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Retrospective for Love – Retrospective for Love

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Omonimo Ep per i siciliani Retrospective for Love, il suono armonioso del Dub masterizzato dall’ingegnere del suono Noel Summerville (The Clash, White Stripes, Sinead O’Connor). Musicisti siciliani come dicevo prima che fanno nascere la loro avventura artistica dei Retrospective for Love niente di meno che a Londra, dove certe sonorità d’avanguardia sono pane quotidiano e certamente più coccolate. Dove le mode esaltano lo stile e i musicisti narrano liberi le proprie gesta senza problemi di adattamento culturale. Ma che poi ogni mondo è paese ad essere onesti, o quasi. L’Ep parte subito mostrando la propria nervatura rilassata, “Kill Me” interamente retta da una voce Reggae trova infinite gradazioni di Soul, come non ricordare la parte Dubstep dei nostri Africa Unite. La verità sostanziale è che i Retrospective For Love sanno amalgamare precisamente i riff a disposizione mantenendo sempre un suono pulito e compatto, i bassi spingono forte pur essendo delicati. Una questione di stile.

Dell’Hip Hop innamorato si materializza in “Leave Me Alone”, dove sono i fiati a giocare un piacevole scherzo alla mia fantasia, la sensazione è quella di sentirsi portare via, non si capisce dove ma bisogna certamente andare via. Tocca essere sinceri ed ammettere l’internazionalità del prodotto, non una cosa quotidiana, molto di nicchia considerata la nostra nazione. E dove non parliamo di nicchia ci troviamo davanti a sciagurate imitazioni della realtà della parte buona del mondo. Nel nostro attuale caso si sperimenta tantissimo rendendo il prodotto non di facile ascolto, dobbiamo arrivarci preparati e spensierati. Sembrano adorabili come sottofondo. Poi la parte più violenta dell’Ep viene fuori in “Read Into You”, l’amore combattuto dalla rabbia, tutto diventa improvvisamente meno confortevole. Sensazioni lasciate andare senza controllo, il brano picchia sulla faccia con gentilezza. “Breathe” chiude il brevissimo episodio di sedici minuti senza esaltare troppo le mie papille gustative, preferisco di gran lunga quello ascoltato in precedenza ma non ne faccio una colpa imprescindibile. Quattro pezzi ben calibrati e strutturati, lasciano piacere, potrei ripartire ad ascoltarli nuovamente con lo stesso entusiasmo della prima volta, ad ogni ascolto si lasciano scoprire in maniera diversa. Un Ep però non esalta come il lungo viaggio di un intero disco, concentrare la bellezza è più facile, attendiamo i Retrospective For Love alla distanza, nel frattempo hanno vinto questa tappa meritatamente. Torneranno mai in Italia?

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The Great Northern X – Coven

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Sono al secondo disco ufficiale i veneti The Great Northern X, hanno speso l’intero anno 2013 per dare vita a Coven. Si parla di Rock duro con complicanze sentimentali molto evidenti, la rottura metallica delle chitarre ammorbidita dalla voce calorosa, questo lavoro sembra arrivare da un’epoca ormai lontana. Forti sentori di vintage, adoravo gli Annie Hall. Perché dentro Coven appaiono forti le somiglianze con il primissimo Indie italiano, gli ambienti proposti portano esattamente a quel tipo di sensazioni, a quelle indimenticabili e toccanti situazioni. Poi bastano un paio di cuffie, chiudere gli occhi e abbandonare la mente per godere voracemente dell’ultimo disco dei The Great Northern X. Si parte con “Skunk”, e un sound vagamente Punk ci butta direttamente a tanti anni fa quando gli Atleticodefina erano considerati L’Indie. Molto dolce e orecchiabile il ritornello emozionale, strappa lucidità dagli occhi. Le chitarre urlano Folk nella ballata “Let’s Drown Our Sorrow”, sarebbe il caso di continuare a piangere ma di gioia. Bella, molto bella.

Tristezza come non ci fosse possibilità di reazione in “The River Song”, le canzoni tristi sono quelle che ci piacciono di più, poi quell’armonica materializza l’immagine di Jeffrey Lee Pierce, il ritornello segna il momento di maggiore carica emotiva di tutto il disco. Si tornano ad usare riff di Rock duro in “Dead Caravan”, tanti anni novanta dentro, parecchio Noise e zero voglia di sperimentare. Un brano distante dalle precedenti canzoni, sempre chitarre protagoniste e voce particolarmente riconoscibile. Ancora tanto Noise nella Post Ballata “Machine Gun Stars”, si ritorna nuovamente alla bellezza del passato, l’attuale mondo Indie italiano (se mai ce ne fosse ancora uno) non appartiene ai The Great Northern X. Loro hanno una visione nostalgica di suonare musica, hanno le loro idee da sviluppare senza l’aiuto di nessuna partecipazione, sono loro a suonare in assoluta autonomia (e presa diretta) l’intero Coven. Perché è importante dimostrare di essere capaci di fare un grande disco con le proprie forze e senza l’aiutino di qualche musicista di spessore. Tutta farina del loro sacco, liberi di piacere, liberi di accettare critiche. “Carol” è dura all’inizio, una pietra che viene man mano ad ammorbidirsi quando arriva il ritornello, il momento clou del pezzo. La forza indiscussa dei The Great Northern X è sicuramente il fatto che riescono ad esplodere tante sensazioni nei ritornelli, sono capaci di renderli unici e particolarmente attesi. Strappa lacrime oserei maldestramente dire. La chiusura di Coven passa per le note struggenti di “Fever”, è un peccato non lasciarsi accompagnare verso la fine di questo percorso tenendosi stretti per mano ai The Great Northern X, spegnere il cervello e buttarsi senza timore in questo viaggio. Un secondo disco dalle grandi aspettative, piacerà tantissimo e la band veneta avrà tutte le soddisfazioni possibili, in questo periodo musicale spento e ripetitivo loro sono giustamente qualcosa di bello e sensazionale. Chiudete gli occhi e iniziate a sognare, tutto il resto non conta nulla.

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The Monkey Weather – The Hodja‘s Hook

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Se i The Monkey Weather fossero nati in Gran Bretagna probabilmente li vedremmo in cima a tutte le classifiche scalzando dal podio artisti quali Franz Ferdinand, Arctic Monkeys Kasabian da cui traggono spesso ispirazione pur mantenendo quella componente Punk n’ Roll che li caratterizza e li distingue dai loro più affermati colleghi. The Hodja‘s Hook è il secondo disco dei The Monkey Weather, che segue a due anni di distanza l’esordio bomba Apple Meaning e che contiene undici canzoni che testimoniano lo stato di grazia di una delle più divertenti Indie Rock band del nostro Paese. Probabilmente non eravamo di fronte a una band così ben assemblata proveniente dal Piemonte sin dai tempi degli esordi dei Marlene Kuntz che con l’album Catartica portarono una ventata di novità all’intero panorama musicale italiano troppo appiattito dai picchi cantautoriali e dalla filodiffusione delle radio “commerciali”.

Che la band si sia formata dopo un viaggio a Liverpool sulle orme dei The Beatles nel 2010 appare evidente sin dalle prime note di “Let’s Stay up Tonight”, dove il batterista Miky The Rooster “dà il La” ai suoi colleghi Jolly Hooker (chitarre e voce), Paul Deckard (basso e voce). Tanta energia e tanto sudore speso nella scrittura di tutti i brani sono evidenti anche in “Sometimes” e “Lies”, brani antitetici per caratteristiche sonore ma dalla qualità eccelsa. Le voci di Jolly Hooker e Paul Deckard sono certamente molto diverse fra loro ma ciò permette loro soluzioni assai varie e gradevoli all’ascolto. Del resto i The Monkey Weather avevano già dimostrato il loro valore durante i live spesso persino accanto a nomi quali The Vaccines, Linea 77, LnRipley, Pan del Diavolo, The Fire e tanti altri. Durante i quasi quaranta minuti dell’album trova persino spazio un’inaspettata ed alquanto insolita cover di “Firestarter”, brano contenuto nel disco The Fat of the Land che spalancò le porte del successo mondiale ai The Prodigy nel lontano 1997. L’unico rimprovero che si possa fare alla band è nei titoli, dai nomi troppo “classici” (“Sometimes” ad esempio era una hit mondiale degli Erasure!) ma i The Monkey Weather, ruvidi quanto gli Stooges di Iggy Pop e raffinati quanto i Blur, hanno fatto della semplicità e dell’immediatezza le loro migliori armi a disposizione. Un’altra (ennesima) grande produzione a nome AmmoniaRecords che certamente non vi deluderà!

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Coconuts Killer Band – Party ‘n’ Fun

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La Coconuts Killer Band nasce nel 2010 dalle menti di Mick e “Little Demon Sim”, fratelli e rispettivamente chitarrista e batterista di quella che ben presto diventerà una tipica Rock’n’Roll band. Ma come fare una Rock’n’Roll band senza prima una particolare voce con un carisma non indifferente? Ed ecco che alla formazione si aggiunge il cantante John Ron Carpenter, il bassista Ste Doc, il tastierista El Gringo e le killer babies Jade & Gretha. Il gruppo al completo quindi comincia a girare sulla loro instancabile Lemmy Van per diversi locali e festival, partecipando come gruppo spalla a concerti de Il Pan del Diavolo, Moltheni, Zamboni &Baraldi ecc, e vincendo concorsi come “Sotterranea Rock Contest” di San Benedetto del Tronto e il “B-live alternative” di Cosenza che li porterà a suonare in Germania, Belgio, Olanda, Svizzera e Austria nel 2014.

Insomma tre anni davvero pieni per la band abruzzese che nel 2013 esce con la loro prima Demo. Quattro tracce che in toto rappresentano il loro stile predominante che è quello Rock’n’Roll con una spruzzata di altri generi, soprattutto Garage e Punk, tanto per colorire e rendere più gustosa la modernità. Appena parte la prima traccia “No! No!” non è difficile immaginare l’atmosfera fatta di ciuffi alla pompadour, maniche a giro, coriste in rosso che ciampettano una semplice coreografia e lui, microfono simile a un MS-55 Elvis stile anni sessanta che primeggia davanti a tutti. “Party’n’Fun” si muove invece in quel Rockabilly tipico degli anni Cinquanta-Sessanta, periodo che si respira anche nel quarto brano della demo “Last Day” che riconferma prima di tutto la loro conoscenza del genere e del periodo in questione, certamente come “Running Wild” posto come finale eclettico e ritmato.

Insomma i Coconuts Killer Band con questo lavoro dimostrano qualcosa. La passione per gli anni Cinquanta-Sessanta, la padronanza delle loro intenzioni, la tecnica musicale, la voglia di girare e farsi conoscere; infatti il gruppo nell’arco della sua breve vita artistica ha collezionato più di trecento live che non si fermeranno certamente ora. A tutto questo si aggiunge la peculiarità di genere utile soprattutto in realtà festaiole e goliardiche per ballare, sballarsi e non pensare troppo. Tutto può sembrare positivo, elettrizzante e centrato nel punto. Ed ecco che il punto è proprio questo: troppo centrati in una sola epoca, troppo simili ad uno stampino di Elvis, tutto già sentito, già suonato e già vissuto. Quindi perché non usare questa tecnica e bravura musicale per creare qualcos’altro? Magari è l’inglese a rendere un po’ tutto scontato al contrario dell’italiano che sarebbe probabilmente più interessante. Insomma tutti gli elementi ci sono, manca solo quel quid in più.

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The Black Angels – Indigo Meadow

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Questi maledetti anni 60, fiori che sbocciano in teschi. Profumo di morte e fantasia. Rinascita e decadenza nel decennio più rigoglioso per la musica Pop. Semplicemente gli anni che meglio hanno rappresentato la libertà, il viaggio.

C’è da dire che in questo caso sarà del facile revival, musica già masticata e digerita più volte, ma The Black Angels da Austin confermano dopo qualche episodio così e così di aver finalmente trovato insieme al loro revival anche il loro sound decisivo. Certo è che i ragazzi sono scaltri a rubare i suoni graffianti da LP di altissima qualità. Saccheggiano il nome da una canzone del disco con la banana (“The Black Angel’s Death Song” è solo uno degli undici capolavori presenti in The Velvet Underground & Nico) e riprendono senza troppa remora gli svarioni più tossici e visionari di Ray Manzarek, le cavalcate dei Black Sabbath e, per non sembrare troppo ancorati alla comoda Psichedelia, aggiungono il nero dei The Cure e Jesus and The Mary Chain. In più conservano una fetida alitata del marcissimo Garage svarionante alla Black Rebel Motorcycle Club. Forse con questa carrellata di nomi più o meno affini potrei aver detto tutto. E invece no. I texani a questo giro confermano non solo di aver l’abilità di suonare moderni con le sonorità di cinquanta anni fa, ma anche di risultare accattivanti e (perché no?) melodici.

La batteria della bionda Stephanie Bailey ci proietta subito in un caleidoscopio ricco di colori e sfumature, dove tutto è visione e nulla è reale. Le tastiere calde e più che mai dal sapore vintage bene si intrecciano al resto del combo. Così la title track “Indigo Meadow” è un calcio verso un mondo magico e avvolgente, dal sapore di marijuana (o forse dovrei dire LSD?) e dai sensi rallentati. Parte “Evil Things” e il vortice continua ma con colori più scuri e verso sogni più tetri. Un inferno lento e doloroso, ecco la cavalcata di Ozzy e soci, dove la voce di Alex Mass pare distorcere da sola tutti gli altri strumenti. “Don’t Play With Guns” vince per armonie e melodie accattivanti e qui Lou Reed ritorna ragazzo, ringiovanisce la sua pelle e il suo spirito ritorna acerbo.

Il disco per fortuna conserva sempre quel senso di imprevedibilità grazie ai suoi incredibili sprazzi di genialità. Un esempio? Il feroce attacco del ritornello di “Love me Forever”. E qui a rivivere è niente meno che mister Jim Morrison. Il passato prova ad avere il sopravvento ma questa musica ribolle ora nel nostro stereo, pulsa e vive adesso. Un grande schiaffo a tutte le iperproduzioni e alle loro centinaia di futili e perfettine sovraincisioni.

Nonostante il senso di improvvisazione, tutto pare studiato per il nostro “viaggio”. I tredici brani dilatatissimi scorrono a passo lento, avvolgendo piano piano corpo e mente. L’arpeggio di “Always Maybe” è una ninna nanna maledetta e insistita, mentre “War on Holiday” sprigiona tutta l’energia spesso tenuta sapientemente al guinzaglio. La band arriva perfino a mischiare i sensi e ci invita ad ascoltare i colori del suo fantastico caleidoscopio (“I Hear Colors”) per poi chiudere con la ballabile e poppettara “You Are Mine” e con “Black Isn’t Black”, dove le vociecheggiano sempre più lontane fino a sfumare insieme al riff insistito, quasi a reintrodurci alla nostra stupida e monotona realtà.

Certo che bastano questi suoni profondi, questi rumori lunghi ed estenuanti. La sensazione nel finale è quella di uscire dal tunnel assuefatti e stonati. No non è un semplice viaggio nel tempo ma un trip visionario e delirante, senza stupefacenti. Una musica può fare.

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Bakunin – Bakunin EP

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Ispirati forse dal padre russo dell’anarchia moderna, i Bakunin, con questo nome e album omonimo, ci presentano un extended play d’esordio Garage Punk che va a pescare spuntinelle vecchie generazioni rocker degli anni Settanta. Di strada da fare i Bakunin ne hanno tanta; non riesco a trovare elementi innovativi nella loro musica. Chitarra, basso, batteria non fanno nulla in tutti e cinque  i brani per uscire dalla canonicità di un ci “stiamo provando” e risuonano già sentiti e noiosi alle mie orecchie. Ora il lavoro va sempre premiato ma in questo caso non sento né ricerca del suono, né nel ritmo, né un modo originale di cantare a squarcia gola. I gruppi Garage Punk in Europa e USA stanno facendo passi in avanti in questi ultimi anni, cercando sempre nuovi modi per spiattellarti la realtà addosso; provate ad ascoltare i canadesi Metz o i più vicini danesi Ice Age (anche se tacciati di essere filo Nazi per i tatoo) per avere conferma. Questo lavoro non ha niente d’esaltante se non la voglia di emergere della band e la spensieratezza tipica del Punk.

I Bakunin hanno ancora molta strada da asfaltare. Soprattutto dovrebbero discostarsi, se intendono ampliare il proprio pubblico e cercare di farsi spazio nelle solite litanie Punk Rock improvvisate. Chiariamo un concetto: non è che se il Punk è facile da suonare allora basta un ritmo serrato, una chitarra distorta, voce urlata e spensieratezza. Potrebbe bastare tutto ciò ma se non ti muovi dalle “solite cose” non fai passi avanti e vieni percepito come “scontato” da chi ascolta. Nel complesso l’album è pieno di licks, refrain, riff e triads già sentite e superate. Ascoltate “I Wanna Get You” per un lik scandito a 4/4 sul rullante, “I Love You” per un refrain che sa di già ascoltato o il riff iniziale di “Mum” e “Street” per le triads. Di certo non manca la grinta ma da sola non basta, non ci si può fermare alle apparenze ma bisogna andare oltre e creare un progetto con un’idea ben precisa.

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Warm Soda – Someone For You

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Un raptus di nostalgia ragionata (o meno) che si slurpa in un fulmine del corpo e della mente? No assolutamente. Magari un schiaffeggiamento  sonoro che esalta memorie nei contesti degli anni zero? Acqua! A sentire Matthew Melton – capo indiscusso degli americani Warm Soda – band del Tennessee e adepta delle scalmane garage-pop d’ultima cotta stile Bay Area Californiana, sono tutte frenesie da sfogare, e , con la classica triangolazione chitarra-basso e batteria, la cricca arriva trafelata con un album molto vivace, Someone For You, un aerobico ed impacchettato disco che richiama ad un primo e irrisoluto ascolto sudori in bilanciamento StrokesBuzzcocks, ma che con l’andare del tempo di ascolto, porta a galla un ottimo mondo proprio che ha egregiamente un buon inizio e una altrettanta ottima fine.

Dodici tracce da spiaggia, solari e ombrose come un pomeriggio di fine agosto, danzerecce quanto vogliamo e che si lasciano contaminare – fragorosamente – da hook da Juke-box e filodiffusione da bar della Costa, ballate, schizofrenie slackers e spumeggianti riff che stanno e fanno stare in perpetuo movimento, con quella simpatia “godereccia” da leoni di un giovedi qualunque e viziosi passeggiatori in cerca di bionde scollate e di facile rimorchio; nelle ultime uscite dell’underground americano c’è un grande ritorno a queste sonorità, a queste “elargizioni” elettrificate che fanno battere i denti a ritmo di una spacciata libertà tutta americanoide e di essere “ad un passo dalla conquista del mondo sotto i piedi”, attecchiscono i refrain adolescenziali e storielle di amori sfigati che si apparentano voluttuosamente ad un Pop-College brufoloso, e non sempre la situazione è sotto controllo.

Per quanto riguarda il versante dalla parte dei nostri Warm Soda, si possono scoprire e intercettare anche piccole chicche tutte Garage che hanno forte espressione nelle isterie punkyes a tripletta “Violent Blue”, “Jeanie Loves Pop”, “Spell Bound”, il vizio Stoogesiano dello sputo Rock “Star Gazer”, “Diamond Ring” e lontane appariscenze glammy con un Marc Bolan che pare rinvenire a fare gli occhi dolci in “Busy Lizzy”; deve arrivare l’aria tronfia di “Lola” a chiudere il tutto, ma non solo, anche a farci decretare che questo disco riesce a creare un’atmosfera magnifica e di sollazzo, con tanti momenti tristi che al suo passaggio scappano mentre delle sopracitate biondone da acchiappo nemmeno l’ombra.

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Sadside Project – Winter Whales War EP

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Sadside Project sono un duo romano Garage Bluesgeneratosi nel 2009. La loro gavetta parte quando vincono il Rock Contest in Toscana e firmano il loro primo contratto e giunge fino i nostri giorni passando, come gruppo spalla, per le dieci date italiane del tour di Joe Lally dei Fugazi. Quest’anno presentano il loro nuovo lavoro Winter Whales War dove ci raccontano le loro vicende musicali psichedeliche eccitate dai racconti e dalle storie dello scrittore e marinaio Herman Melville. La copertina la dice lunga. L’album è un insieme di ballate da uomo di mare con il boccale stracolmo di birra e arriva fino alle più dure e inquieti canzoni strettamente Garage. Il viaggio inizia con “Same Old Story” un brano immediato, diretto, energetico. Il giusto tempo per rompere il silenzio che intercorre tra te e l’istante in cui pigi play. Segue “My Favorite Color”splendida ballata dove voce e mandolino evocano un ritornello che si lascerebbe tranquillamente cantare da un pubblico in preda ai fumi dell’alcool. Il disco prende bene e continua con “1959 (The Last Prom)”ballata romantica anni ’50 tutta “cuore a cuore” che lascia spazio alla più altisonante e melanconica “This is Halloween”.Carica, carica, carica è questo che mi trasmette quest’album! E arrivano le più rockeggianti; la cassa dritta di“Edward Teach Better Know as Blackbeard” e  la spartana “Nothing to Lose Blues”.

Proseguono la più psichedelica “Hold Fast” che ci accompagna al pezzo portante dell’album, “Molly”, brano duro e puro che cerca di riportarci sulla terraferma per ricordarci da dove veniamo ma poi ci lascia proseguire con una cover dei mitici Beach Boys, “Sloop John B”. Chiude l’album il pezzo omonimo “Winter Whales War” che con i suoi arpeggi ci molla a casa perché il viaggio si è concluso. Questo è uno di quegli album che si ascoltano tutto d’un fiato, senza pause, in una perfetta onda da solcare in compagnia di quei farabutti dei vostri amici.

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Hot Fetish Divas – Natural Inclination For Pussy EP

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Come promesso sono tornati gli Hot Fetish Divas  ad incasinarci e farci pogare con il nuovo lavoro Natural Inclination For Pussy . Trentacinque minuti di ritmo serrato e testi urlanti l’asimmetrico rapporto con il gentil sesso. Puro delirio in stile punk, un album tutto da ballare, o meglio da saltare. Gli HDF ci confermano la spensieratezza come bandiera dei loro ritmi e testi riot per una musica tutta a squarcia gola. Amori impossibili, disattesi, avventure e controindicazioni in quest’album che senza veli ci parla di fica e della naturale inclinazione verso di essa che hanno gli HDF e noi maschietti arraponi.  Le prime tre tracce sembra portino la loro bandiera, partendo da “My Heroin”  e gli amori mai abbandonati che ritornano a galla, passando per “Spastic Love e le incomprensioni inevitabili, finendo in Radical Chic “For me You Are The Shit!!!”. Niente di più esplicativo e immediato. Un album che racchiude le turbolenze degli HDF  in un superlativo mix di parole scomode e chitarre incazzate. Le mie preferite in assoluto sono “Everything i Want“ con un connubio quasi perfetto tra batteria e voce sguaiata e “Psychola bandiera degli HFD. Mentre in “Ordinary Bitch devo dire che l’assolo di chitarra va un attimo ricontestualizzato. Devo ammettere che questi HDF sanno il fatto loro. Ascoltandoli mi vengono in mente gruppi come i System of a Down e gli Ska-P, due opposti, che ben miscelati ci regalano questo fantastico album da non perdere se siete interessati a questi punkettoni nostrani.

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Hot Fetish Divas – Songs For A Trip EP

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Quello che mi ha incuriosito subito di questa band è il nome Hot Fetish Divas. Un richiamo forse all’ostentazione dei nostri tempi. O una presa per il culo a chi se la sente ”calla” come si dice a Roma. Fatto sta che il nome della band unita alla splendida copertina dell’EP Song For A Trip, realizzata da Antonio Boffa illustratore di libri da bambino, mi hanno subito catapultato su bandcamp per ascoltarli. Chi meglio di un illustratore di libri da bambino poteva fare da copertina a quest’album che dal nome ci porta da se all’innocenza di sognare e poterlo fare come via d’uscita a ciò che opprime la nostra esistenza. Ma non c’è nulla di triste in questo album, solo carica e sfrontatezza tipica delle band Punk. Sarà che a me il genere piace ma non trovo altri termini per definirli ai primi ascolti: Forza, Sfrontatezza, Ritmo Serrato e Spensieratezza. Tutti gli ingredienti necessari ad una band punkrock.

Quest’album è stato registrato in poco tempo ed fa da apri pista al full-lenght album “Natural Inclination For Pussy” la cui uscita è prevista per questo mese.A mio avviso hanno tutte le carte in regola. Ascoltandoli mi sembra tutto mixato al punto giusto. Voce adatta al genere, chitarra superdistorta e batteria che picchia duro.C’è poco altro da dire su questa promettente band: semplicemente fantastici a mio avviso. Non posso far altro che aspettare il nuovo album e aspettare che passino a Roma per un live. Bravi ragazzi continuate così e i risultati non si faranno attendere.

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Death By Pleasure – Wasted, Wasted Ep

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Sabato 8 Dicembre.
Da ieri Pescara è invasa dall’onda anomala dell’Indierocket. Quest’anno niente location fisse. Una grandiosa festa itinerante come un serpente striscia per la città con la sua scia di ragazzini ubriachi, dal cuore di Manthonè fino alle discoteche (se cosi si possono definire) delle zone più periferiche. Per qualcuno sarà una serata memorabile. Altri si chiederanno chi cazzo sono Delawater, Sam Mickens, New Candys, Disquieted By, ecc… Molti rimpiangeranno quei bei sabato di merda passati a sbronzarsi, scazzottare, vomitare e ballare all’ombra di quattro Dj e basta. Io mi scolo l’ultima latta al sapore di piscio caldo e mi fiondo nella mischia. Stasera si va all’Orange, uno dei pochi locali di genere, di quelli da cui gli hipster, di solito ma non sempre, stanno alla larga, pieno di metallari incalliti, con barbe incolte e capelli unti tipo nani da Fantasy Movie. Non mi sembra di aver mai visto nessuno con grossi martelli medievali ma sono sicuro che nel bagagliaio delle loro belle monovolume debbano essercene. Mi fermo a pisciare sotto a un ponte, dove quattro ragazzetti ben vestiti, con petto villoso in vista nonostante il freddo, si fanno la loro sniffatina prima di iniziare la serata a caccia di figa con i soldi di papà. Li mando a cagare quando iniziano a sbraitare come cani che difendono le loro troie dalla vista del mio cazzo e continuo la mia odissea tra le anime dei dannati che lamentosi si accalcano all’ingresso di una discoteca Reggaeton dove rumeni strafatti in mutande litigano con sbirri annoiati e pieni d’odio. Io vado all’Orange.
Stasera tocca al duo trentino (Mirko Marconi a voce e chitarra e Lorenzo Longhi, sostituto di Marco Ricci, alle percussioni) Death By Pleasure. Arrivo davanti al locale e il pubblico è esattamente quello che ti aspetti. Metallari cronici che vanno al concerto, anche se dovesse suonare una cover band dei Pooh, qualche punkettone impenitente, universitari con pochi soldi in tasca, puttanelle dark, trentenni con la fobia di crescere ed Io.
È abbastanza presto e mi isolo cercando di fumare una Pall Mall 100’s e bere una Peroni comprata da un pakistano, senza che nessuno venga come al solito a rompere le palle per una sigaretta o per vendere un cazzo di accendino che domani avrò perso. Tutti sono in fermento ma non ancora abbastanza. È presto, vi dicevo e gran parte di questi sconosciuti compagni di sbronze è ancora troppo serio perché abbandoni le proprie timidezze disadattate. Un tossico (almeno cosi mi sembra) comincia a fare il gradasso, urlando e ridendo, sbraitando verso i deboli sobri convinto della propria essenza di unico essere libero della terra e della serata. Entra ed esce dal locale come il cazzo di un eiaculatore precoce e alla fine, proprio quando do i soldi al negro per l’accendino con un culo sopra (il mio l’ho perso, puttana Eva) quel cazzo di tossico mingherlino fionda un cazzotto a braccio teso sul volto di una tipa, di quelle stile universitaria che ce l’ha solo lei, la figa alla francese. È talmente moribondo e scheletrico che il dolore fisico non è niente. Deve averla ferita dentro però e lo manda a fare in culo in maniera molto stravolta. Lui si dilegua, ridendo, il coglione mentre spengo la centos e bevo un altro sorso di birra gustandomi la scena del ragazzo frocio di lei che non fa assolutamente nulla, finendo per farla incazzare ancora di più. In realtà nessuno ha fatto niente, non solo il frocio (che comunque probabilmente se la scopa, quando lei vuole e quindi avrebbe avuto motivi migliori per non farla incazzare). Voglia di sopravvivere, menefreghismo, la tipa sarà stata sul cazzo a tutti? Chi può dirlo. In fondo neanche io faccio niente, oltre che accendermene un’altra e stappare sessantasei. Bella serata di merda la loro. Stasera niente pelle per il frocetto.
Faccio un’ultima pisciata dietro al vicolo e sono pronto a entrare. I Death By Pleasure hanno appena iniziato. Una bomba; una cazzo di fottuta figata, porco il nostro grande signore delle tenebre Satana. Lo dico ad alta voce e sono costretto a scusarmi con gran parte dei suoi adoratori presenti. Il locale puzza di testosterone. Anche le fighe puzzano di testosterone e capisci perché il Rock non è roba da checche. Qui anche le donne sembrano avere le palle. Inizia un lento pogo violento e mentre cerco di prendere un bicchiere di vino a buon mercato (altro che prezzi da Milano da bere come per il corso) mi arriva un pugno dritto sugli occhi e ciao ciao.
Domenica 9 Dicembre.
Mi sveglio alle dodici nel letto di casa a sessanta chilometri dall’Orange e da Pescara. Che cazzo è successo? Non ricordo niente e non ho nessun livido se non allo stomaco. Forse al concerto non sono mai andato? Sono mai uscito da qui? Mi alzo dalla culla e vado direttamente in cerca di cibo. Prendo Wasted, Wasted, l’Ep dei Death By Pleasure e comincio a ingozzarmi di Garage, Lo-Fi, Punk, Shoegaze, Psichedelia Sixties che non ci metto più di quindici minuti a divorare tutto. Il mio corpo non regge ed esplode in un sound da paura, come se le budella mi fossero uscite dal deretano e si fossero infilate in un tritacarne. Wasted, Wasted è una cazzo di fottuta figata. Ho sentimenti discordanti verso le accoppiate solo chitarra/voce e batteria. Mi sono rotto le palle di cloni che scimmiottano White Stripes o Black Keys per fare poi la fine dei Bud Spencer Blues Explotion.
Ma loro sono di un’altra pasta.
Già l’inizio di “Spontaneous Combustion”, il suo intro Hard Rock acido, il proseguimento punk garage che sembra uscito da una vecchia cassetta anni settanta, la potenza della sezione ritmica minimale e devastante, mi aprono il cervello. Il cantato di Mirko per quanto tecnicamente non sia niente di eccezionale è perfetto nel suo essere volutamente anarchico. Le note si trascinano violentate dal fragore, ricalcando la nuova ondata rumoristica alla No Age o Clockcleaner senza dimenticare le influenze del buon vecchio shoegaze britannico, specie nella fantastica “Points Of View”.  Se tutta la componente data dall’influenza dei suddetti generi è rimescolata con violenza nella prima parte dell’Ep, con “Shy, Shine”, i trentini riescono quasi a dare una struttura melodica al loro garage multicolore, partendo da un intro di scuola barrettiana per finire proprio rielaborando armonie tipiche stile The Piper At The Gates Of Dawn (il primo album proprio dei Pink Floyd) chiudendo in una valanga sonora devastante.
Con “Find A Fire That Burns” un sospetto precedente trova la sua conferma. Dentro questo Ep ci sono tanti ascolti dei grandissimi Nirvana. Più di quelli che chiunque abbia ascoltato l’Ep potesse immaginarsi. Come se quel Grunge primordiale fosse riproposto con ancor più grinta, mescolato allo Shoegaze e al Noise. Anche nella voce c’è una sorta d’involontario omaggio al modo di cantare di Kurt Cobain e all’esplosione del suo cervello.  Le sperimentazioni sonore di “Waiting, Wasting” anticipano alla perfezione LBMB che, se non convince pienamente nella parte iniziale, poi diventa un ordigno vero e proprio nel finale.  Nel complesso qualche assonanza con il Blues di White Stripes e Black Keys c’è ma non è mai egemonico rispetto al resto che è pura adrenalina!
Lunedì  10 Dicembre (forse)
Mi sveglio con un mal di testa da paura. Che cazzo. Accendo la luce e mi guardo intorno. Dove cazzo sono? Non è la mia camera, anche se la forma è la stessa. Fa un caldo infernale. Lo stereo non c’è più, non c’è il giradischi, nessun vinile, nessun libro, nessuna bandiera dei Sex Pistols, non c’è niente. Apro la porta della mia camera e mi accorgo che tutto sta bruciando. La casa è in fiamme ed io sono in trappola. Ed ho anche un cazzo di occhio nero.

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Freddocane – Freddocane

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“The only people for me are the mad ones, the ones who are mad to live, mad to talk, mad to be saved, desirous of everything at same time, the ones who never yawn or say a common place thing, but burn, burn, burn, like fabulous yellow roman candles exploding like spiders across the stars…”

–         Jack Kerouac

 

Senza dubbio il punto forte dei Freddocane sono i testi il il loro modo di usare le parole. L’uso frequente di figure retoriche e uno stile, che come loro stessi confermano, deve molto alla letteratura di Jack Kerouac e alla sua “prosa spontanea”, spesso confusa con un non stile ma in realtà il modo più difficile per affrontare un testo: poche regole e un proficuo uso di figure retoriche. Bisogna saper dosare bene ogni parola, e Beppe Fratus, Ivano Colombi e Stefano Guidi dimostrano di saperlo fare, dimostrando anche un’ottima capacità di accoppiare parole e musica, che non è da tutti.

Ho rilevato nel disco quattro filoni ben definiti e collegati fra loro. Insane, traccia con cui inizia l’album e che riprende a suo modo le considerazioni di Kerouac sulla follia, è un notevole esempio di come accoppiare le parole fino a crearne quasi una poesia con la loro musicalità. E proprio la follia in cui non si distinguono né i suoi aspetti positivi né quelli negativi, ripercorre tutte le tracce. Come allo stesso modo possiamo intravedere il passare inesorabile del tempo come condizione di immobilità e paura. Questo concetto è ben scandito in Dentro il tempo dove il ritmo del pezzo è dato nuovamente dalla musicalità e dall’armonia delle parole; andando avanti nel disco immobilità e paura diventano pian piano confusione mentale e stanchezza, concetti che si vedono realizzati in Nebbia e Stanco. Un finale più cupo e psichedelico raccoglie in pieno tutte queste sfaccettature di un disco all’altezza delle sue ambizioni.

Primo singolo dell’album è la traccia n°5, Freddocane; sono però convinto che questo lavoro possa esprimere il meglio di sé se ascoltato come fosse una traccia unica, per le evocazioni di immagini che riesce a procurare nel suo tutt’uno.

Curiosità: potete notare che la voce ETICHETTA è rimasta vuota. Per ricollegarci a Kerouac e a quella generazione di cui era stato fatto portavoce, la beat generation, in un saggio del 1958, la scrittrice e giornalista Fernanda Pivano scriveva: “…i ragazzi raccolti sotto il nome di beat generation…non sono professori o scrittori professionisti aggrappati ad un impiego in Case Editrici o giornali…ma giovani che credono nella vita ma respingono i sistemi morali e sociali e vogliono scoprirne da sé di nuovi sperando di trovarli più efficienti”. Concetto che mi sembra in piena sintonia con le parole apparse in un comunicato stampa dei Freddocane: “non hanno mai cercato etichette discografiche che li producessero non per snobbismo, ma perché teorici del DIY che, se fatto bene, è più che sufficiente, l’album si può acquistare solo ai concerti o contattando la band, perché il contatto con chi ti apprezza è più importante della monetizzazione”.

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