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Gottardo Project – Credighe ai Ufo

Written by Recensioni

Ahhhh! Cominciamo bene l’anno con qualche riflessione.
1. È sempre necessario per una band emergente fare un disco? Cioè: sarà il caso di sbattersi ad andare in studio, fare mille takes a tracce separate col noiosissimo click in sottofondo, cercare un’etichetta che ti produca e ti distribuisca, ricordare dal palco che i cd sono in vendita in fondo alla sala da quella bella ragazza coi capelli neri e le ciocche viola alla modica cifra di 5 €? E poi comprare le buste gialle e i francobolli, stampare le biografie, mandare il tutto ai giornali e alle webzine per farsi recensire, quando, di fatto, l’unica propria forza può essere il live e soprattutto quando non c’è nessuna velleità artistica reale, quando non si aggiunge e non si toglie nulla a quanto già è stato detto?

2. I nostri dialetti locali sono basi fondamentali della nostra identità regionale prima e nazionale poi, che fanno la realtà culturale, molteplice e unitaria al tempo stesso, della nostra bellissima penisola, custodi di un sapere autoreferenziale che va tramandato, custodito e rispettato. Se li si usa a sproposito si rischia di scimmiottare le proprie radici e farsi beffe di se stessi.
3. L’etichetta “demenziale” non deve essere un pretesto per fare i cretini su un palco davanti a un microfono. Ci va molto acume per fare del rock demenziale, probabilmente molto di più di quanto ce ne voglia per fare del cantautorato dai contenuti profondi e sicuramente di più di quanto ce ne vada per fare del buon pop.

I Gottardo Project, formazione che ruota attorno ad Alberto Gottardo, mi hanno suggerito tutte queste considerazioni. Fanno rock veneziano, dicono loro perché cantano in dialetto, demenziale, aggiungo io. Sì perchè, fin da Sbandius, prima traccia di Credighe ai Ufi, mi sono chiesta se non fosse una di quelle canzonette prese da un episodio de I soliti idioti, considerando anche la totale incapacità vocale del frontman. L’arrangiamento è quello di uno splendido rock danzereccio da discoteca mobile di paese su cui si insinuano, mezzo in dialetto e mezzo in italiano, tutte le filastrocchine sceme che si usavano alle scuole medie – concedetemi un UAO – raggiungendo il culmine in “Coca-Cola, Pepsi Cola, osso duro, vaffanculo”. Olè. Delicatissima è anche Discoteca Marameo, che, insieme a Casa mia, ricorda per andamento ritmico e sonorità, i Subsonica del primo, orripilante disco sotto major, Terrestre. Sulla quarta traccia ho avuto un moto di speranza: il basso fa un giro caldo, accattivante nella sua semplicità, con un bell’andamento funky sostenuto in maniera pulitissima dalla batteria, facendo emergere, finalmente, anche la bravura tecnica dei membri della band. Una cosa a cavallo tra Elio e le storie tese e gli Statuto. Peccato, certo, che il titolo e il ritornello recitino “Devi stare attento perché mi e me papà fasemo karatè”. Non fraintendetemi. Non ho niente contro una produzione musicale che sia puramente ludica né penso che per avere uno spessore artistico tutto debba essere serioso e ingessato, ma preferisco largamente la leggerezza del sole-cuore-amore o vale vale vai a cagare a queste composizioni da tredicenni annoiati durante l’ora di storia ma scritte da trentenni. E bisogna aggiungere lo strapazzamento linguistico: in Butta su chee man la frase “Canto in dialetto e non conosco l’italian” maltratta la lingua ufficiale e quella regionale al tempo stesso, è un inno in cui la parlata locale diventa manifesto di un atteggiamento fico di strafottenza che premia l’ignoranza. Di nuovo: come i ragazzini alle scuole medie che fanno i bulletti e si vantano di non sapere e prendere brutti voti, che è meglio così che essere dei secchioni. E siamo in un contesto ben diverso dall’uso del dialetto che fanno, per esempio, le band salentine come i Sud Sound System o gli Après la Classe, visto che i progetti di queste formazioni pugliesi si insinuano, pur con la dovuta leggerezza, in un serissimo movimento di folk revival. Muffa, arriva anacronisticamente dalla dance anni ’80: è un’invocazione al ballo con il suo malizioso “Pompa pompa pompa […] tira ste mutande” che sembra uscito da una scena caricaturale di qualche film dei fratelli Vanzina degli anni ’90. Vasco, tra le altre frasi, ne riporta una che più o meno suona come “ad ogni offesa rispondo con una scoreggia”. Tanto di classe è anche il testo di A.C.R., che racconta di una gita a Gardaland, di “tante giostre mai viste”, panini al salame fatti dalla mamma e vari cliché presi dal tema “Racconta cosa hai fatto in queste vacanze estive”.
Sicuramente fanno ridere, sicuramente se vi trovate con una bella compagnia di amici in Veneto alla sagra di qualche piatto tipico e trovate i Gottardo Project sul palco, ballate e vi fate quattro risate ricordando di quando certe filastrocche le raccontavate con la faccina furbetta al tavolo con tutti i parenti indignati e i genitori imbarazzati la sera della Vigilia di Natale e sicuramente tornerete a casa cercando di imitare la cadenza regionale. Ma riderete anche tanto nel vedere questi adulti che fanno i ragazzini, imbevuti di stereotipi anni ’80 e ’90, con buone se non ottime capacità tecnico-strumentali sprecate così, asservite a una musica di consumo anacronistica, peggio di Alex Britti che canta La vasca quando in realtà è un bluesman in grado di tener testa a chitarristi di fama internazionale. Peggio perché Britti, almeno, è arrivato a suonare in tutt’Italia, con video passati in televisione e senza aver mai scritto niente riguardo un peto.

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