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Le Chiavi del Faro – La Furia degli Elementi

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La Furia degli Elementi: il titolo di questo primo lavoro degli umbri Le Chiavi del Faro è azzeccatissimo. Partiamo subito con il dire che in questo disco c’è veramente tanta (troppa?) roba. I tre definiscono la loro musica Free Funk, ma diciamo che l’accento va messo, senza dubbio, sulla parola free. Il disco infatti miscela di tutto, dall’elettronica giocattolo, fuori posto, di “1-2 (IN)” (che prosegue nelle successive “3 (CON)”, “4-5 (SCIA)” e “6 (MENTE)” – scelta che mi sento di non condividere, sembra un EP piazzato forzatamente dentro ad un disco che è tutt’altro), al sax in salsa progressive di “Tentativo Numero Uno”, al “Post-Funk” con cui aprono le danze, nei sette minuti e rotti di “Tormentati alla Ricerca dell’Obbiettivo Comune”.

A Le Chiavi del Faro va dato atto di non risparmiarsi su nulla, e di seguire le loro inclinazioni con una libertà rara, che permette loro di arrivare veramente ovunque. Il rischio (che qua è certezza) è di creare un prodotto magmatico, “furioso”, per l’appunto, dove si fa fatica a trovare capo e coda, le tracce, almeno, di un discorso, di un percorso. Musicalmente il trio gira, sa inventare e re-inventare, suona anarchico e spaziale, con attimi di quasi Post-Rock atmosferico (“Cambiamento”) da un lato e groove virtuosistici dall’altro (“Le Macchine Straordinarie”, “La Morte del Fuoco”). Manca una direzione, ma può essere una scelta, e se di scelta si tratta, è solo (!) questione di arrivare alle orecchie (e alle teste) giuste. Discorso a parte per il cantato, che sembra sempre un po’ fuori luogo, messo lì a caso, con linee melodiche che sanno di vecchio, tra accenti dislocati, un suono troppo neutro sopra la follia strumentale, e testi che non riescono proprio ad arrivare. Forse ci voleva più coraggio (poco, pochissimo in più di quello che già c’è – ed è tanto!): fare un album strumentale di musica infuocata, tempestosa, devastante, senza parole ad interrompere questo flusso inconscio, questa esigenza psicofisica, come la chiamano loro, dove comunque appare chiara e lampante la necessità, l’ansia, l’urgenza di fare, di creare. Un po’ di controllo in più, qualche ingenuità in meno e il disco avrebbe acquistato spessore e importanza. Così sembra un’eruzione vulcanica caotica, un maelstrom senza direzione. La capacità c’è, si può fare di meglio, senza la necessità di voler stupire a tutti i costi. Aspettiamo il seguito.

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Calibro 35 – Traditori di Tutti

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Quattro musicisti nella stessa stanza; chitarre fuzz, organi distorti, bassi ipnotici e funky grooves riempiono l’atmosfera. Luca Cavina, chitarra e basso, Enrico Gabrielli, organi e fiati, Massimo Martellotta, chitarra elettrica e lapsteel, e Fabio Rondanini, batteria e percussioni, formano i Calibro 35, gruppo italiano (milanese) il cui progetto prende vita sotto i loro stessi occhi. Un progetto che segna la loro carriera e il loro modo di fare musica, soprattutto musica per le immagini. Quindi colonne sonore dedicate ai polizieschi e action thriller con cover e brani originali che sottolineano l’intenzione e la capacità del gruppo di ricreare atmosfere e mondi che talvolta nei film si danno per scontato ma che alcune volte fanno il film stesso. Dunque i Calibro 35 iniziano la loro carriera dove molti gruppi italiani non riescono nemmeno ad arrivare e cioè all’estero: Lussemburgo, Belgio, Stati Uniti. Registrano Eurocrime, documentario americano sui polizieschi italiani, il loro primo album Ritornano Quelli Di…, l’intera colonna sonora del film Said e alcuni brani per i film Gli Angeli del Male, La Banda del Brasiliano e Romanzo Criminale. Nel 2010 esce Rare, raccolta di musiche da film, b-side, versioni alternative e inediti dell’archivio della band e nel 2010 è la volta dell’album Ogni Riferimento a Persone Esistenti o a Fatti Accaduti è Puramente Casuale, contenente dieci brani inediti e due cover, e l’ep Dalla Bovisa a Brooklyn che si muove come sempre tra cover, originali e una storia a fumetti del gruppo.

Finalmente il 2013 porta Traditori di Tutti, uscito in Italia il 21 Ottobre e da Novembre anche in Giappone. L’album è formato da dodici tracce che vivono e riecheggiano le atmosfere poliziesche e filmiche quasi soprattutto degli anni settanta. A primo acchito si potrebbe pensare che sia musica troppo settoriale ed in effetti si percepisce una certa malinconia di quegli anni, il che però non guasta dato che quello fu uno dei periodi più prolifici per la storia della musica mondiale. Ed infatti leggendo qualche loro intervista quella degli anni settanta non viene percepita come una fissazione assoluta ma come un momento da cui partire, come un esempio da tenere ben a mente per poi fare qualcosa di proprio ed in qualche modo originale. Appena si clicca play il “Prologue” ci trasporta in una sorta di atmosfera west abbandonata subito in “Giulia Mon Amour” nella quale si concretizza la loro tecnica spiccata che a quanto dicono è frutto solo della conoscenza dei loro strumenti, dell’atmosfera e dell’improvvisazione che è il punto focale. Ma il pilastro di tutto il lavoro è certamente Traditori di Tutti di Giorgio Scerbanenco, romanzo del 1966 che racconta le indagini che stanno dietro all’annegamento di Silvano e Giovanna. Giovanna è una giovane donna costretta a sposare un uomo che non ama e a ritrovare la sua perduta verginità grazie a un delicato intervento. La sua fine però non avviene con il matrimonio-farsa ma con una crivellata di proiettili e l’annegamento nel Naviglio.

Una Milano e un’Italia violenta e crudele che traspare come uno specchio negli inseguimenti Funky tra gli strumenti (“You, Filthy Bastards!”), nella tensione Rock delle percussioni (“Stainless Steel”), nel fitto vintage delle tastiere (“Vendetta”) e nella psichedelia più spiccata (“Mescaline 6”, “AnnoyingRepetitions”).

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KuTso – Decadendo (Su un materasso sporco)

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La vita moderna ti stressa? Non hai prospettive lavorative? Peggio di così non poteva andare? Allora stai Decadendo (Su un materasso sporco) come i KuTso, che però al posto di piangersi addosso ci ridono su e riescono a far spuntare il sole in faccia persino a un depresso in una giornata uggiosa. Fanno un rock ironico, ma se per caso sentendo queste due parole vi sono venuti in mente gli Skiantos vi sbaglite di grosso, perché quello è rock demenzialementre i KuTso sono appunto: ironici. Il loro primo full-lenght è un mix di testi sarcastici che enfatizzano la verità, musica travolgente che non ti fa stare fermo, e travestimenti assurdi con cui si prendono in giro da soli. Un po’ come i Gogol Bordello per intenderci.

Il disco inizia con “Alé”, pezzo che ironizza sulla vecchiaia. Esce invece finalmente il sound sarcastico della band con la successiva e fantastica “Siamo Tutti Buoni”, dalle geniali e reali parole: sento nell’aria odore di morte, vi sputo addosso e strillo più forte, vagheggiate un mondo migliore ma state bene nel vostro squallore. Successivamente il tema cambia completamente e ci ritroviamo nelle orecchie una canzone d’amore in chiave ska, volutamente sdolcinata, ma mai noiosa. “Lo Sanno Tutti” (che faccio schifo aggiungerei io) è una dichiarazione di egocentrismo nuda e cruda che si conclude con un: salve sono dio. La quinta traccia“Questa società” è il rockeggiante singolo dell’album e dal divertente videoclip dove troviamo i quattro musicisti scellerati travestiti da animali all’interno di un fienile. Il testo dice tutto e il contrario di tutto, perché infondo oggi tutto è relativo vero? Il discorso continua con “Via dal mondo”, dove esce prepotente la rabbia verso i dirigenti che hanno giocato e demolito questo stato, continuando nonostante tutto a prendersi gioco della gente. Qui non c’è ironia ma solida verità spiattellata in faccia e condita da un contorno musicale rock ed intramezzi ska. Tra funk e rock è invece la divertente “Eviterò La Terza Età” in cui ribadiscono la loro amara visione per la società futura: i KuTso non intendono arrivare affannati, rincoglioniti e decrepiti all’interno di una casa anziani, ma preferiscono sentirsi vivi oggi ed illudersi di non stare morendo e marcendo. Quest’ultimo è un concetto molto caro alla band che infatti lo ribadisce anche nelle successive “Stai morendo” e “Precipiti più giù”. Conclude il disco una riedizione della loro precedente e più famosa traccia “Aiutatemi”, una rielaborazione che coinvolge anche Fabrizio Moro, Pierluigi Ferrantini (Velvet), Pier Cortese e Adriano Bono (ex Radici nel Cemento).

Ho solo parole buone parole per questa band, talmente troppe da sembrare mielosa, ma mi sono fatta grosse risate ascoltando questo disco, e credo ve le farete anche voi. Intanto vi lascio al loro video in modo che vi possiate fare fin da subito un’idea di ciò che vi aspetta.

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Mama Suya – Mamasuya BOPS

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Enciclopedici, virtuosi, poliedrici. I Mama Suya, in dieci tracce in bilico tra blues, funk e qualche apertura rockettara e lounge, sanno intrattenere e divertire, ma niente di più. Musicisti raffinati, costruiscono sentieri retrò che pescano da un po’ tutta la storia della musica moderna, ritagliandosi uno spazio che però è limitato all’ascolto diffuso, da elevator music, da albergo. Per carità, i maniaci della musica ben scritta e ben suonata troveranno in questo disco tutto ciò che vogliono: assoli incendiari e pacati, groove intensi e liquidi, atmosfere brillanti e rilassate. Difficile però che vi lasci qualcosa di più dell’istinto di applaudire festosi alla bravura dei tre Mama Suya (ma le tastiere chi le ha suonate?). Mia opinione finale: un incanto per le orecchie che rimane alquanto superficiale (e d’altronde, nemmeno loro nascondono di volersi, prima di tutto, divertire: “L’idea di base è: ‘suoniamo la musica che ci piace’.”). Ascoltateli qui e fateci sapere che ne pensate.

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Bluesaddiruse – Bluesaddiruse BOPS

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Si chiamano Bluesaddiruse, vengono da Napoli e da quella tradizione partenopea che è il Neapolitan power, quel movimento che negli anni ’70 del secolo scorso portava nuova linfa e un sapore internazionale al meglio che la canzone napoletana avesse saputo dare. Fanno un hard rock con influenze funk e blues (tastiere e armoniche come se piovesse), molto uptempo, con qualche incursione in territori diversi (“Senza Feeling), fiati che spuntano qua e là e una voce roca e interessante (un timbro alla Giobbe Covatta): canzoni che ci ricordano che il napoletano è un’ottima lingua per il rock’n’roll, così simile (come accenti e possibilità metriche) al più ovvio inglese. Il disco è prodotto bene e suona compatto e divertente. Niente di nuovo sotto il sole (anzi, sembra di aver viaggiato con una macchina del tempo fino almeno agli anni ’80), ma come si fa a dire di no a del rock in napoletano suonato bene? Nota di demerito invece per quanto riguarda il modo in cui si propongono: la copertina più trash di tutti i tempi e il disco inviato in .wav (peso totale verso il giga…)

https://www.youtube.com/watch?v=g7DIyo7WIx4

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Lorian – Demo BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Vito Solfrizzo, voce e basso, Cristian Fanizzi, chitarra, Alessandro Spenga, batteria, e Domenico Lippolis, piano, hammond e synth, formano i Lorian, giovane gruppo barese, che dall’inizio del 2012 propongono, assieme ai loro brani originali, anche i grandi successi del passato (Pink Floyd, The Police, U2, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Santana). Una demo, la loro, formata da tre brani: U.R.A. (Utopia Realmente Astratta), L’Ombra del Sole e Gladio, dove il rock, di stampo assolutamente classico, è il genere predominante, con tinte di progressive e qualche puntino di funk. Buoni i soli di chitarra, gli arrangiamenti e l’uso dei cori. La parte vocale, invece, rimane sempre un po’ standardizzata e uguale a se stessa, quando potrebbe andare oltre le proprie capacità, sperimentare nuovi colori e modi di esprimersi. La strada è ancora lunga, ma i migliori amici per i giovani musicisti sono il tempo, la sperimentazione, totale, perché no anche sfrenata e lo studio, il resto è solo fortuna.

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