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An Evening with Giorgio Moroder @ Big Bang! OGR Officine Grandi Riparazioni, Torino | 30.09.2017
È stato bello tornare a varcare l’ingresso delle OGR di Torino, ed è stato ancor più bello scoprire che questa lunga riqualificazione (ben 3 anni di lavori) non ne ha alterato il grande fascino.
Duran Duran – Paper Gods
Tornano i Duran Duran con il loro quattordicesimo disco in studio, Paper Gods, un disco in cui sono i sintetizzatori a fare da padroni ma in cui non mancano buoni spunti chitarristici (fra gli ospiti c’è anche John Frusciante, ex Red Hot Chili Peppers) e ritmi ballabili. Sì, perché questo è probabilmente l’album più Dance mai pubblicato sinora dal gruppo inglese, che alcuni giorni fa ha avuto anche l’onore di introdurre il nostro Giorgio Moroder premiato con l’Inspiration Award ai GQ Men of the Year Awards 2015. Tuttavia attenzione: Paper Gods non è una copia di nessuno dei suoi predecessori perché è sempre stato così in fondo. I Duran Duran preferiscono rinnovarsi, aprirsi a nuove sonorità e soprattutto sperimentare senza mai eccedere nell’eccentricità. Chissà che quegli Dei di carta non siano proprio loro che sono ormai sulla cresta dell’onda da quasi quarant’anni. Attraversare cinque decadi non deve certo essere stato facile, come non deve esserlo stato non cedere alle mode del momento quali il Grunge, ma i quattro di Birmingham hanno sempre tenuto duro, resistendo persino agli avvicendamenti in formazione. Oggi non hanno più un chitarrista “fisso” ma hanno in Dom Brown un valido collaboratore che li assiste ormai da dieci anni e che firma persino alcuni brani del disco. Già dalla copertina, in cui sono presenti i simboli di alcuni lavori passati, i Duran Duran hanno tenuto a indicare che Paper Gods è quasi una sorta di breviario del gruppo, utile a conquistare nuovi fan, ma che forse ha indispettito alcuni tra quelli più fedeli che dopo cinque anni di assenza dal mercato discografico (se non si considera il live A Diamond in the Mind) pretendevano qualcosa in più. Tuttavia Paper Gods suona come un disco “maturo”, perfetto per il 2015, un po’ meno se fosse stato prodotto negli anni Ottanta. La mano dei produttori (Mark Ronson, Mr. Hudson, Josh Blair e Nile Rodgers) è evidente e le collaborazioni di lusso non mancano; in una bonus track, presente solo nella deluxe edition, “Planet Roaring”, c’è persino Steve Jones dei Sex Pistols a dare un sentito apporto, ma le più “inusuali” sono certamente quelle di Lindsay Lohan che presta la sua voce per un parlato in “Danceophobia” e di Jonas Bjerre dei Mew in “Change the Skyline”. E poi ci sono anche Mr. Hudson, Davide Rossi (in passato già al fianco di Coldplay e Goldfrapp), Kiesza e Janelle Monáe che non fanno altro che dare un valore aggiunto al disco. Tuttavia l’album più che al passato e al presente guarda al futuro, quello dei suoni sintetici, che a volte hanno sì un sapore vintage ma che potrebbero essere di ostacolo al successo del disco. Manca un singolo di forte impatto dal ritmo inconfondibile e “Pressure Off” è forse troppo poco per scalare le classifiche. Tuttavia in Italia la canzone è già usata come sigla per la Serie A Tim e come sottofondo per gli spot Tim (proprio come accadde anni fa con “(Reach Up for the) Sunrise”) ed è facile prevedere che almeno nel nostro paese venderà molto bene (posizione massima raggiunta finora: #2). Altrettanto sta già facendo nel loro paese natio dove è già in cima alle classifiche di Amazon; rimane invece qualche perplessità per il mercato statunitense e per quello giapponese dove un sound più “heavy” avrebbe giovato molto. I Duran Duran però ci hanno abituato negli anni alle sorprese e quindi staremo a vedere cosa succederà. La prova definitiva sarà certamente quella del live, dove sarà difficile riprodurre certe atmosfere, ma anche lì forse le tecnologie moderne daranno una piccola mano. I punti di forza (o di ripartenza per un eventuale futuro) sono certamente da ricercare in “What Are the Chances?” e in “Garage Days”. Intanto provate a godervi questo Paper Gods che in fondo rispetto a quanto si sente in giro è un gradino più su.
Stri – Atom
Purtroppo alcune volte ti capitano fra le mani lavori come questo che appaiono troppo statici nella struttura dei pezzi, che non aggiungono nulla rispetto a quanto ascoltato già in passato e viene quindi voglia di fermarsi un attimo e riflettere sulla condizione della musica elettronica odierna. Se l’obiettivo è quello di far ballare il proprio pubblico, allora rimpiango i tempi di Donna Summer e della mitica “I Feel Love” in cui il nostro Giorgio Moroder dava il meglio di sé a livello compositivo. Se lo scopo invece appare differente, come nella quinta traccia del disco, “Pigiama”, che è quanto di più riflessivo ed introspettivo possiate trovare, allora il discorso potrebbe far alzare positivamente l’asticella dell’interesse . Troppo poco tuttavia, per far pensare a un prodotto originale nei suoni e nelle atmosfere, che spesso non è nient’altro che un insolito mix di voci e strumenti sempre in bilico fra il Post Rock e la musica elettronica degli Apollo 440 (quelli di “Ain’t Talking Bout Dub” per capirsi) con variazioni dei bpm che passano da un minimo di 90 a un massimo di 133.
L’autoproduzione è una scelta consigliatissima a quasi tutti ma sarebbe giusto che questo duo trovi qualcuno che li affiancasse perché forse questo progetto qualche idea buona la riserva, soprattutto verso la fine con “Estelle” e “Opa”, due brani che, inseriti in un altro contesto, non passerebbero mai inosservati. La scena marchigiana attuale presenta diversi talenti che varrebbe la pena vedere dal vivo e forse un’occasione la meriterebbero pure gli Stri, di cui si dice un gran bene in giro. Se però avete solo intenzione di sentire un disco nuovo, conviene stare alla larga da questo lavoro ed orientarsi altrove, magari ripescando la precedente uscita discografica del gruppo, Canyon, che ottenne un ottimo riscontro dalla critica. Atom appare come una serie di tentativi (la maggior parte mancati) di emulare ora i Chemical Brothers ora i Radiohead dell’ultimo periodo. In entrambi i casi, ahimè, il fallimento è dietro l’angolo.
Tutto da rifare?
Daft Punk – Random Access Memories
È uscito l’attesissimo nuovo album studio dei Daft Punk, Random Access Memories; sono passati otto anni da Human After All ma i numeri parlano chiaro e già alla premiere su Spotify Random Access Memories batte tutti i record di streaming in UK e USA, con “Get Lucky”, come dichiara il Guardian, ma i numeri non sono noti. Sarà vero o sarà la solita trovata pubblicitaria? Ecco come conclude il Guardian, poi vi dirò la mia: “I robot hanno ancora una volta dimostrato di essere veri innovatori, non solo con la loro nuova direzione musicale e il cast stellare di collaboratori, ma anche perché hanno intrapreso una delle migliori campagne pubblicitarie che abbiamo visto da qualche tempo a questa parte. Ci aspettiamo che l’album diventi uno dei più grandi, se non il più grande, su Spotify quest’anno. “
Personalmente, tutta questa innovazione non la sento; la nuova direzione musicale, un misto di Funky Soul elettrificato da suoni campionati in bassa frequenza, non sembra tutta farina del loro sacco, ecco perché alle mie orecchie sembrano profondamente cambiati; altro che nuova direzione musicale. Sarà frutto del cast stellare di collaboratori che hanno contribuito, e non poco, a rendere questo lavoro perfetto, satinato, talmente studiato che prima di uscire ha già battuto i record di ascolti. L’album si avvale di diverse collaborazioni; tra i più incisivi troviamo la chitarra del compositore Nile Rodgers a dare all’atmosfera quel tocco retrò/vintage. Per chi non lo sapesse Rodgers è considerato uno dei più influenti compositori della storia della musica Pop. Tra cui troviamo anche Paul Williams, ripescato chissà dove, autore e compositore molto attivo negli anni ’70. Tra i producer anche Chilly Gonzales pianista canadese specializzato in elettronica. In questo primo humus di nomi troviamo gli ingredienti fondamentali di quest’album studiato alla perfezione e dall’atmosfera molto Disco ’70.
Andiamo ai brani. Il singolo “Get Lucky”, record di stream su Spotify si avvale della presenza di Pharrell Williams, voce anche in “Lose Yourself to Dance”, altro super big della musica Pop che, per intenderci, ha scritto molti pezzi della star del Rap Snoop Dog. Brano simbolo del disco è “Giorgio by Moroder” con la partecipazione appunto del grande compositore pluripremiato Giorgio Moroder personaggio di spicco della Disco ’70, traccia monologo, nove minuti dal mood graffiante e molto Funky. Scostano i nomi di Julian Casablancas, degli Strokes, in “Instant Crush” e di Panda Bear in “Doin’ It Right”.
Come leggete e potrete sentire questo lavoro presenta una moltitudine di sfumature collaborative che sicuramente da un lato impreziosiscono ma dall’altro lasciano poco spazio a ciò a cui i fans di lunga data sono abituati con i Daft Punk. Un lavoro che sorprende al primo ascolto e i vecchi fans dovranno faticare per trovare qualcosa a cui aggrapparsi altrimenti non rimarrà che supplicare un ritorno al passato e non quello vintage Disco ’70 ma quello dei primi Daft Punk.