Dopo lo split del 2009 in compagnia degli Sleepmakeswaves, australiani come loro e postrocker come loro, e a quattro anni di distanza dall’esordio full length Deaden the Fields, tornano i ragazzi di Perth con cinque brani che uniscono gli aspetti più poderosi dell’Hardcore, alle precisioni del Math Rock di scuola statunitense anni Novanta, il tutto in forte chiave Post Rock solo in parte vicina alle icone leggendarie 65daysofstatic e Godspeed You! Black Emperor. Se gli aspetti più aggressivi e nerboruti, quasi Sludge e Post Metal a voler rischiare, sono subito messi sul piatto con l’opening “The Albanian Sleepover – Part One”, specie nei primi cinque minuti, ricalcando lo stile mogwaiano di The Hawk Is Howling soprattutto (leggi “Batcat”) la part two dello stesso brano ci mostra i Tangled Thoughts of Leaving sotto tutt’altra veste, grazie ad un uso matematico del piano, delle ritmiche, dei tempi e delle note, lambendo territori Neo Classical. Si abbassano ancora i toni con “Shacking Off Futility”, cupa ed emozionante, perfetta per evidenziare tutto l’eclettismo della band. Con “Downbeat” si torna in territori più impetuosi, infernali e oscuri, grazie ad una miscela di Noise, Avant Rock, Doom, ovviamente Post Rock e divagazioni Modern Classical prima della conclusiva e quasi toccante “Yield to Despair” che sembra voler chiudere l’album mostrandoci il lato più disturbato della formazione australiana, più tormentato e inquieto, nel suo crescendo sonico. Yield to Despair è un disco di non facile interpretazione, ponderoso per orecchie non abituate e appesantito da una moltitudine di similitudini e dalla poca freschezza del genere in sé eppure realizzato con una cura non indifferente e trasudante una sensibilità artistica notevole. Se OzProg lo ha definito come se i Dirty Three suonassero con the Necks, io non vedo loro di scrivere che i Tangled Thoughts of Leaving suonano esattamente come i Tangled Thoughts of Leaving.
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Sleepmakeswaves – Love of Cartography
Quando decollano le prime note (“Perfect Detonator”) del secondo full length targato Sleepmakeswaves, la prima preoccupazione da cui il mio istinto ha cercato di sfuggire è stato dovermi sciroppare dieci pezzi di una mistura Emo Pop dalle venature sinfoniche con un qualche vocalist dall’imbarazzante intonazione in stile Gerarg Way (My Chemical Romance) a massacrare la mia pazienza. Per fortuna, la memoria funziona ancora abbastanza bene e, con facilità, ho potuto distinguere, nelle note di Love of Cartography, lo stesso stile (una specie di Ambient Rock prettamente strumentale) melodico e dalle tendenze a una certa epicità che mi colpì, senza far danni, tre anni orsono con …And So We Destroyed Everything e ancor prima, nel 2008, con In Today Already Walks Tomorrow (non sono queste però le prime produzioni del quartetto di Sidney, le cui radici vanno invece ad affondare ancor più in là, agli inizi del 2007).
Rispetto al passato, il sound di Jonathan Khor (chitarre), Alex Wilson (basso, programming, tastiere), Tim Adderley (batteria) e Otto Wicks-Green (chitarre), diviene ancor più rapsodico, gonfiandosi di un’energia che si sfalda nell’ inoltrarsi dei minuti, disfacendosi nell’incapacità di plasmare una trepidazione sonica di sorta. Perspicace la scelta di non abbandonare la melodia, alla ricerca di una sperimentazione che li avrebbe resi ancor di più difficile ascolto e costruttivo è l’uso dell’elettronica che si fa più incalzante da “Emergent”. Eppure, Love of Cartography annoia, non incanta, non fornisce la giusta carica che solo certi album strumentali riescono a dare (penso a Lift Yr. Skinny Fists Like Antennas to Heaven! dei Godspeed You Black Emperor! o The Earth Is Not a Cold Dead Place degli Explosions in the Sky) e finisce per somigliare a un album ancora abbozzato al quale si debba aggiungere una voce, più che a un’opera compiuta. Provano a spezzare la monotonia alcuni brani più elastici come “A Little Spark” e convincono altri più vicino al rock strumentale moderno (“How We Built the Ocean”) ma nel complesso, nel già intricato e contorto mondo del fosco Post Rock, c’è ancora troppa roba con un passo decisamente oltre quello di questi nuovi Sleepmakeswaves.
Rockambula al Primavera Sound, Day 3 (giovani e soddisfatti)
Ultimo intensissimo giorno (guarda Day 0, Day 1, Day 2). Dal CBGB al Forum di Barça, una pietra miliare del Rock, Marquee Moon dei Television.
Doveroso presenziare alla performance di Caetano Veloso sullo stage Rayban, per tornare poi all’Heineken dagli Spoon.
Justin Vernon in versione sperimentale e destrutturata, i Volcano Choir.
Giusto in tempo per ascoltare l’ultimo pezzo dei Godspeed You! Black Emperor. Poi allo stage Vice per i Cloud Nothings.
Una scelta difficile dopo l’altra. Dopo un paio di brani sono costretta ad abbandonare lo stage Sony e i Nine Inch Nails.
Scelgo il live dei Mogwai, dall’inizio alla fine, e non me ne pento affatto.
Dopo aver dovuto rinunciare ai C+C=Maxigross, un moto di campanilismo mi porta dagli italiani Junkfood, e i ragazzi non se la cavano affatto male.
Il Math Rock dei Foals all’Heineken stage.
Giusto il tempo di saltellare un po’ sull’Indietronica dei Cut Copy ed é ora di andare. Hasta luego Primavera!
Il Silenzio Degli Astronauti – Moments of Inertia
Tra le influenze che i ragazzi de Il Silenzio Degli Astronauti citano sulla loro pagina Facebook si possono leggere God is an Astronaut, Godspeed You! Black Emperor, Mogwai, Pink Floyd. Il loro primo disco Moments of Intertia (5 brani per quasi 40 minuti di musica strumentale in gran parte onirica e cullante) pesca a piene mani dal repertorio Post-Rock internazionale, dall’opener “It Doesn’t Matter What we Fought” fino alla lunga, conclusiva, sospesa “Clouds Are Indifferent”. Una chitarra, un basso, una batteria, uniti a ricamare, con semplicità e pazienza, lenti crescendo, aperti soundscape suonati (niente – o quasi – elettronica e pochi, oculati effetti) con una naturalezza e una consapevolezza quasi artigiane.
Il Silenzio degli Astronauti, come da monicker, ci prende per mano per trascinarci verso l’orbita, dove la gravità ci abbandona lentamente, per lasciarci ondeggiare e vagare nello Spazio, scuro e luminoso insieme, così vuoto eppure così prepotentemente gonfio di significati, significati da cercare nel silenzio: un silenzio riempito solo dagli intrecci vibranti di una chitarra, un basso, una batteria.
Moments of Inertia non inventa niente, non rielabora granché, non scopre nulla: regala poco più di mezzora di volo nel buio assoluto e silente. Ma se (come me) apprezzate l’immaginario stellare, cosmico, spaziale di un Vuoto da riempire con gli abissi della mente, andate a farvi staccare il biglietto per il vostro personale razzo extraplanetario e seguite Il Silenzio degli Astronauti. Il disco è in ascolto gratuito su Soundcloud: fateci un salto e fateci sapere.