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Death SS – Resurrection

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C’è poco da fare, quando si parla di Steve Sylvester e dei suoi Death SS si spendono solo belle parole, questo perchè si va incontro alla garanzia e ci si imbatte in un marchio di fabbrica registrato. E’ vero che per la storica band tricolore gli ultimi anni sono stati poco positivi, non per questo sono reduci da una “sorta” di scioglimento e la reunion è avvenuta proprio grazie a Resurrection (la loro nuova fatica nonché oggetto principale della nostra recensione). Ogni opera dei Death SS ha sempre una singolare caratteristica che distingue il nuovo disco dal precedente; da sempre la loro bravura sta anche nel far differenza addirittura tra i pezzi stessi dell’album, ogni traccia rappresenta un’esperienza diversa, Resurrection ne è la prova. La proposta della band è la solita: Heavy Metal di alta qualità con riff, assoli, eleganti giri di chitarre e superlative atmosfere, nulla è messo da parte e i tanti anni d’ esperienza di Steve e soci hanno un peso specifico notevole. Come già detto in precedenza ogni pezzo ha un proprio punto di forza, una particolare caratteristica che rende particolarmente unica la produzione dei Death SS, una sorta di continua attrattiva verso ogni singola proposta del platter. “Revival”, ovvero la traccia d’apertura, è quella più elettronica dove l’ uso degli effetti e delle tastiere è davvero consistente, caratteristica presente anche in altri pezzi come “The Darkest Night” e “Star in Sight”.

Il contributo di Freddy Delirio è stato a dir poco fondamentale. “The Crimson Shrine” e “Dionysus” sono atmosferiche ballate che strizzano l’occhio al Gothic, anche in questo caso la band mostra chiaramente le mille sfaccettature di Resurrection, non tralasciando mai però le salde fondamenta dell’Heavy Metal. Un plauso speciale va alla coppia Freddy Delirio e Glenn Strange che, più di una volta, si rivelano parte fondamentale del disco, ascoltare la cupa e tendenzialmente horror “Ogre’s Lullaby” per rendersene conto. Passiamo ad un altro brano forte del disco di Steve Sylvester, si tratta di “Santa Muerte”, una song aggressiva che sfodera probabilmente i più bei riff dell’intero supporto. Resurrection è un lavoro dai mille volti, la genialità di Mr. Sylvester ne esce alla grande, è facile comprendere l’estro artistico di un artista dalle larghe vedute. Questi Death SS dopo tanti anni sono ancora in grado di sbalordire il pubblico, senza troppi giri di parole sono una vera e propria garanzia del genere in Italia.

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Superhorrorfuck – Death Becomes Us

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Superhorrorfuck: un nome che già lascia intendere per esteso l’obiettivo di questo quintetto veronese (rimaneggiato per 3/5 dalla loro line-up originale) che dal 2005 “terrorizza” mezz’Italia con le sue esibizioni sanguigne, irriverenti, fatte apposta per quella fetta di pubblico ancora affascinata dalla teatralità grandguignolesca tipica del re del trash Alice Cooper. Quel che terrorizza di più, in verità, è proprio il loro concept che racchiude quel che di più pacchiano, forzato e grossolano gli anni Ottanta ci hanno offerto. I riferimenti musicali ed estetici dei Superhorrorfuck sono più chiari dell’eccentrico make-up del loro frontman Dr Freak, una sorta di Dee Snider incrociato con un Marilyn Manson un po’ troppo acchittato e dal cantato sguaiato; per completare quest’immagine effetto photoshop, metteteci pure una punta del più aggressivo Axl Rose, se volete. Tutta la scena Street Metal e Glam Metal anni Ottanta (Motley Crue, Twisted Sister, Guns N’ Roses) viene rimescolata all’Horror Punk caro a band inarrivabili come Cramps e Misfits, il tutto senza brillare né per inventiva né per originalità, scadendo in un’avvilente banalità.

Musicalmente la proposta dei Superhorrorfuck non si discosta affatto dai suoi punti di riferimento storici sopra citati: pezzi tirati, riff ed assoloni Hard Rock, coretti e refrain melodici presi dai Bon Jovi più struggenti, ma tutto ciò avviene senza convincere, senza coinvolgere. Già dalla prima traccia “Dead World I Live In”, s’intuisce lo sterile tentativo di riesumare dalle tombe zombie, cannibalismo e satanismo finendo per mettere sul piatto un minestrone kitsch che rende l’ascolto del brano insipido. “Voodoo Holiday” è un pezzo di puro Rock N’ Roll che, per quanto semplice e parodistico, incarna perfettamente il pensiero di questi aspiranti zombie nostrani: “Can you guess how it feels being a rockstar living-corpse? Zombie slayers stalking me to blow away my head, horny groupies huntin’me to blow me on my bed […] Stress is bad for living dead, i need a Voodo holiday!”. E a questo punto quasi rinuncio all’esplorazione dei testi per paura di ritrovarmi di fronte frasi fatte e logore. L’intro drammatico di “The Ballad of Layla Drake” sembra far presagire qualcosa di differente, le tastiere sataniche in sottofondo rendono il brano quasi interessante, ma l’effetto dura poco e si torna subito a danzare con i morti.

Gli episodi migliori del disco sono “Break Your Shit” dalla ritmica spedita e punkeggiante e “Horrorrchy Pt. III, The Lord”, un buon brano Heavy Metal ma questo non basta: Death Becomes Us non può essere salvato neppure da un rito Vudù. Forzatamente controcorrente, forzatamente sopra le righe in realtà non provocano, non stupiscono per presenza scenica, né colpiscono per la qualità della loro musica. Forse destinati a rimanere confinati nella loro nicchia ma probabilmente non desiderano neppure uscirne.

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