Haim Tag Archive

Primavera Sound 2018 | 12 artisti spagnoli che dovresti conoscere

Written by Eventi

Mentre mettono insieme la migliore musica da tutto il mondo, dal quartier generale del Primavera Sound Festival non perdono mai d’occhio quella “made in Spain”.

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Lettere da Barcellona | Primavera Sound Festival 2017

Written by Live Report

Anche questa edizione appena trascorsa ha confermato il Primavera Sound Festival come il punto di incontro fondamentale per gli amanti della musica da oltre 125 paesi. Si stima che gli spettatori di questa diciassettesima, tra i concerti al Parc del Fòrum e le performance collaterali in centro città, siano stati oltre 200 mila. Ai 346 live in cartellone se ne sono aggiunti una ulteriore quindicina, annunciati a sorpresa durante i tre giorni della kermesse. Ma basta ragionare in numeri, che non sono mai lo strumento migliore per dipingere atmosfere.

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Primavera Sound Festival 2014 | Day 2

Written by Live Report

Sveglia di nuovo alle 15. Il fuso orario di questo appartamento nel cuore del Borne è ormai irrimediabilmente allineato a quello di Bangkok. Dei fantomatici autobus extra previsti per questi giorni tra il Forum e il centro ieri sera se n’è visto solo uno, che ci ha portati a casa alle 6.30 di stamattina. Tipo che a sapere di dover rimanere in strada piuttosto mi sparavo tutto il set di Jamie XX. Un tempo di merda ci accompagna fino al Forum, vestiti da turisti scemi tra ombrelli, improponibili poncho di plastica e messe in piega andate a puttane, che ho l’aspetto di un cocker dopo il bagnetto. Il diluvio sembra non voler affatto smettere e ogni momento vuoto è buono per riempirlo di birra, magra consolazione sotto gli stand al coperto, quando a un tratto si leva un grido collettivo di giubilo al veder spuntare dal mare un grosso nitido arcobaleno che tutti si affrettano ad instagrammare per poi correre sotto ai palchi. Arriviamo ai piedi dell’ATP giusto in tempo per gli ultimi due pezzi dei Loop. Una delle carte vincenti che da qualche anno a questa parte ha elevato il Primavera Sound al rango di grande rassegna è una scelta sapiente e variegata nel comporre la line-up, per genere ma anche per epoca, puntando molto sulle gradite reunion. Neopsichedelia in pieno giorno? Le chitarre graffianti e ossessive sembrano giungermi dimezzate da un palco dall’allestimento minimal e alla luce del seppur tanto atteso sole. La verità però è che a volte ci facciamo fregare dalle aspettative, perché al di là di quello che avevo immaginato ciò che ascolto in questi dieci minuti mi dice che questo dev’essere stato un gran bel live.

È ora di tornare verso l’area sud del Forum. Mentre il sole torna a splendere ci dirigiamo verso l’Heineken e le Haim. Ecco Big Jeff che mi sorpassa a destra correndo con in mano un panino di dimensioni proporzionate alla sua stazza e il sorriso stampato che mi contagia immediatamente come la prima volta. Se non sapete della mia prima volta con Jeffrey molto male, perché vuol dire che non avete letto questo. Durante il live ho un moto di compassione per quel poveretto di Dash Hutton, batterista e unico componente maschio della band, che è anche l’unico a non portarne il nome come cognome. Me lo immagino in tour con queste tre leonesse che sono le sorelle Haim, ignaro alla partenza che la sua è la stessa sorte di un quattordicenne che si iscrive all’Istituto d’Arte o qualsiasi altra scuola superiore covo di femmine incazzate. Mentre sogghigno e mi produco in queste inconfessabili riflessioni la mia amica Lorenza mi fa notare che le espressioni facciali di Este mentre si diletta in iperbolici giri di basso sono decisamente più divertenti. Non sono qui per loro in realtà. Sono solo in attesa di quello che accadrà tra un’ora sul palco di fronte (io che nella vita non ho mai concesso a nessuno di vedermi arrivare con cinque minuti di anticipo). Eppure questo Pop Rock mi coinvolge. Ci sono molte valide tracce in questo album di esordio, e si uniscono a tutta la presenza scenica che ieri un’altra line-up al femminile su questo stesso palco non è riuscita a tirar fuori (se non sapete nulla di ieri e delle Warpaint arriva la seconda ammonizione, perché vuol dire che non avete letto neanche quest’altro). Ops. L’app mi ricorda che tra mezz’ora al Rockdelux ci sarà il Noise di Body/Head, alias Kim Gordon e Bill Nace. Amen. Da questo momento in poi non vorrò ascoltare alcun tipo di trillo che possa rovinare il mood zen che ho assunto oggi aspettando un paio di appuntamenti essenziali.

Era il 1991 quando usciva quello che fu l’album di esordio degli Slowdive. Io avevo 7 anni, e per Natale mi ero fatta regalare Dangerous di Michael Jackson, che il mio insegnante di danza metteva su “Remember The Time” per farci fare i pliés di riscaldamento, ed io quella musica la volevo sempre con me, dentro a un mangianastri rosa a forma di borsetta con tanto di tracolla, che se ce l’avessi ancora farei invidia a tutti gli hipster cultori di tecnologia analogica dall’aspetto kitsch. Ho incontrato i sussurri Shoegaze di Neil Halstead e Rachel Goswell solo molti anni più tardi, quando loro erano già meteore di un mondo discografico che non esiste più ed io avevo età anagrafica e necessità emotive adeguate per provarne il bisogno. Come tutte le cose che accadono quando ormai è troppo tardi, ho consumato Souvlaki e ancor di più Pygmalion (quell’ultimo album a lungo incompreso da una industria della musica che nel 95 impazziva solo per il Brit Pop) con quella impropria sensazione di nostalgia che si ha di epoche per cui non potresti provarne, dato che non ne hai fatto parte. Questo lungo preambolo è al solo scopo di dare una vaga idea del mio stato d’animo nell’apprendere del loro ritorno, una specie di seconda insperata opportunità. Forse neanche la stessa Rachel se l’aspettava più. Sale sullo stage Sony con un sorriso dolcissimo e un velo di commozione, che trattiene a stento sulle prime note di “Crazy for You” davanti a un pubblico che le accoglie estasiato. Mi intrufolo come un sorcio e guadagno la prima fila, e appesa alle transenne mi godo tutto il live senza dire una parola mentre compio l’atteso viaggio nel tempo. Rachel è discreta ed elegante, e non ha bisogno di ricorrere ad alcun tipo di escamotage scenico per assolvere al suo ruolo di front-woman. “Souvlaki Space Station” è davvero un tuffo lento, inquieto e intenso, che mi fa dimenticare ogni frenesia di questi giorni. Le giustapposizioni di chitarre di “When the Sun Hits” mi rapiscono. Credo proprio di avere la faccia di una che in questo momento non vorrebbe essere in nessun altro posto, ma in realtà non è così, perché ho come l’impressione che non sia questo il luogo adatto per godere dei dettagli di cui vivono gli Slowdive, quelle sottigliezze essenziali e impercettibili schiacciate dalla potenza dell’impianto. La cover di “Golden Hair” che rispolverano in chiusura lascia senza fiato. Ma io volevo “Alison”. Ecco, l’ho detto. E ora la smetto di ammorbarvi con i dettagli di questa specie di estasi mistica, che è ora di cena.

Oggi siamo in modalità economy quanto saggia, perciò ci siamo portati da casa qualche metro di baguette ripiena di tortilla. La decisione che quest’anno il Primavera non me lo sarei perso è stata determinata in buona parte dalla presenza dei Pixies. Nel frattempo però sono successe un po’ di cose,  come l’uscita di Indie Cindy, la divina provvidenza che nel redigere la scaletta li ha piazzati appena prima dei National, e il fatto che Lorenza, che da gennaio non faceva altro che postare pezzi di Doolittle su Facebook, alla fine si è innamorata anche lei di Matt Berninger (e fidatevi che nessun uomo al mondo prima di lui era riuscito a scalfirle il cuore). Insomma, finisce che a Francis e soci sul palco Heineken concediamo giusto di farci da sottofondo mentre noi al Sony ci ingozziamo con la cena al sacco. Un sottofondo di tutto rispetto, ma di più non saprei dire, che sono ancora un po’ perplessa riguardo a quest’ultimo nuovo album che poi tanto nuovo non è, e soprattutto sono così presa al pensiero di ciò che accadrà tra poco, che il check della batteria di Bryan Devendorf che copre “Where is My Mind?” non mi infastidisce neanche.  È il 2005 quando i National, dopo l’uscita di Alligator, ancora ignoti ai più nel vecchio continente, si esibiscono a L’Aquila, sul palchetto più sfigato tra i due allestiti alla Festa dell’Unità. Posso dire con certezza che io c’ero, ma sono altrettanto sicura di essere stata sotto il palco sbagliato. Avrò espiato questa colpa al quindicesimo live di Matt Berninger che vedrò, e all’oggi la strada è ancora lunga.

Come di consueto, Matt sale sul palco visibilmente ubriaco. Non dice nulla ma canta in modo impeccabile. Sono i gemelli Dessner che tra un brano e l’altro si sorridono con aria rassegnata del tipo “ci risiamo anche stavolta” e rivolgono a turno qualche parola al pubblico. Lui vaga sul palco col suo gomitolo infinito di cavo, sorseggia cubatas, e ogni due brani fracassa a terra un microfono. “It doesn’t make its job!”, dice, ma non è vero, è tutto perfetto, e se state pensando che il tasso alcolico infici la sua performance sappiate che non è affatto così (anzi, inizio ormai a supporre che sia una condizione necessaria per la riuscita). I brani di Trouble Will Find Me il pubblico li intona all’unisono con Matt, ma con mio enorme sollievo questo non accade con il resto del repertorio (no vabbè, mi sa che “Terrible Love” la sanno tutti). L’inconfondibile preludio archi e batteria di “Squalor Victoria” è la consueta botta di adrenalina, poi mi sciolgo nella voce calda di “About Today”. Matt si lancia nelle sue note peripezie sul palcoscenico, si arrampica sulle casse e poi si lancia tra la folla, senza smettere un attimo di cantare. Un paio di ospitate sul palco (tra cui Justin Vernon, chitarra e voce sulla coda della struggente “Slow Show”) inevitabilmente passano quasi inosservate. Matt catalizza ogni sorta di attenzione. L’impressione che si ha è che quest’uomo sia nato per fare questo, con una naturalezza da frontman che non ricorre ad alcuno stratagemma per arrivare ad un pubblico che gli unici effetti scenici a cui assiste sono il vederselo saltare addosso o al massimo il rischiare di venir strozzato dal chilometrico cavo del suo microfono. Un esercito di gente cool che inspiegabilmente impazzisce per un tipo vestito da ragioniere? Ebbene sì, e questo insolito fenomeno mi suggerisce una chiave di lettura di tutto il percorso artistico dei National: l’impasto sonoro, basi melodiche ma sincopate a cui si aggiungono arrangiamenti virtuosi e mai scontati, risulta così efficace proprio grazie al suo essere intimamente classico, nell’accezione del termine che descrive ciò che è al riparo dal rischio di tramontare in quanto non è nato sull’effimera scia di una moda, e dell’apparire modaiolo non si è mai preoccupato.

Sì, lo so, ora ci sono quegli impronunciabili dei !!! ma io ho giusto le forze per affondare la faccia in una porzione di noodles allo stand thai e cercarmi un taxi. Domani sarà la più lunga delle giornate di questa fugace Primavera.

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Rockambula al Primavera Sound, Day 2 (under the rainbow)

Written by Senza categoria

Day 2, di nuovo sotto la pioggia. Tra temporale tropicale e metropolitana intasata capisco che dovró rinunciare a John Grant. Quando spunta fuori quello che è già diventato l’arcobaleno più celebre di Instagram, le grida di gioia del popolo del Primavera assiepato in attesa sotto gli stand esplodono unanimi. Si torna di corsa sotto ai palchi.

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Neopsichedelia e bassi penetranti all’ATP con i Loop.

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Notevole la performance delle Haim, ma resto nelle retrovie perchè tra poco ho un’appuntamento importante a cui non posso permettermi di arrivare in ritardo.

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Ed eccoli qua. la performance degli Slowdive è davvero un “tuffo lento”, in un universo sonoro in grado di farsi di volta in volta sognante oppure inquieto, ma sempre più intenso.

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Dolorosa scelta quella di non lanciarsi nella folla e poter vedere i Pixies soltanto dai maxischermi, ma tra poco ho un’altra corsa all’assalto della prima fila sotto il palco Sony.

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The National, melodici e sincopati, con quella sezione ritmica così trascinante. mi lascio pervadere come ogni volta dalla voce calda di Matt Berninger, che come consuetudine si arrampica, vaga, rompe a terra un paio di microfoni, si lancia tra il pubblico. Il tutto senza smettere un attimo di cantare.

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All-Female Bands. Parte prima.

Written by Articoli

Con il termine All-Female Bands si indica un gruppo formato sostanzialmente ed esclusivamente da donne. E questo a mio parere è già un paradosso, perché il solo fatto di sottolineare la formazione femminile di una band rende il tutto un avvenimento speciale quando dovrebbe essere assolutamente normale. Ma tutto ciò, e sottolineo a mio parere, è “colpa” della storia. Della storia della musica e del potere in generale che ha sempre messo (o quasi) le donne in secondo piano, perché ritenute più deboli e meno capaci. Partendo da Nannerl Mozart (1751-1829), ritenuta di grandissimo talento, soffocato però dalla storia, dalla genialità del fratello o forse anche da se stessa. O come Teresa de Rogatis (1893-1979), chitarrista, pianista e compositrice, buttata letteralmente giù dal podio perché ritenuto troppo “scandaloso” che una donna potesse comandare a bacchetta i maestri e colleghi maschi. Due semplici esempi per sottolineare da dove veniamo. Ma la storia fortunatamente sembra essere cambiata, infatti vediamo donne che lavorano nelle orchestre, che le dirigono, come Marin Alsop, Silvia Massarelli e Giulia Manicardi, e che calcano i più importanti palcoscenici mondiali, come la chitarrista classica Sharon Isbin o Jennifer Batten, chitarrista di Michael Jackson.

La scena musicale internazionale (contemporanea e rock in generale) dell’altra metà del cielo, per dirla in termini romanzati, si sta agevolmente arricchendo e potremmo citare le Girlschool, band londinese famosa soprattutto negli anni ottanta, hard & heavy metal sicuramente nel look, anche se in “Don’t Call It Love” non si direbbe, o anche la tribute band The Iron Maidens, un copia-incolla utile solo a far sbavare i maschietti. Per il Pop-Rock non si può dimenticare The Bangles, trio americano, con all’attivo cinque album, soprattutto di ballate e cover, o le Bond, quartetto d’archi australo-americano, che contamina musica Classica con Pop/Dance, in attività dal 2001. E tante altre come le Haim, quartetto di Los Angeles  sicuramente da ascoltare, o le Thelma & Louise del Rock, Deap Vally, tra i cui pregi live ci sono quasi esclusivamente i tanti capelli e i pantaloncini scosciati. Ma l’elenco sarebbe troppo lungo.

Come in tutto il resto del mondo anche in Italia le cose iniziano a muoversi. E in questo viaggio melodico troviamo molti gruppi formati da due donne che spesso sono autrici di musica e testi, come le Amavo, duo chitarra-voce e batteria formato da Anna Lott e Silvia Lovo, attive dal 2004 e nel 2012 con il nuovo album GraceFool, fatto di Rock scomposto, dissonante, ma a tratti melodico e interessante. Oppure le Tree B***h, alias Alice Bianconi e Angelica Gallorini con il disco d’esordio Modem, di sei tracce quasi improvvisate e dal suono ancestrale, che lascia però un po’ sgomenti. E ancora un duo con le Iotatola, Serena Ganci e Simona Norato, alter-ego una dell’altra che si esprime nel primo interessante lavoro Divento Viola del 2011, dopo il quale parte la loro carriera Indie-Pop. Le She Said Destroy!, duo Noise-Pop bolognese con una biografia stringatissima, invece escono nel 2013 con la ristampa del loro Ep Conflicting Landscapes affidata all’etichetta La Stalla Domestica.

Di formazione un pochino più corposa sono per esempio le Bambole di Pezza, band italiana soprattutto milanese, che si formò nel lontano 1997, attenta oltre che all’aspetto musicale particolarmente Rock-Pop-Punk anche al mondo femminile in generale. Più variegata la formazione delle Roipnol Witch, band emiliana, che dal 2004 propone un Indie Rock alternativo a tratti anche melodico e interessante per l’alternanza delle voci (tranne che per l’elettrica rosa), che assieme alle Dogs Don’t Like Techno, che propongono un Punk-Rock misto a Noise-Sperimentale proprio per unire ricerca sonora da un altro lato intima, partecipano al movimento Rock With Mascara che dal 2005 ripropone serate musicali e itineranti, in cui sono all’attivo altre bands come le LeiBei, le Muble Rumble, le Kill The Nice Guy, trio fiorentino che scrive in inglese e ripropone ottimi live, le Doppie Punte, le Steri Strip Shotgun Babies, le Eggs Salamaini e le Anphetamina C, band all-girls milanese, con all’attivo due demo e tanti cambi di formazione, ma come loro stesse dicono “il messaggio anti sessista, anti machista e anti omofobo delle Anphetamina è rimasto sempre lo stesso”.

Gli Honeybird & the Birdies, gruppo per i due terzi femminile, miscela sonorità Indie-Rock con tinte brasiliane e psichedeliche, rendendo la loro musica molto singolare. Come ultimo loro lavoro si potrebbe citare You Should Reproduce uscito nel 2012 per la Trovarobato. Invece, due ragazze e un maschietto. Chitarra in eco perenne, voce femminile sussurrata al basso e batterista verticale, è la descrizione che i Be Forest fanno di loro stessi, giovanissimo trio pesarese che con il debutto di Cold hanno ammaliato con sonorità scure in contrasto con l’angelica voce di Costanza.

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