I Deftones sono uno dei pochi superstiti all’ondata Nu Metal che travolse la scena musicale americana e non nei primi anni del 2000, toccando anche la nostra nazione (vedi i vari Mas Ruido o Browbeat per citarne due a casaccio), grazie ad evoluzioni continue che ne hanno evitato un’apparente omologazione. Gore è il loro ottavo lavoro in studio ed è stato caratterizzato, purtroppo, da alcuni rumors che vorrebbero il chitarrista Stephen Carpenter in procinto di lasciare la band a causa di contrasti interni. Non hanno mai nascosto di essere influenzati dal Dream Pop, come si intuisce immediatamente con la prima traccia “Prayers/Triangles”, un serpente sonoro che si insinua nei meandri della nostra anima, delicato al tocco seppur letale nel morso. In “Doomed User” è proprio la chitarra di Stephen ad esaltarsi, partorendo un riff di una ruvidità Punk che non si sentiva dai tempi di Around The Fur. E’ come se si avesse l’impressione che in questa canzone il gruppo, e Chino Moreno in primis, gli avesse lasciato totale carta bianca. Dico così perché resterà, inspiegabilmente, un episodio isolato. Il romanticismo New-Wave è assoluto protagonista in “Hearts/Wires”: una lunga introduzione fa da preambolo a quella che sarà la composizione più tranquilla e, al contempo, una delle più riuscite del pacchetto, valorizzata da un chorus di una bellezza inebriante. Chiacchiere a parte, anche in “Pittura Infamante” (titolo che strizza l’occhio al nostro Paese?) è il dialogo funambolico tra la batteria secca e precisa di Abe e il consueto lavoro del chitarrista a ergersi addirittura sopra le linee vocali di Chino. Una sorta di riscatto del proletariato. Nella titletrack il singer, però, si riprende lo scettro di re supremo con una performance vocale sopra le righe, ritornando ai fasti del passato con uno stile screaming capace di far vacillare le fondamenta di un edificio, per poi creare un’atmosfera soffusa nel ritornello clean. L’ospitata di Jerry Cantrell degli Alice In Chains in “Phantom Bride” pare avere più lo scopo di produrre clamore, rispetto all’utilità nella struttura della canzone stessa. Assistiamo praticamente ad un assolo Hard Rock in un brano dalle tinte Shoegaze. Perplessità a secchiate.
Gore è un gradino sopra il precedente Koi No Yokan, ma ci lascia comunque ancorati al terreno, non facendoci spiccare il volo, come pregustavamo dai fenicotteri in copertina. Parliamo sempre di una band simbolo che giunta all’ottavo disco crea tendenza e dipendenza. E dopo vent’anni non è per niente facile.