Gregori, trasuda però influenze dal grande Bob Dylan e dai nostrani Claudio Lolli e Luigi Tenco. La title track ha tuttavia il sapore della protesta degli anni sessanta sostenuta da versi polemici quali “L’Italia è il paese della memoria di una generazione che non farà storia” contrapponendosi nettamente a “Tempo Tecnico” in cui si citano Beatles, Rolling Stones, Iphone, Facebook, Kerouac e Hemingway. Del resto essere al passo coi tempi musicalmente oggi significa anche raggiungere le generazioni moderne con testi semplici ed essenziali ma mai banali quali delle due canzoni appena citate. In “Chiara che Pensi?” c’è tutto l’amore di un cantautore che appare già abbastanza maturo con il suo secondo disco ufficiale. I versi di “Metromoralità” che mi hanno colpito maggiormente sono “Touchscreen il mondo è uno schermo che se lo sfiori lo muovi ma se non ci finisci dentro oggi magari non vivi”; ritratto perfetto di una società informatica che ci ha fagocitato nel giro di appena un ventennio? Non so sinceramente se le intenzioni di Adolfo De Cecco fossero quelle da me percepite, ma sarei pronto a giurare che sia così…
“Il Tempo dell’Amore” è invece una ballad che non avrebbe sfigurato se uscita dalla penna di Neil Young o di Jackson Browne (di certo di tutte e dieci le tracce dell’album è quella che si discosta di più dallo stile italico). “L’amore Paziente” e “Canzone Semplice” ci rimembrano il già citato Francesco De Gregori mentre “Come si Coltivano i Fiori” ci fa ritornare nel giro di pochi secondi alla scuola americana. Poco meno di dieci minuti e sole due tracce, “Dietro le Nuvole” e “A Cena da Soli”, ci separano dalla fine di questo disco, che ha saputo con la sua semplicità ed eleganza stupire in ogni singola nota. Merito anche delle prestigiose presenze? (Vince Tempera, Guido Guglielminetti, Elio Rivagli, Alessandro Arianti per citare i più importanti). Io credo che forse questi grandi nomi avranno certamente avuto il loro peso nella qualità di quanto ascoltato, ma di certo Adolfo De Cecco ci ha messo tanto talento, passione ed entusiasmo.
Edoardo Borghini – Fumare per Noia
“Ci riproviamo, ci ricaschiamo”: così comincia Fumare per Noia secondo (capo)lavoro di Edoardo Borghini, giovane cantautore livornese, che vuol dare un seguito al suo primo omonimo disco. Forse questo titolo perché l’artista vuol subito chiarire che, per una sorta di consecutio temporum, “Fumare Per Noia” è il logico risultato di una maturazione artistica avvenuta in un periodo, neanche troppo grande, che passa attraverso arrangiamenti molto più complessi e persino per imitazioni canine in “Canzone di Quel che mi Viene in Mente” (proprio come fece John Lennon quando impersonificò un tricheco in “I am The Walrus”, sesta traccia dello storico Magical Mystery Tour, spesso coverizzata ed eseguita live anche da artisti del calibro di Frank Zappa, Oasis, Styx e dai nostri conterranei A Toys Orchestra). In “Perso l’Occasione di te” si ha la sensazione di imbattersi in un gioco musicale che prende spunto a quella “Eleanor Rigby” tanto cara agli stessi The Beatles e all’estro geniale del già citato Frank Zappa. Di quei riferimenti a Neil Young e a Francesco De Gregori che si erano riscontrati nel precedente compact disc invece è rimasto poco, proprio come se si volesse far capire l’ampiezza artistica di Edoardo Borghini che stavolta ha optato per un repertorio tendente più a Lucio Battisti (quello del periodo Mogol) e agli americani Byrds.
La conclusione è affidata a una “Ho Preteso” che è cantata in maniera piuttosto originale ed eseguita strizzando l’occhio al Jazz e allo Swing degli anni cinquanta. Peccato che il nostro viaggio sonoro con Edoardo Borghini duri solo otto canzoni (una mezz’oretta di tempo circa). Ci stavamo prendendo gusto. E come dice lo stesso Borghini in “Canzone di Quel che mi Viene in Mente”: “No, io non sono quel che si dice un cantautore matto, un canzoniere, un paroliere, ma so solo che a te piaccio così come sono”. E per una volta tanto l’autostima è davvero meritatissima.
L’Orage – L’Età Dell’Oro
Da assiduo ascoltatore dei Modena City Ramblers (dei tempi d’oro) e da estimatore profondo e convinto di Francesco De Gregori, questo disco non poteva risultarmi indifferente. La band valdostana L’Orage, cui solamente le biografie dei membri raggiungono la lunghezza di un piccolo pamphlet o di un lungo racconto minimalista, me li riporta alla mente per motivi più che ovvi: come i primi, i sette musicanti della Valle si cimentano nella canzone d’autore in forma popolare, recuperandone stili, timbri e strumenti (ghironde, cornamuse, organetti, mandolini); il secondo, invece, pare apprezzarli parecchio, tanto da condividere con loro un intero concerto, tenutosi ad inizio 2013 a Saint-Vincent, andato sold out in pochi giorni.
Mi butto quindi alla ricerca del disco dei L’Orage, e scopro che i sette hanno da poco firmato con la Sony per pubblicare il loro primo disco “ufficiale” (i loro primi due dischi, Come Una Festa e La Bella Estate, autoprodotti e senza nessuna distribuzione, sono arrivati a vendere, negli anni, svariate migliaia di copie). Il nuovo disco, che contiene i brani migliori delle due produzioni precedenti oltre a tre inediti, titola L’Età Dell’Oro, e riesce anche, grazie a tre brani registrati dal vivo, a darci un senso delle loro esibizioni live.
Il disco è, senza dubbio, un gran disco. È suonato bene (anzi, benissimo), e davvero ci si ri-lancia nel paragone con i Modena City Ramblers, che, almeno secondo il sottoscritto, sono il gruppo Folk tecnicamente più riuscito che il Bel Paese abbia partorito da parecchio tempo a questa parte. Inoltre, L’Età Dell’Oro rischia anche di avere una vena cantautorale più approfondita, più studiata: la testa che Alberto Visconti presta alle liriche del gruppo è una gran bella testa, a quanto pare (la sua voce, invece, pare quella di un Max Gazzè meno folle, più cantastorie – non che sia un male).
Le canzoni dei L’Orage sono un misto di Folk, musica popolare europea e cantautorato uptempo, e risentono del meticciato etno-geografico della band. Ci si diverte e si sogna, con L’Età Dell’Oro, tra riferimenti a Rimbaud (“Queste Ferite Sono Verdi”, testo dello scrittore Dario Voltolini)e omaggi ad Apollinaire (“A Loreley”), una cover de “Il Panorama di Betlemme” (sempre di De Gregori), inni al “mondo della nuova musica acustica europea” (“La Canzone Dell’Orecchino”); o, ancora, si danza un lento levare con “Come Una Festa”, si viaggia con ballate di violini verso “La Bella Estate”, si cantano tradizionali francesi, come “La Voltigeur”, e si rimane stupiti nello scoprire una delle perle del disco, la bella “La Teoria Del Veggente” in versione live con in prestito la voce (sempre più ricca col passare degli anni, bisogna ammetterlo) di Francesco De Gregori.
Come sempre per i dischi che s’accostano al cantautorato, il consiglio è di approcciarlo senza cinismo, e farsi trascinare dalle storie e dalle suggestioni di questo stupendo melting pot di musicisti sospesi tra le Alpi e Torino. Il resto, credo, verrà da sé.
Balagan – Nonostantetutto
Da Vicenza passando idealmente per gli States, i Balagan ci regalano questo disco, autoprodotto, di blues scuro, folk strascicato, con qualche incursione jazz e samba: un album notturno, da bar gonfio di fumo, col biliardo in un angolo e un barista scontroso oltre il bancone.
I Balagan sono chiari fin dal principio: figli di Tom Waits, basano la loro musica crepuscolare e ruvida sul binomio “voce di carta vetrata” + “atmosfere retrò”. E il connubio è vincente: tra cantautorato da strada e un tono colto, come da concerto a teatro. Strumenti folk, perlopiù, dove comandano i pianoforti e le chitarre, i primi leggeri e sognanti, le seconde ondivaghe e tremolanti.
È bellissimo farsi trasportare in questo mondo di buio con poche, incerte luci a segnare la strada. Davide Ghiotto ci culla sussurrando rauco nelle nostre orecchie, mentre il resto della banda lo accompagna, tra arrangiamenti sapienti e un gusto che si percepisce studiato e di classe.
Il fantasma di Tom Waits è sempre presente, così come il suo emulo italico Capossela (Gatti = Contrada Chiavicone?), insieme a qualche eco da cantautore nostalgico (leggi: Francesco De Gregori in Meste’), fino ad arrivare al recital di USS Constitution, brano che chiude il disco.Sono proprio gli “inciampi” (se così vogliamo chiamarli) a rendere questo disco un piccolo scrigno di perle (penso a Venere, così cantautorale, o a Samba blue, così… samba).
I testi, sebbene alla prima lettura possano sembrare nudi, scarni e poco ispirati, vengono totalmente stravolti dalla voce di Ghiotto, che riesce a far passare, attraverso versi che spesso sembrano filastrocche in rima baciata, una passione e un sentimento che non avremmo creduto potesse abitarli.
Un disco onesto, sincero, suonato e arrangiato bene, forse troppo appoggiato su questa voce così particolare, e che allo stesso tempo ci ricorda (molto? Troppo?) spesso qualcos’altro. Un disco da ascoltare in auto viaggiando nel buio, o seduti in poltrona bevendo da un bicchiere senza fondo, ad occhi chiusi.