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“Niente” è il nuovo video dei Mondo Naif
Dopo il lancio del nuovo album Turbolento (Dischi Bervisti, Dreamingorilla Records, Go Down Records, Audioglobe / Dischi Sotterranei), esce il video del singolo ‘Niente’. Per la prima volta nuove date live Sotterranei a Reggio Calabria e Perugia. Turbolento è il secondo album dei Mondo Naif. Il suono ruvido e roccioso delle chitarre si risolve in mari di quiete. I testi richiamano le atmosfere oniriche dell’allucinazione affrontando i temi del sogno lucido, dell’abisso e della negazione, in un disco che è (perchè vuole essere) duale. Le parole le capite perchè sono in italiano. Prodotto, registrato e miscelato presso il Groove Studio di Casale sul Sile (TV) da Capitan Tommaso Mantelli, il lavoro è impreziosito dalla partecipazione di turbo Sergio Zags Pomante (Captain Mantell) che ha cavalcato il vento a bordo del suo sax in Aquilone, turbo Nicola Manzan (Bologna Violenta) che con le frecce dei suoi archi ha reso l’inferno di Belfagor un posto più bervista, turbo Alberto Piccolo (Glincolti) che impugnando la sua chitarra ha introdotto il flamentico mondo degli Inferi in Vexilla Regis Prodeunt Inferni e ci ha reso uomini liberi con gli assoli di Non tempo e Niente.
Temple Of Deimos – Work To Be Done
Facciamola corta: i liguri Temple Of Deimos sono riusciti a teletrasportare dentro i confini italici uno scampolo del Palm Desert californiano. Ci si sono piazzati in mezzo, coi loro fuzz e il loro recupero filologico e gustosissimo delle caratteristiche chiave del sound nineties di Queens Of The Stone Age e precursori, e ci hanno confezionato questo appetitoso Work To Be Done, dieci brani di rock obliquo e compatto, potente e psichico, dove chitarre dai riff affilati ti artigliano la faccia senza pietà (“Sun Will Gulf US”, o “Questi Cazzi Di Vespone”, provare per credere) e le cui batterie muscolari non ti lasciano prendere fiato nemmeno per mezzo secondo. Sonorità e ambientazioni completano il quadro: un immaginario quasi alieno, come lascia intendere anche la splendida copertina. Il risultato è una gragnuola di colpi che farebbe bagnare qualunque appassionato del genere, un genere qui affrontato con rispetto, fantasia e compattezza d’organi genitali (col cazzo duro, insomma). Qui e là solo la voce non mi soddisfa al 100% – intendiamoci, questione di gusti: Fabio Speranza canta completamente immerso nel mood e il risultato non è mai insufficiente, anzi. Nel complesso, dunque, la prova è riuscitissima. Li ho pure visti dal vivo, e spaccano. Che altro dire? Avevo promesso di farla corta, finiamo così: un pelo di distacco in più dal materiale d’origine e avremo tra le mani un gruppo di quelli tosti, ma tosti davvero. Intanto godetevi Work To Be Done, che già così è una bella cavalcata.
GramLines – Coyote
Non è di certo una novità che il Veneto sia culla di sana musica. Abbiamo spesso sentito parlare di One Dimensional Man, progetto idea del geniale Pierpaolo Capovilla, dei Non Voglio che Clara, determinati e scuri, degli Artemoltobuffa, simpatici, indipendenti e dal carattere naif. E quanti locali hanno passato “Warp 1.9” del progetto The Bloody Beetroots o il metallo degli Arthemis. E la Patty Pravo che riecheggia per le strade. La lista è sufficientemente lunga e la conosciamo bene, ma oggi siamo interessati ad un nome soltanto: GramLines. Sono in cinque e sono di Padova. Tutta roba italiana, recitata in inglese, che ben si addice allo stile aggressive Alternative che hanno deciso di abbracciare. Nel 2012 esce il primo EP della band, sotto il titolo di Burning Lights EP e due primavere dopo, in maggio sboccia un nuovo lavoro: Coyote EP, suonato su palchi condivisi con nomi del calibro di Linea 77 e Zen Circus. Non male.
Il disco si presenta caratterizzato da tonalità molto impetuose, perfettamente realizzate nella stesura di “The Bone”, capitolo #2. L’orecchio viene inevitabilmente spiazzato da un basso incredibilmente in linea con quanto proposto dai The Strokes ed il paragone è inevitabile, seppur mancante la vena Indie, sostituita da un perfetto stile Alternative. Il risultato è di gran lunga più orecchiabile, caratterizzato da venature a tratti metalliche e a tratti Blues Rock, nulla togliendo ai mitologici newyorkesi. Nell’episodio successivo si fa spazio a tastiere ed arpeggi maggiormente melodici, accompagnati da lievissimi chorus, ma lo stile si afferma e continua a risaltare quella tendenza Blues di cui poc’anzi. Le estroverse chitarre di Stefano Bejor e la camaleontica voce di Francesco Campaioli ben sanno raccontarsi attraverso gli oltre 6’ di “The Road”. Ma Coyote EP sa farsi ben apprezzare e non ha di certo paura di sfoggiare strutture alternative attraverso l’intro Rock’n’Roll di “The Thrill of a Breakdown”, che cede presto spazio al bit bass di Alberto Pavinato. Strutture non di certo banali accompagnano l’intero brano per tutta la sua durata, donando alla traccia un carattere molto più internazionale. L’ultimo episodio dell’EP continua a manifestare lo spirito animalesco dei cari GramLines ed è soltanto a questo punto che si riesce ad apprezzare pienamente il timbro di Francesco e le doti artistiche di tutti i musicisti protagonisti del progetto. Una splendida credit track per uno splendido lavoro.
Nulla da aggiungere, a questo punto, attraverso Coyote EP la vita diviene una strada. È questo il tempo delle bestie? Amano raccontarsi così. Noi intanto raccontiamo le aspettative attraverso un giudizio dal carattere interessante, in attesa di un vero album studio.
King Size – Guess It
Non si sa il perchè, ma avrebbero già dovuto essere un fenomeno underground questi King Size, quartetto trevigiano che con il nuovo disco “Guess It” – dieci tracce di sano e robusto cortocircuito rock.-garage maculato di brit – ri(dimostrano) di avere tutti i full ed i jack in ordine per andare più su, a conquistare una fetta e più fette di notorietà della torta underground; pezzi elettrici di energia ed impensabili equilibri sonori che si intrecciano e si riproducono all’inverosimile, una tensione amplificata che lascia immediatamente l’impronta “pirica” delle band rock’n’roll con i contro testicoli.
Sono in quattro ma costruiscono un caos evocativo plurimo, un bailamme dove l’effetto primario è un “rock a manetta” che si ripercuote tra woofer e coni come un pungiball impazzito, quell’energia che si consuma tra i Ramones “Distortion” e i Tangerine Puppets “Wanna be yours” che sbatte di testa ed inventa soluzioni distorte da pogare senza ritegno, con la giusta strafottenza, il giusto “ghigno” d’ordinanza; ottime anche le virate verso colorazioni brit pop di primaticci Blur “Money Laundering”, “London sun”, “Gimme some talent”, ma la necessità di prendere chiare posizioni soniche sono dettate dall’impellenza di spaccare le testate degli ampli e di rimandare la botta di vita scatenante del rock alle nevrosi scoppiettanti che “I really want to fly”, lo shuffle schizzato di “Mr. Green Pie” e la bella ballatona che sprizza malinconicamente da tutti i pori possibili le rifrazioni sixsteen “ Sitting on the moon” mettono a contrasto di un ascolto passivo l’orecchio, poi si traducono in complementi essenziali per un disco che suona e fa muovere canagliescamente chiunque.
I King Size sanno il fatto loro, sfornano una list che fa scintille ed un tracciato elettrico che non ammette fiacche fisiche, tutto il resto è gioia.