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Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Novanta

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Preti Pedofili

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Questa volta Rockambula ospita i Preti Pedofili, un gruppo all’avanguardia che da poco ha sfornato il secondo disco, L’Age d’Or. Ai microfoni c’è Andrea che oltre a parlarci del gruppo ci chiarirà qualche dettaglio sul disco.

Salve ragazzi e benvenuti su Rockambula. Per cominciare l’intervista che ne direste di presentare il gruppo ai nostri lettori?
L’11 agosto 2012 ad Affile, un comune in provincia di Roma, è stato dedicato un monumento a Rodolfo Graziani, criminale di guerra, terrorista, responsabile di sistematici stermini durante l’imperialismo italiano in Etiopia. A Pietro Badoglio, altro criminale di guerra, è dedicato addirittura un museo. Entrambi, con il benestare del loro superiore Benito Mussolini, decisero l’utilizzo sistematico di armi chimiche per lo sterminio di donne, bambini e uomini. Il 3 ottobre 2013 sono morte in acque italiane quasi 200 persone, in parte provenienti da terre in cui l’Italia ha commesso efferati crimini in passato. Italia che è stata già condannata nel 2012 dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo per l’utilizzo della pratica barbara dei respingimenti in mare. Siamo un popolo di nazisti. I Preti Pedofili sono una rock band. Proviamo a rappresentare con la musica il disagio che viviamo oggigiorno.

Il nome del gruppo è un moniker forte, critico e molto accusatorio. Come mai avete deciso di chiamarvi cosi? Ma soprattutto vi siete procurati rogne dal 2011 ad oggi?
L’obiettivo del nome è quello di generare reazioni forti, di sdegno deciso o di abluzione indotta nei confronti dell’ascoltatore. Il prete pedofilo è considerato il massimo livello di degrado raggiunto dal genere umano nell’età contemporanea, la guida spirituale che si fa profanatrice dell’infanzia, il custode della fede che tradisce la propria comunità. Non ci sono particolari implicazioni anticlericali in questo moniker, a nostro modo di vedere. Il prete pedofilo è un uomo. E nell’osservarlo, inevitabilmente, si finisce per guardarsi allo specchio.

Per quanto riguarda il vostro stile di musica cosa ci dite, da chi sono influenzati i Preti Pedofili?
I nostri ascolti sono molto eterogenei e le influenze numerose. Si va dal Post Punk americano di Fugazi e Jesus Lizard, alla New Wave inglese, alla scena italiana degli anni 80 che ha visto nascere numerose band di spessore, sottovalutate sia dai contemporanei che dalla critica odierna. In più noi proviamo a metterci un gusto letterario nella stesura dei testi che sicuramente va in scia a quanto prodotto dai Bachi da Pietra e dai Massimo Volume, ma che evidentemente trae spunto da differenti letture. Fernando Pessoa è presente nel nostro ultimo lavoro in maniera esplicita, ma tra le righe è possibile leggere, in ordine sparso, anche Ciòran, Mordecai Richler, John Fante, Wu Ming, Lovecraft, Dino Campana, Vittorio Sereni e qualcos’altro che adesso non ricordo.

L’Age D’Or è il vostro nuovo EP o sbaglio? Perché non ci parlate della sua realizzazione, dove e come si sono svolte le fasi di registrazione e mixaggio?
L’Age d’Or non è un EP ma un disco full lenght, quindi un LP. Il lavoro è completamente autoprodotto. Ci piace curare in prima persona tutti i passaggi della fase creativa, dalla composizione alla registrazione al mixaggio e mastering finale. Cerchiamo di proporre qualcosa di nostro, di originale e quindi affidarci a terzi potrebbe compromettere i nostri propositi, indirizzandoci su sentieri già ampiamente battuti.

Per quanto riguarda le tematiche cosa ci dite, di cosa parlate e qual è il messaggio che vorreste far passare?
Le tematiche di questo nuovo lavoro sono abbastanza intimiste e introspettive, narrano delle microstorie di degrado che provano a costruire un mosaico di totale sfiducia nelle sorti dell’umanità. Parole altisonanti. Forse sarebbe meglio rispondere a questa domanda con una bella supercazzola o dicendo che ci piacciono i videogame. Ci siamo resi conto che è in atto un costante processo di “rincretinimento” nel panorama della musica underground. Una sorta di controcultura fatta di assenza di contenuti, o di contenuti idioti, un’involuzione che ha anche un significato sociale oltre che antropologico. Della serie: studio fino a trent’anni, mi prendo 4 lauree e resto disoccupato, a sto punto faccio lo scemo anch’io, chissà che ne esce qualcosa. O semplicemente hanno dequalificato a tal punto l’istruzione pubblica che oggi un ignorante può anche laurearsi. In questo senso ci rendiamo conto che il nostro progetto è totalmente fuori contesto, forse anche anacronistico da un certo punto di vista.

Ebbi il piacere di recensire Faust, il lavoro che vi fece esordire, tempo fa. Lo trovai fresco, originale, di buona qualità insomma. A parer vostro quali sono le principali differenze tra Faust e L’Age D’Or?
Sono due lavori antitetici. Faust sviscera i suoi brani nella lentezza esasperante dei tempi e delle strutture, L’Age d’Or è fulminante, isterico nelle sue continue e inaspettate variazioni. Faust è un monolite Doom, compatto e coerente. L’Age d’Or invece è più eterogeneo, mischia sonorità completamente diverse tra loro anche nello stesso brano. La cosa incredibile è che nonostante la virata netta, nei nostri live i brani de L’Age d’Or si alternano alla perfezione con quelli di Faust. Stiamo mettendo in atto un processo identitario e siamo contenti di questo.

Ho notato sulla vostra pagina Facebook che c’è anche un tour di supporto al nuovo lavoro. Ho visto che le date toccano diverse città. Come siete riusciti a procurarvi  un tour cosi sostanzioso in  Italia, che tipo di lavoro avete svolto?
Le etichette che hanno co-prodotto il disco, Toten Schwan, Sinusite Record, Spettro su tutte, hanno fatto un ottimo lavoro per far girare la nostra musica il più possibile. Noi ci abbiamo messo del nostro fondando una Netlabel, L’Odio Dischi che di fatto gestisce il nostro booking. Per il resto abbiamo un repertorio di quasi due ore di musica e il nostro cachet è davvero basso, quindi c’è un buon rapporto qualità prezzo nella nostra proposta.

A cosa aspirano i Preti Pedofili?
Il nostro sogno è arrivare a San Remo. Chiaramente senza dover sborsare un solo euro. Sul palco dell’Ariston finalmente potremo realizzare la nostra maggior aspirazione: pestare a sangue Fabio Fazio.

Bene ragazzi l’ intervista si chiude qui, concludete come meglio vi pare…
Vogliamo semplicemente ricordare che L’Age d’Or è in streaming e download gratuito a questo indirizzo. Anche i nostri concerti sono tutti gratis, potete scegliere dove e quando venire a vederci consultando l’elenco delle date sulla nostra pagina facebook. Gratis il disco, gratis i concerti. A tal proposito sarebbe legittimo da parte vostra chiedervi come facciamo a campare. Avanti fammi quest’ultima domanda. Come fate a campare?

Come fate a campare?
Grazie all’8 per mille.

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Montauk – S/t

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Altro disco che riscuote interesse già dal packaging, in cartone grezzo, tenuto chiuso da un comunissimo elastico di gomma e che contiene una serie di immagini, disegni, illustrazioni. Questa è la faccia dei Montauk, che dicono di loro, in terza persona: “[Montauk] non è i Fugazi né gli Husker Du e nemmeno i Fine Before You Came, non siamo Il Teatro Degli Orrori, Montauk è un teatro di strada, acceso sotto le insegne al neon, in una città che sembra in festa e che invece vuole solo guardarsi allo specchio”, che è come dire tutto e niente.
Andiamo quindi oltre la faccia e le parole, dentro il groviglio sporco di questo disco omonimo dai suoni taglienti e impastati, dove abbondano distorsioni e voci arretrate, che parlano, gridano e osservano le cose con uno sguardo urgente, a volte rassegnato, spesso adolescenziale (“prova tu a pensare guardando il mondo come un ragazzo”, “Il Mondo”), quasi sempre appassionato (“la rabbia è una religione”, “Song No Tomorrow”).

Il disco fila, tutto sommato: i pezzi si lasciano ricordare e ri-ascoltare volentieri, tra ritornelli da Rock italiano (“Io”) e la modernissima morbidezza violenta o violenza morbida che va così di moda ultimamente (la parlata de “Il Bruco”,“Il Mondo”, ma in realtà tutto il disco). Alcune idee sono musicalmente godibili ma, forse, fanno poco per elevare i Montauk al di sopra della media nazionale dei gruppi Indie-Rock-Pop (tipo Fast Animals & Slow Kids, per intenderci). La voce esce poco, quando esce non brilla di personalità, ma è un genere, questo, che accetta di buon grado la semplicità vocale, per cui potrebbe accadere che una voce simile, alla fine, sia la voce perfetta per i Montauk.
Insomma, un esordio sicuramente senza infamia, ma anche senza troppa lode. La speranza è che i ragazzi proseguano a testa alta il loro personale percorso e che nelle prossime produzioni facciano uscire di più le loro voci (in tutti i sensi), cosicché non si debba più dire “i Montauk non sono questo, non sono quest’altro”, ma solo che i Montauk, alla fine, sono i Montauk. E basta.

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“Diamanti Vintage” Shellac – At Action Park

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Non sazio di aver dilapidato e destrutturato tutto quello che vagava nel rock senza guinzagli nell’America fine 80 e inizio 90, con due delle band al vetriolo che più rappresentavano il disagio delle moltitudini urbane ovvero Rapemen e Big Black, Steve Albini – dopo una pausa per motivi ideologici – riprende in mano la situazione, ed insieme ad altri due gran “casinari”, Bob Wetson e Todd Trainer fonda gli Shellac, una delle formazioni USA dove  atmosfere brutali, storte e squadrate erano la normalità.
Siamo in pieno Post-Core, Slo-core, rimasugli di Math-Rock e alle spalle il ringhio in lontananza dell’Hardcore, e da questo immenso guazzabuglio distorto e malato viene partorito “At Action Park”, il disco in cui tutto il sistema fradicio delle nuove stilizzazioni viene inglobato e masticato senza remore, un disco (dieci tracce) in cui scorre veleno, controtempi, una geometria angolare da far paura – tanto precisa –  noise lancinante e zigrinato e una costante riproposizione di temi sociali infastiditi dalla insofferenza dei poteri di allora; quello che ne viene fuori all’ascolto è alienazione sonora che si fa portavoce di un sound a matrice industriale, urla, ossessioni e oppressione sono il filo elettrico portante di questa tracklist a maglio, una estremizzazione di pedaliere e feedback che per tutta l’esecuzione di questo lavoro vengono registrate dal vivo, per dare quella sofferenza in più a chi porge l’orecchio.

Molti definirono il disco una enorme bocca dentata dove dentro ci andava di tutto senza cognizione di causa, ma il successo ottenuto invece lo consacrò tra le produzioni alternative più “slegate” dell’intero panorama americano, e loro, questi scalmanati dalla personalità delirante vinsero la capacità di gridare senza vergogna tutta la brutalità e disumanità che la macchina yankee produceva sulla pelle di chiunque;  accordi di chitarra asfissianti, volutivi, basso bastonante e voce ossessa, sullo sfondo i fumi neri di Fugazi, Jesus Lizard, Pere Ubu, e tutto l’ascolto procede come in un campo minato, le seghettate note che “Pull The Cup” e “My Black Ass” vanno a tranciare i coni stereo, la magnifica visione drogata di “Song of Minerals” o il tribale busso che “Crow” tramuta in una danza  industriale/ipnotica, o il recupero nostalgico delle nervature sclerotizzate del punk che in “Dog And Pony Show” si spaccano in mille rivoli di sangue rappreso; poi con la finale ed impenetrabile jungla orientalizzante e schizofrenica che abita“Il P***o Star”, il disco esplode in un presagio, quello della certezza di un imminente capolavoro di irrefrenabile maledizione.

Atroce e mai addomesticato, agitare con cautela.

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Sadside Project – Winter Whales War EP

Written by Recensioni

Sadside Project sono un duo romano Garage Bluesgeneratosi nel 2009. La loro gavetta parte quando vincono il Rock Contest in Toscana e firmano il loro primo contratto e giunge fino i nostri giorni passando, come gruppo spalla, per le dieci date italiane del tour di Joe Lally dei Fugazi. Quest’anno presentano il loro nuovo lavoro Winter Whales War dove ci raccontano le loro vicende musicali psichedeliche eccitate dai racconti e dalle storie dello scrittore e marinaio Herman Melville. La copertina la dice lunga. L’album è un insieme di ballate da uomo di mare con il boccale stracolmo di birra e arriva fino alle più dure e inquieti canzoni strettamente Garage. Il viaggio inizia con “Same Old Story” un brano immediato, diretto, energetico. Il giusto tempo per rompere il silenzio che intercorre tra te e l’istante in cui pigi play. Segue “My Favorite Color”splendida ballata dove voce e mandolino evocano un ritornello che si lascerebbe tranquillamente cantare da un pubblico in preda ai fumi dell’alcool. Il disco prende bene e continua con “1959 (The Last Prom)”ballata romantica anni ’50 tutta “cuore a cuore” che lascia spazio alla più altisonante e melanconica “This is Halloween”.Carica, carica, carica è questo che mi trasmette quest’album! E arrivano le più rockeggianti; la cassa dritta di“Edward Teach Better Know as Blackbeard” e  la spartana “Nothing to Lose Blues”.

Proseguono la più psichedelica “Hold Fast” che ci accompagna al pezzo portante dell’album, “Molly”, brano duro e puro che cerca di riportarci sulla terraferma per ricordarci da dove veniamo ma poi ci lascia proseguire con una cover dei mitici Beach Boys, “Sloop John B”. Chiude l’album il pezzo omonimo “Winter Whales War” che con i suoi arpeggi ci molla a casa perché il viaggio si è concluso. Questo è uno di quegli album che si ascoltano tutto d’un fiato, senza pause, in una perfetta onda da solcare in compagnia di quei farabutti dei vostri amici.

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