Quasi dieci anni di carriera e alle prese con il terzo disco, le cui tematiche s’inseriscono bene nel vissuto quotidiano di tutti noi. Infatti gli Hikobusha ci parlano del loro Disordini e tutto quello che ruota attorno alla loro musica e non solo.
Ciao e benvenuti su Rockambula. Disordini è il titolo del vostro nuovo album e sia titolo che artwork della copertina suscitano un certo impatto. E’ presente un messaggio particolare che volete mandare a chi vi ascolta?
Dato che siamo nella (in)civiltà dell’immagine, partiamo dalla copertina: l’autore è Gianfranco Enrietto, un carissimo amico e uno stimato illustratore, famoso per aver dato volto (ammesso che si possa definire tale…) ai Gormiti, creature molto amate dai bambini. Incredibile, vero? Beh, forse non è un caso che ci siamo rivolti a un esperto di giocattoli… Disordini è innanzitutto un gioco, un rompicapo, un’invenzione partorita dall’intento di sperimentare, di sporcarsi le mani e fare qualche scoperta. Stiamo attraversando un momento storico complesso, articolato, confuso. Questo pugno di canzonette vorrebbe essere una risposta al qualunquismo e alla tentazione di abbandonarsi allo sconforto, alla rassegnazione. Ci vuole un po’ di (in)sana (in)coscienza per vedere un futuro oltre questo orizzonte. Ci vuole forse anche un po’ di coraggio… per guardarsi dentro, per lasciarsi stupire dalle possibilità. In questo senso, Disordini può essere ascoltato come un’opera intima che guarda verso l’esterno, un insieme di filastrocche semiserie, un manifesto pseudo-dadaista.
Quali sono le vostre influenze musicali e da cosa vi siete fatti ispirare per la scrittura di questo lavoro?
E’ difficile citare tutti i riferimenti che, più o meno consciamente, mescoliamo quando componiamo in gruppo. Siamo tutti e quattro musicisti non proprio “di primo pelo”… Nel tempo abbiamo imparato ad apprezzare di più quello che ci differenzia, in termini di gusto, rispetto a quello che ci accomuna. Se proprio dovessimo cercare degli artisti che hanno ispirato i suoni di Disordini, forse diremmo Captain Beefhart, i Renegade Soundwave, gli Interpol, Edoardo Bennato, David Bowie, Stevie Wonder… senza ovviamente dimenticare il grande Principe De Curtis, a.k.a. Totò.
Undici tracce rigorosamente in lingua italiana meno che una, la cover di “Baby Play Dead” del combo australiano, i The Wreckery, con lo stesso Hugo Race alla chitarra. Come è nata questa collaborazione e cosa avete tratto da quest’esperienza?
Conosciamo Hugo da tempo… E’ un grandissimo musicista e una persona realmente unica, un vero sciamano del blues elettronico, uno stregone zen, un pastore nomade della musica. Averlo potuto ospitare in Disordini è una di quelle cose che ti ripagano di anni di semi-anonimato, rintanati a suonare nei club della nostra amata/odiata Provincia. Quando è venuto a registrare, abbiamo cercato di prepare ogni piccolo dettaglio… Strumentazione, amplificazione, suono: tutto doveva essere perfetto e degno del suo nome. Al termine della prima take di registrazione, ci ha detto con il suo inconfondibile accento anglofono: “Mi sembra buona, anche se non sentivo bene il mio ritorno”. Abbiamo quindi scoperto di avergli fornito una cuffia malfunzionante! Inutile dire che era “buonissima la prima”… I grandi artisti si riconoscono per quello che riescono a tirare fuori dalle limitazioni e non certo dall’abbondanza di mezzi… L’ennesima grande lezione zen. Grazie infinite, Hugo. Ti siamo debitori come sempre, per questo e per tanto altro… lui lo sa bene. E non la fa tanto lunga per questo. Ecco un’altra perla di zen che tanti cosiddetti artisti nostrani dovrebbero mandare a memoria…
Qual’è il pezzo di Disordini che rispecchia quello che sono gli Hikobusha?
E’ difficile privilegiare un solo brano… Nel pezzo che chiude l’album, prima della bonus track, si sentono le nostre voci, tagliate e rimontate, che si accapigliano sulle scelte di copertina e di atrwork del libretto a corredo del disco. Noi siamo così: tensioni, litigi, fragili alleanze, grandi entusiasmi, spazi vuoti, pagine da riempire, sudore e saturazione. Stare in un gruppo è come una seconda famiglia… altrettanto disfunzionale e misteriosamente amorosa e protettiva. Hikobusha è proprio questo. E tanto altro.
Tre album e quasi 10 anni di attività. Come si trovano gli Hikobusha dal passare dai tempi degli esordi dove la tecnologia e internet non era così fondamentale ad adesso, dove tutto ruota attorno al digitale. Come è cambiato il vostro approccio alla musica e al pubblico?
Quando abbiamo iniziato questo progetto, nell’ormai lontano 2005, le potenzialità della Rete e della produizione digitale in Italia lasciavano intravedere orizzonti allettanti ma piuttosto fumosi, poco definiti. Oggi le cose non sono poi così diverse: il cosiddetto “panorama alternativo musicale” sembra essersi polverizzato in una miriade di micro-scene, rischiosamente autoreferenziali e inesorabilmente estranee agli ascolti di massa. Centinaia di “mi piace” su un profilo e pochi, sinceri amici nella vita reale. E va bene che sia così, in fondo. Sin dagli esordi abbiamo provato a raccogliere la sfida di proporre un suono articolato e sperimentale accanto a testi e a forme-canzoni tradizionali, rinunciando alla musica d’intrattenimento per inscenare la nostra personale visione di arte “invasiva”, che si fa spazio dal basso e prova a stimolare domande, critiche, sorprese, incontri. Come tutti, ci siamo progressivamente dedicati alla promozione multi-piattaforma: youtube, suoudcloud, twitter e altro. Ma niente di tutto questo eguaglia l’emozione di comporre insieme trovandoci nella stessa stanza, pensando a come questo sforzo, a tempo debito, incontrerà coloro che verranno al concerto, durante quell’ora e mezza che vale mesi di preparazione, attesa e incertezza. Quindi, le cose per noi non sono tante cambiate: si aggiornano le schede audio e si fa il backup delle registrazioni… poi però si sale sul furgone e lì inizia il divertimento.
A proposito dei 10 anni di attività, è un bel traguardo. State preparando qualcosa di speciale per i vostri supporter?
Stiamo raccogliendo materiale dei concerti dal vivo, sarebbe bello poter proporre un piccolo “bootleg” per i nostri fan e gli affezionati dell’ultima ora, in modo da offrire una specie di “istantanea” più istintiva e viscerale dei brani su disco, sia di quelli recenti che degli altri. In primavera realizzeremo poi un secondo video associato a Disordini; stiamo vagliando diverse ipotesi e collaborazioni. Infine, ci piacerebbe arrivare a suonare su nuovi palchi, girando il più possibile per i club dello Stivale e inserendoci nei Festival estivi.
Grazie per la chiacchierata ragazzi, lascio a voi le ultime righe.
E’ stato un piacere. Vi salutiamo ponendovi un quesito. D’altronde, la bellezza di una domanda spesso non risiede nella risposta ma piuttosto nel fatto di raccogliere una sfida, una provocazione. Come nelle interviste. Come in questa intervista. Ecco: vedere l’assurdo non è meglio che non vedere niente?